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Esopo ad Assisi

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(26 Settembre 2011) Enzo Apicella

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In attesa della guerra... gli “aggiustamenti strutturali” tra F.M.I. e missioni militari

Alcuni problemi del movimento contro la guerra e la ripresa di una discussione militante.

(20 Dicembre 2006)

Da più parti si è rimasti impressionati dal fatto che il movimento da Seattle in poi sia stato capace fino ad una certa data di sorprendere gli organizzatori, sia manifestandosi con esuberi sia scomparendo senza lasciare traccia, per poi apparire di nuovo. Capita spesso di sentire che anche oggi sarebbe consigliabile non essere quindi troppo pessimisti sul movimento “no war” che sarebbe una sorta di versione ingrandita del movimento “no global”. Tuttavia, da questi consiglieri –se ben si riflette- non è venuta una sola proposta, in questi tre anni, di mobilitazioni. Quando essi hanno aderito alle mobilitazioni dei “pessimisti” si sono sempre prima distinti per impedire che si facessero. D’altra parte, essi non riescono a spiegare perché il loro ottimismo non si traduce in una loro iniziativa di massa e si esaurisce invece per lo più in riunioni sempre più clandestine.

LA SOGGETTIVITA’ COME CAPRO ESPIATORIO
Si sente allora dire che il movimento contro la guerra non riemerge per colpa nostra, cioè dei “settari”. Questa critica assume come unità di analisi il movimento che raggiunse le dimensioni dell’inizio 2003 e fu enfatizzato dal New York Times come “seconda potenza mondiale” e al quale (solo) noi non sapremmo più rapportarci. Il sottinteso di un’affermazione come questa è che tale movimento è ancora presente, sedimentato, si aggira in canali che sfuggono all’occhio della tradizionale politica; non riemerge però perché ancora scosso dalla potenza militare del suo cinico avversario, forse ancora paralizzato dalla sua impotenza a misurarsi muro contro muro e dubbioso sulla ricerca di forme di lotte che non possono essere più quelle vecchie, ineluttabilmente destinate al famoso scontro finale guidato dai vecchi, rudi eroi anarchici e bolscevichi. Quindi, il movimento potrebbe riapparire con le sue nuove “leggere” modalità, quanto meno te lo aspetti, ma gli deve essere offerta l’occasione da una soggettività politica rimodulata alla “soft revolution”.
Non ci sarebbe nulla di male in queste congetture, se con esse si volesse consigliare maggiore apertura a forme inedite di mobilitazione, attenzione ad occasioni non previste dai manuali convenzionali della politica, perfino pazienza di non precipitarsi sempre in manifestazioni di minoranza. La preoccupazione è però d’obbligo quando con le stesse si finisce per proporre una linea sistematica di inazione e di nullismo politico o per denigrare perfino qualsiasi riunione, che non veda la presenza di tutte quelle componenti politiche, formali e informali, perfino le più moderate, che scesero in piazza nelle mega-manifestazioni del 2003.
In buona sostanza, la scelta del corteo contro l’invio delle truppe Onu in Libano viene squalificata come un ritorno a non meglio precisate pratiche autoreferenziali che non coglierebbero la complessità del nuovo movimento di massa e vagheggerebbero ancora vecchi percorsi di trascrescenza fino alla mitica ora x.. Noi non sapremmo più rinunciare ai nostri pregiudizi ideologici, per offrirci in una rete unitaria con i cattolici e i riformisti in una dinamica di contaminazione, che tanto avrebbe incoraggiato le masse post-classiste nella direzione di uno svuotamento del potere dal basso. Alla domanda se la rinuncia ai “nostri pregiudizi ideologici” avrebbe dovuto comportare anche la proposta di manifestare senza opporsi all’invio dei militari in Libano ci è stato risposto affermativamente: sarebbe stato sufficiente un invito ad un’articolazione di obiettivi concreti più condivisibili. E di articolazione in articolazione ci è capitato di sentire compagni disponibili a considerare la correttezza dell’obiettivo “due popoli, due Stati” come soluzione al problema palestinese, che invece un autorevole intellettuale, come Danilo Zolo, che non ha mai partecipato ai nostri riti orgiastici identitari, ha definito “una patetica illusione e una crudele impostura”.
Evidentemente, queste critiche vengono svolte con una certa distrazione su fatti e comportamenti che hanno caratterizzato il periodo della nostra “svolta”.
