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    Gli stati generali del “Manifesto”

    (18 Dicembre 2006)

    Ragioni insuperabili dalla semplice volontà mi hanno impedito di partecipare agli Stati Generali del “Manifesto”: un appuntamento che, pure, pensavo di poter rispettare.

    Ho letto il primo sommario resoconto, apparso domenica 17 Dicembre, ed ho pensato di scriversi queste poche righe, soltanto per segnalarvi un certo senso di “insufficienza” rispetto alle argomentazioni usate, complessivamente, per segnalare ed affrontare l'evidente stato di difficoltà del giornale.

    Non si tratta, infatti, almeno credo del reclamare “più inchieste” (un vecchio leit – motiv) o più presenza sul territorio, o ancora, di usare la lingua di Dante, inteso nel senso del ferroviere e, neppure, di scrivere articoli più brevi ed accessibili.

    Il nocciolo, forse, lo coglie chi dice di considerare il Manifesto un contenitore di “discussione forte”, ma poi di constatare che il più delle volte il giornale non soddisfa più questa esigenza.

    Il problema, insomma, è la politica e - soprattutto – la trasformazione dell'agire politico, realizzatasi nel corso di questi anni.

    Vedete, credo che nell'affermare via, via l'autonomia del giornale dai soggetti politici, ci si sia dimenticati delle origini vere, che furono origini legate ad “progetto politico”, fatto insieme di prospettive ideali, visione ideologica del mondo, programmi sull'agire quotidiano, militanza.

    Aver dimenticato, messo da parte, queste origini ha portato,via, via, all'omologazione: al punto che, ad esempio, sull'assemblea dei segretari confederali a Mirafiori sono stati più puntuali i giornali espressione dell'illuminismo borghese.

    La crisi del Manifesto è un riflesso, evidente, di una crisi di parte della sinistra davanti a questa trasformazione dell'agire politico, dell'assenza di ricerca ideale, della mancata ridefinizione degli obiettivi di trasformazione della società ( molto più grave, comunque, la crisi dei soggetti politici: pensate a Rifondazione Comunista, trasformata in un apparato paragovernativo da un ecumenismo davvero imbarazzante).

    Il Manifesto non vive se non lega la proprietà identità ad un progetto politico, che parta da una diversa concezione dell'agire quotidiano in relazione ad un progetto alternativo di società, mettendo in discussione le coordinate degli “altri”: queste possono apparire parole vuote, ma se si pensa davvero da quale tronco nacque il “nucleo storico”, quale tipo di contestazione fu portata a fondo nei confronti del più grade soggetto politico della sinistra occidentale in quel tempo (sui nodi decisivi: la collocazione internazionale, l'analisi della società, la concezione della democrazia).

    Ebbene, sarebbe ridicolo, da parte mia, chiedere di tornare a quei tempi irrimediabilmente passati: ma il Manifesto non può vivere sulle vendite o sugli abbonamenti strappati per abitudine o per via della “mozione degli affetti”.

    Il Manifesto per vivere ha bisogno di riaffermare, con grande forza, la sua necessità di essere giornale di una comunità militante, che non si lega agli schemi correnti, ma progetta e riprogetta una idea di società.

    Poi che l'archetipo di questo progetto possa essere l'idea di comunismo, come parti eretiche di quella storia l'hanno pensato nel secolo scorso, è un'altra questione....

    Grazie per l'attenzione

    Savona, li 17 Dicembre 2006

    Franco Astengo

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