In primo luogo, quando a giugno e luglio tentammo di opporci al rifinanziamento della “missione” in Afghanistan, concordammo di farlo insieme con la sinistra critica, rappresentata in parlamento, e alcuni centri sociali. Fummo talmente unitari, che ci venne perfino l’accusa di voler sostenere l’azione parlamentare della prima. Fu poi la sinistra critica a defilarsi da qualsiasi mobilitazione di piazza, quando fu ricattata dal governo “amico”, e furono i centri sociali che improvvisamente si ricordarono che nella loro agenda setting la questione guerra era tornata nelle note e piè di pagina.
Secondo significativo episodio, anzi un episodio che parla da sé. La manifestazione nazionale del 18 novembre, indetta a Roma dal Forum Palestina, pur su una piattaforma minimalistica dove neppure si nominava il Libano, non solo non ha portato la sinistra critica e i cattolici alla Zanotelli a parteciparvi, ma li ha visti aderire a quella di Milano dove primeggiava D’Alema. Si è detto: a aderirvi con il mal di pancia. Certo, come il solito.

Il movimento quindi potrebbe essere ancora là –come testimonierebbero peraltro alcuni sondaggi- e aspetterebbe solo l’occasione e l’imbeccata giusta per tornare sulla scena.
Questa idea apparentemente ottimistica, è –come già sopra cennato- la fonte ispiratrice che, paradossalmente, si esprime in una posizione politica che ottimista invece non è. Come è emerso nell’incontro del 16 dicembre a Roma, gli esponenti della “sinistra critica” politica e sindacale se ne sono fatti portatori per suggerire, in mille modi, a chi ha continuato a scendere in piazza contro le spedizioni militari, di ricercare anche le più impossibili unità per dare il segnale giusto ad un’amplissima disponibilità di massa a battersi contro la guerra.
E’ il caso di fare qualche considerazione su questo discorso che in modo suggestivo rischia di paralizzare qualsiasi iniziativa.
Ritengo altamente improbabile che la ripresa del movimento “no war” possa avvenire tramite una giusta imbeccata, per di più agitando gli stessi temi, di nuovo rivolta immediatamente a quegli stessi larghissimi settori sociali che già, in modo sorprendente, sarebbero apparsi e scomparsi nelle piazze fino ad una certa data. In altri termini, penso sia sbagliato ridurre i nostri compiti ad una capacità di apparire indiscriminatamente unitari, sia pur in rete conservando le proprie autonomie, e quindi di azzeccare alcune mosse mediatiche. L’attitudine ad agire in rete –oltre il frontismo a volte diplomatico a volte strumentale- è un passo avanti che ha però senso solo se si raccorda a potenzialità di movimento, se sa interrogare le soggettività sociali piuttosto che attardarsi in assurde mediazioni politiche nelle quali tenere dentro perfino chi grida “forza onu”.

MOVIMENTO “NO WAR” E MOVIMENTO “NO GLOBAL”
Come punto di partenza per spiegare questa improbabilità, è opportuno non confondere alcune caratteristiche, che hanno distinto il movimento “no global” dal movimento “no war”. I due movimenti si sono incrociati, ma non si sono confusi. O almeno non si sono confusi a tal punto da poterci autorizzare a sostenere che anche il “movimento “no war” può apparire e sparire per poi di nuovo apparire.
Il movimento “no war”, di cui si sente la nostalgia, cioè quello visto nella sua fase di massima espansione, si è dato su alcuni motivi eccezionali, che possiamo ben chiarire con un minimo di razionalità e realismo politico, senza necessità di presupporre entità mistiche o misteriose. Motivi eccezionali che –a mio avviso- pur essendosi aggiunti a quelli “no global”, in parte combinandovisi, non si sono sedimentati e quindi si sono successivamente volatilizzati.
Mi rendo conto che questo tipo di approccio analitico non viene rifiutato solo perché spesso le soggettività organizzate cadono prigioniere di una sorta di coazione a ripetere o perché sperano nel miracolo delle epifanie: c’è di mezzo anche una rispettabile concezione olistica della realtà e dei processi che a volte si lascia prendere la mano. Mi permetto però di far notare che chi ha ipotizzato una consistenza duratura di tutto il movimento “no war” (così come espressosi nei primi mesi del 2003), finora non è andato oltre affermazioni apodittiche, del tipo “esso ha avuto una dimensione straordinariamente inedita” o “esso è il risultato di un processo cumulativo di crescita del movimento iniziato a Seattle. Insomma, si è esercitato in congetture, con pretese post-marxiste, non fondate su una reale sociologia politica.
L’incuria nell’impegno a motivare affermazioni come queste può anche essere comprensibile quando le cose vanno per il meglio. Nella lotta vanno bene anche gli atti di fede e le reazioni emotive. Non può essere lasciata correre, quando tali affermazioni sono contraddette perfino clamorosamente dalla realtà fenomenica. Non parlo solo di una sostanziale stasi che in Europa dura da più di 3 anni, ma anche della passività totale del movimento dopo l’occupazione dell’Iraq. A quest’ultimo riguardo, non può essere assunta come una buona spiegazione quella di Tronti (che peraltro del movimento se ne infischiava espressamente) secondo cui il movimento sarebbe stato messo sotto choc dalla cinica arroganza di una controparte potentissima. Una spiegazione del genere, che da alcuni venne assunta come alibi per giustificare la loro scarsa propensione a mobilitarsi in sopravvenute condizioni di impopolarità, mette involontariamente a nudo solo quanto si vorrebbe disperatamente negare, cioè che quel movimento qualche problema lo aveva. Sostenere infatti che la strapotenza dell’avversario ha mandato a casa il movimento “no war” dopo il marzo 2003 è come nominare in altro modo quella debolezza di cui ci si rifiuta, a volte perfino istericamente, di parlare. Tanto più è incomprensibile questa spiegazione, se si pensa che essa vuole giustificare, con la cattiveria dell’avversario, una paralisi immediata e duratura di quella che si credeva essere la seconda potenza mondiale. Una spiegazione questa che peraltro non si confronta con il fenomeno di altri movimenti, pur di “minori” dimensioni, che, trovatisi di fronte a mosse spiazzanti di avversari cinici e arroganti, hanno sì subito un primo disorientamento, ma sono riusciti poi a superarlo. Nel peggiore dei casi, ci sono state reazioni, ritirate in buon ordine, quasi mai la scomparsa totale nel silenzio più assoluto senza neppure essere stati sconfitti sul campo.
Qualcuno potrebbe replicare: ma proprio qui sta la straordinaria novità del movimento, la sua intelligenza tattica di sparire per non scontrarsi su un terreno e in un momento sfavorevole. Ripeto, non mi scandalizzano più perfino le concezioni mistiche, sono convinto però, sfidando l’impopolarità, che il comportamento del movimento “no war” possa ancora essere interpretato con metodi “convenzionali” (che peraltro non negano e anzi ben possono interpretare nuove forme di conflitti).
In tal senso, va fatta un’altra forzatura contro l’eufemistica retorica corrente che assume come unità di analisi solo il movimento “no war” a ridosso o a seguito del movimento partito da Seattle. Un’analisi comparativa che parte dal 1991 ci aiuta meglio a capire le ragioni della sua straordinaria impennata alla vigilia dell’aggressione all’Iraq, L’espansione temporale non è arbitraria, perché gran parte delle soggettività politiche del 2003 erano le stesse degli anni Novanta, durante i quali si produssero una serie di mobilitazioni contro le missioni militari; gli stessi erano i protagonisti delle missioni con a capo sempre gli Stati Uniti, sia pure con alleanze a geometria variabili; gli stessi erano i bersagli delle missioni, cioè paesi periferici. Sotto un profilo assorbente, sia il 1991 sia il 2003 vedono sotto tiro lo stesso paese e perfino lo stesso governo.

L’ECCEDENZA DEL MOVIMENTO CONTRO BUSH
Valutando tutta la traiettoria del movimento “no war”, è innegabile che è sorprendente la sua inedita impennata verso l’alto degli inizi del 2003, ma nel contempo capiamo che essa è sincronizzata con un motivo eccezionale, palpabile, non etereo, peraltro sulla bocca dei più: la paura di una nuova guerra mondiale, nell’era atomica, innescata dalla scelta unilaterale di Bush. Sicuramente è intervenuto molto solidarismo, soprattutto di tipo cattolico, ma è difficile cogliere nell’umore maggioritario del periodo un sostegno a chi stava per essere aggredito. Un sostegno del genere si sarebbe qualificato come antimperialistico, nella sostanza oltre che nella terminologia, ma non pare sia stato espresso se non in qualche esecrato striscione di coda. Quel movimento aveva i piedi e la testa, ancor più il cuore, contro la guerra non contro un’aggressione. E quando pure si alludeva con il termine “guerra” ad un’aggressione illegittima ad un piccolo paese, il pensiero correva al caso analogo dell’aggressione alla Polonia che fu preludio appunto della seconda guerra mondiale.
Faccio questa annotazione senza alcuna intenzione svalutativa, ma solo per capire le ragioni del successivo riflusso. Men che meno intendo associarmi a chi ha voluto squalificare quel movimento come un sostegno alle ragioni delle grandi potenze europee, tagliate fuori dall’unilateralismo di Bush. Non posso essere svalutativo, perché ho ben presente che alla vigilia delle due guerre mondiali non si scatenò alcuna opposizione pacifista e anzi toccò assistere a velenose manifestazioni di sciovinismo di massa. Escludo che il movimento sia stato un sostegno alle ragioni di una Francia o di una Germania o dell’Italia di Prodi, in quanto non perdo di vista non solo la sua inedita portata mondiale, con piazze in sintonia dal Nord al Sud e dall’Est all’Ovest, ma soprattutto per la sua forte presenza nei territori dei due paesi aggressori.
 Quindi, onore ad un’umanità –data spesso definitivamente per vittima di utopie negative- che ha paura e ripudia attivamente la guerra!
Ma di questo si è trattato. E in tale presupposto, quando la gran parte della gente che era scesa nelle piazze si è resa conto, dopo l’occupazione dell’Iraq, che il pericolo della guerra era provvisoriamente scongiurato, è tornata di nuovo al rango di opinione pubblica o, se si preferisce, di società civile. Con un po’ di fraseggio situazionistico, si potrebbe anche affermare che il movimento “no war” si sia inabissato non perché sconfitto, ma perché pago del risultato rispetto all’obiettivo prefissosi.

DIFFICOLTA’ DOPO LA RIPRESA DEL MULTILATERALISMO
Pur con tutta la mia passione per la politica, non sono tra quelli che pretendono prestazioni eroiche a getto continuo dalla gente, massacrata dal lavoro, afflitta da varie preoccupazioni quotidiane o alla ricerca di facili evasioni. Niente di male quindi nel fatto che l’onda sia rifluita, tanto più che si è attestata in un’opinione maggioritaria che ha continuato a dissentire sull’occupazione dell’Iraq. Nel contempo, non riesco a cogliere in un fenomeno del genere alcuna straordinaria novità, alcuna ingegnosa intuizione o misteriosa intelligenza collettiva nella cui supposizione si sta invece esercitando un vero e proprio accanimento analitico, a volte con una macerazione autocritica, per non essere all’altezza della sua comprensione, che sfiora l’autoflagellazione psico-maoista in salsa post-moderna.
Non ci voleva molto per leggere che l’avallo dell’Onu all’occupazione, quindi la possibilità di negoziare la compartecipazione di Francia e Germania alla stessa, allontanava il pericolo della guerra. Naturalmente, non va escluso che un primo ritrarsi del movimento sia stato causato anche dalla sua incapacità di impedire l’occupazione, ma l’elemento determinante è stato il nuovo clima di tendenziale collaborazione tra le grandi potenze, ancor più confermato dall’invio di truppe di “pace” da una serie di altri paesi, Italia e Spagna in testa, che non avevano preso parte alla “guerra”.
A rendere poi più problematica una continuità del movimento fu una sorprendente resistenza armata in Iraq, che, a quanto pare, pur in condizioni apparentemente proibitive, non si lasciò disorientare dalla prima potenza mondiale. Come tutti ricordiamo, questo fenomeno scatenò interminabili discussioni, portando ad opporre a chi voleva scendere di nuovo in piazza i vecchi “se e ma”. Se vogliamo essere più precisi, in quel periodo dilagò una vocazione al pacifismo assoluto, di varie intonazioni e fino alla più volgare ipocrisia, che suggeriva di considerare qualsiasi resistenza armata alla stessa stregua di un terrorismo fine a se stesso: autonomo –si arrivò a dire- da qualsiasi esigenza delle masse, anche le più violentate e oppresse; autonomo come uno Spirito Maligno che cerca solo i suoi adepti.
Tornammo così alla fase che precedette la scelta unilaterale di Bush, perfino con tutti i suoi tic. Una fase che pur caratterizzata da continue aggressioni non mise in allarme l’umanità o, più precisamente, non la mise politicamente in allarme contro la guerra. Quelle aggressioni infatti erano gestite collettivamente. Naturalmente, suscitarono anche molte proteste, ma esse erano stentate e bilanciate da molti “se e ma”. Quella fase non può essere archiviata come un’altra storia, accettando la pretesa di Bush che l’11 settembre 2001 rappresenti la svolta. Va ripetuto, a costo di diventare noiosi, che l’attentato dell’11 settembre 2001, a chiunque lo si voglia attribuire, si inserisce in quel contesto che prende avvio nel 1991, anche se ripugna ad alcune sensibilità mettere sullo stesso piano Clinton e Bush. Se non ci facciamo sopraffare da un eccesso di formalismo, non è plausibile distinguere i protagonisti di “guerra agli stati canaglie” da quelli della “guerra al terrorismo”. I gatti, sebbene talvolta bianchi e talvolta neri, sono irresistibilmente spinti dalla stessa comune felinità a mangiare i topi. Una distinzione hegeliana sul colore dei gatti può essere utile solo in un dibattito salottiero per valutarne la diversa bellezza. C’è da supporre che dal punto di vista dei topi una raffinatezza del genere abbia poco senso.

L’INFLUENZA “NO GLOBAL” SUL GRIDO LIBERATORIO DI STRADA
E’ pur vero che l’aggressione all’Afghanistan, pur collettiva, inquieta molta gente dando maggiore respiro alle mobilitazioni. Attribuire però l’innesto della marcia in più alle inezioni ricostituenti del movimento partito da Seattle e proseguito, in Italia, a Genova, appare affrettato e sbrigativo. I “no global” hanno indubbiamente partecipato alle proteste contro l’aggressione all’Afghanistan, ma in accesa polemica nelle piazze e nelle assemblee con i setolosi “se e ma” ancora molto ingombranti. Mi sembra più credibile ipotizzare che qualche faccia in più, e più arrabbiata, rispetto agli anni Novanta e allo stesso movimento “no global”, si è vista perché si percepiva che la spedizione è stata imposta dagli Stati Uniti, destando quindi maggiori timori sul pericolo che si aprissero divergenze insanabili tra le grandi potenze, anche perché detta spedizione si inseriva in uno scacchiere troppo vicino alla Cina. In un paese come l’Italia il maggior abbrivio ha ricevuto forza dal fatto che al governo c’era da poco Berlusconi.
In tali premesse, l’imponente impennata del 2003 non può non essere vista in stretta relazione con l’allarmante scelta unilaterale di Bush. Non può, cioè, essere esaminata senza la sua accentuata specificità temporale, almeno per quanto riguarda la sua esuberante eccedenza che fu portata in piazza anche tramite dispositivi assolutamente non convenzionali, quali le assemblee dei condomini.
Con ciò non intendo affermare che quell’eccedenza si sia mossa su un piano del tutto separato e così negare che abbia subìto l’influenza, durante quello specifico periodo, del movimento “no global” in contrasto con la strumentalizzazione operata dalle forze che poi avrebbero formato il governo di centro sinistra. E’ anzi da valutare che senza la spinta “no global” non ci sarebbe stato quel vero e proprio grido liberatorio “senza se e senza ma” pronunciato da Gino Strada e non ci sarebbe stata alcuna simpatia per il “train stopping”. Mi preme invece richiamare l’attenzione sul fatto che tra i motivi “no global” intrecciati con le legittime esigenze alle ribellioni delle popolazioni aggredite e l’opposizione alla guerra non c’è stata compenetrazione ma solo sovrapposizione con provvisoria interrelazione. In altre parole, il movimento generale contro la guerra, pur influenzato sull’obiettivo specifico che lo aveva spinto nelle piazze, non ha interiorizzato quegli altri motivi, senza i quali oggi –come cercherò di dire poi- manca la pulsione a battersi.
A questo ragionamento è capitato di sentire opporre l’osservazione che la compenetrazione ci sarebbe stata e sarebbe stata molto più profonda. Non colta da spiriti superficiali come il mio, essa si sarebbe manifestata su altri campi di lotta, dove ancora una volta la gente comune, a frotte, si sarebbe reincontrata, in un clima di contaminazione, con le soggettività politiche. Gli esempi più significativi sarebbero rappresentati dalla lotta “no tav” in Val di Susa, contro l’inceneritore di Acerra, contro il CPE in Francia.
Ora, proprio perché questi esempi parlano d’altro, due possono essere le conclusioni. La prima è quella di alcuni centri sociali, secondo cui la questione “guerra” in tutte le sue accezioni è fuorviante o la guerra è ovunque…e da nessuna parte. La seconda –alla quale aderisco- è di prendere atto che un movimento contro il pericolo di una grande guerra non c’è più e che i compiti della nuova fase contro il militarismo devono porsi su un terreno diverso. Certo capitalizzando il passato, certo sapendo utilizzare strumenti di comunicazione oltre i classici volantini, certo con la fiducia che “si può”, ma afferrando quali sono i nuovi temi e i possibili nuovi protagonisti sociali di una battaglia contro le aggressioni militari. A meno che –con il riferimento alla lotta “no tav”, ecc.- non ci si voglia confusamente far presente quanto alcuni centri sociali dicono e in fondo hanno sempre detto espressamente.
Ad ogni modo, anche gli esempi di cui sopra mettono in luce che l’eccedenza di massa si produce su obiettivi specifici, che interessano quella massa, e però si esaurisce anche con la percezione dello scampato pericolo. E’ comunque un fatto positivo, ma in tutti i casi non possiamo sostenere che il movimento abbia raggiunto un obiettivo. Ha impedito quello dell’avversario. Anche nel caso del movimento contro il CPE, resta aperta tutta la problematica della precarietà. Per mancanza di spazio qui non mi addentro nella ricerca avviata da altri compagni relativa ai punti deboli anche del movimento “no global”, cioè relativa a quella sorta di autocompiacimento oscillante tra esaltazione di capacità mediatiche ed enfasi sulla positività della “lean organization”.
Mi preme qui sottolineare che, come è già accaduto nel 2003 al movimento “no war”, si ripete il fenomeno dell’apparire in grandi dimensioni per contrastare un pericolo per poi sparire a pericolo apparentemente cessato. Il fenomeno è nuovo, ma non deriva da eccezionali capacità di una (troppa) idealizzata soggettività di massa. Almeno non in questa fase. Oltre che sull’emergenza di nuovi settori sociali refrattari alla rappresentanza politica e che in tendenza possono rappresentare una risorsa anticapitalistica, si dovrebbe riflettere sulla coincidenza della dismissione, da parte delle grandi organizzazioni riformiste, della loro pesantezza di massa, in quanto non più compatibile in un contesto di gestione, non più di riforme anche minime, ma del “meno peggio”. Se non abbiamo perso la testa, dobbiamo ammettere che le grandi lotte ci sono sempre state, anche improvvise e con espressioni di rinnovata creatività. Nel passato esse si sedimentavano in mastodontiche organizzazioni, per cui il loro peso continuava ad essere visibile nella rappresentanza politica. Ma, tranne che in fasi rivoluzionarie o di acutissimo antagonismo sociale come nel ’68, non si sedimentavano neppure allora nelle organizzazioni antagoniste. Oggi, non si sedimentano da nessuna parte perché non hanno più rappresentanza per la riforma e non possono averla, ma ciò non costituisce ancora un punto di forza. A meno che non si coltivi la velleità di sostituire il vecchio pci, sarebbe sbagliato indirizzare il nostro accanimento autoterapeutico allo scopo di intercettare noi, già oggi, una potenzialità antagonista che non c’è. E’ confortante –rinfrescante, ha detto qualcuno- che ci siano lotte pur senza punti stabili di riferimento, ma il fatto che debbano limitarsi ad una difesa concentrata su un obiettivo di difesa –e per di più senza potersi trasformare in organizzazione nelle relazioni sociali quotidiane- non può essere trasformato nella virtù finalmente scoperta. Il rompicapo sta ancora tutto davanti a noi.
Ritirarsi, quando non si ha la forza di andare oltre, è segno di prudenza, di intelligenza, se si vuole, ma non esprime potenza, non esprime niente di più di quella antica saggezza popolare che –come si suol dire a Napoli- sa misurarsi la “palla”.

IL PERICOLO IMMEDIATO NON E’ LA GUERRA, MA IL PROGRAMMA MILITARE DI AGGIUSTAMENTO STRUTTURALE
Venendo al movimento “no war”, se è vero che la sua eccedenza si è esaurita sull’obiettivo che si era posto all’inizio del 2003, pensare di poterla riportare in piazza agitando il pericolo della guerra è quanto mai inefficace. Anche se con una buona volontà unitaria si dovesse partorire qualche corteo decente, si tratterebbe di una mobilitazione innocua. Un’agitazione modulata solo contro la guerra si rapporta solo ad una generica paura, ad un vago, seppur giusto, sentimento etico sempre presente nel lato buono dell’essere umano, ma non pone un tema che mette la gente in movimento. Non è cogente. Solletica insomma l’opinione, non la mobilitazione. Chiunque sia sano di mente capisce che la guerra mondiale non sta dietro l’angolo.
Per converso, non si tratta di scovare a tutti i costi motivi per portare la gente in piazza, ma di valutare realisticamente –senza farsi appesantire da condizionamenti politici istituzionali e sudditanza linguistiche- i guasti e gli interessi delle missioni militari e su chi ricadono pesantemente questi guasti. Anche di una missione come quella in Afghanistan. Se esse non sono atti o preludi di grandi conflitti tra superpotenze, cosa sono? Qualcuno ripiega spiegando che sono azioni sbagliate (indotte da cattive frequentazioni) che possono esporci ad azioni terroristiche, modulando la propaganda su tale pericolo. Anche questo è vero (non dimentico la Spagna), ma mi sembra riduttivo, oltre che elusivo. Queste missioni, come la verifica empirica ha ampiamente dimostrato, mirano a destabilizzare, a destrutturare le aree periferiche, le quali, oltre che possedere importanti risorse, sono, da una parte, possibili e quindi pericolosi aspiranti al consumo delle energie e delle materie prime e, dall’altra e soprattutto, sono contenitori immensi di forza lavoro a bassissimo costo. Il primo obiettivo è quindi stroncare ogni pretesa di migliorare le loro condizioni di vita a fronte di uno sviluppo capitalistico mondiale insostenibile; il secondo è quello di costringerle, appunto con le devastazioni militari dall’esterno e con le guerre civili, ad offrire un mercato della forza lavoro in loco a costi ancora più bassi. Lo sa anche il “soldatino” razzista intervistato da Emilio Quadrelli. L’aggressione militare è tanto più elemento costitutivo di un simile mercato, quanto più alimenta razzismi e costruisce barriere. In tale logica si inquadrano anche le invasioni militari di territori, almeno apparentemente poveri di tutto, che –a volte anche contraddittoriamente per via della competizione tra le superpotenze- diventano punti strategici di controllo e di contenimento terroristico. Dietro l’Afghanistan ci sono la Cina e l’India, sempre più in bilico tra un uso dei loro immensi eserciti di forza lavoro a infimo costo a favore delle multinazionali occidentali e giapponesi e una loro emergenza in proprio con effetti deflagranti.
Si tratta a tutta evidenza della continuazione dei “programmi di aggiustamento strutturale” (i pas del FMI) con altri mezzi, il cui punto di partenza fu l’attacco al costo complessivo del lavoro nelle metropoli del capitalismo dominante, attacco che però non poteva essere frontale. Alcuni centri sociali si sono ritratti dalle manifestazioni contro la missione in Libano e la rinnovata aggressione israeliana contro i palestinesi, adducendo, tra l’altro, che l’agenda politica vede al primo posto il problema della precarietà, degli immigrati, dei ctp, del razzismo. E’ una giusta osservazione sia pure con conclusione sbagliata. Parlare oggi delle missioni militari contro i paesi periferici –e ormai sono tante, sono diventate un compito ordinario a dire di D’Alema- significa parlare della nostra precarietà, degli immigrati, dei ctp, del razzismo che avvelena anche settori operai. Non si può però parlare delle prime senza connetterle alle questioni sociali, non si può nominare le seconde tacendo delle prime: si tratta a tutta evidenza di una relazione.
Un’aggressione militare imperialistica –la potete chiamare anche imperiale o non aggettivarla affatto, se si concorda sui temi concreti- crea contesti favorevoli per portare le aziende italiane laddove la gente è stata immiserita e terrorizzata dalle bombe e spinge una parte della stessa a venire da noi in condizioni terribili di ricatto per accettare condizioni di lavoro al limite della schiavitù, nel contempo abbassando ogni potere di contrattazione dei nostri giovani in cerca di primo impiego e ogni pretesa di chi già lavora. Sto ripetendo una banalità, ma è una banalità che viene sempre accantonata quando si parla genericamente di “guerra”. Qualcuno afferma che è un ragionamento giusto ma complicato a farsi tra i precari, mentre sarebbe più evocativo (o forse più inclusivo perché anche i “cattivi” sono contro la guerra) riassumere il tutto con la parola “guerra”. A quanto pare, non è affatto evocativo, e noi manteniamo il concetto e la parola forse perché costretti da un meccanismo che non riusciamo a capire. Andare a spiegare ad un giovane dei “call centers” che chiediamo il ritiro delle truppe dal Kossovo perché siamo contro la guerra ci fa correre il rischio anche di essere risi in faccia: nel migliore dei casi lascia quel giovane del tutto indifferente. Non già perché sia venuto meno in prospettiva il pericolo di scontri bellici inter-imperialistici, anche di portata mondiale, ma perché essi svolgendosi ancora sul terreno economico-finanziario e dovendo comunque affrontare i cosiddetti nemici dell’Occidente, non mettono in moto “passioni” politiche.
E’ venuto il momento, però, di fare uno strappo e di smettere di parlare insulsamente di pericolo di guerra. O almeno non andiamo a dire solo questo, ma a chiarire, mettendo in moto su questo terreno i nostri ingegni mediatici, cosa significa e cosa comporta un’aggressione imperialistica. Come essa alimenta un cupo clima di ordine, come diffonde veleni razzisti, come –massacrando popoli “inferiori”- determina precarietà e abbassamenti dei salari anche da noi, oltre che aumento delle spese militari a danno di sanità e istruzione pubblica. A quest’ultimo riguardo, è il caso di rammentare che la spesa militare complessiva annua era già di circa 25 miliardi di euro e che quella relativa al Libano ha comportato un aumento di altri 600 milioni di euro l’anno.
Non è il talismano che ci garantisce una facile ripresa del movimento. Anzi! Ci permette però di mettere qualche piede a terra, di trovare forza laddove è necessario che si determini forza.

IN CONCLUSIONE
La sinistra critica, la Fiom e alcune organizzazioni pacifiste, esprimendo una volontà di volersi battere per il ritiro immediato delle truppe dall’Afghanistan, hanno chiesto ad altre forze di verificare la possibilità di una mobilitazione unitaria in tal senso.
Nell’incontro con loro del 16 dicembre, gli organizzatori della manifestazione del 30 settembre a Roma hanno proposto, pur nell’opportunità di articolare la mobilitazione sul ritiro delle truppe dall’Afghanistan, di denunciare la più ampia politica militarista del governo italiano. Inoltre, hanno insistito –non per pedanteria formale ma tenendo conto dei precedenti voltafaccia- sulla necessità di un impegno su quel ritiro che non sia condizionato dal ricatto del “governo amico”. Coerentemente, un impegno del genere deve prevedere una mobilitazione di piazza in occasione della discussione parlamentare sul rinnovo della missione militare.
La sinistra critica, la Fiom e alcune organizzazioni pacifiste hanno proposto di tenere una grande assemblea “evento”, ma hanno accettato la possibilità di una mobilitazione di piazza all’esito di una serie di verifiche e avanzando già alcune condizioni.
Da quanto ho cercato sopra di spiegare, è da supporsi che le riserve siano in gran parte pretestuose. Tra le circostanze eccezionali che favorirono in Italia il megacorteo di Roma alla vigilia dell’aggressione all’Iraq c’era anche quella del governo Berlusconi. La presenza ora del governo di centro sinistra, non potendo essere ammessa da suoi critici interni pur disposti a mantenere il loro impegno antimilitarista, finisce per dare luogo solo a contorte e defatiganti discussioni, con l’aggravante di contribuire alla degenerazione del linguaggio, che da forma di comunicazione diventa sempre più strumento di abili e sottili destreggiamenti. In tale quadro, a nessuno di noi sfugge il rischio che la grande assemblea “evento” veda la presenza di forze come il “tavolo della pace” e simili da utilizzare per condizionare, se non paralizzare, ogni altra forma di mobilitazione che non veda la solita condanna del terrorismo, la richiesta dell’intervento Onu e in buona sostanza la necessità di non confliggere con il governo amico. Una volta legittimata questa presenza nell’aspettativa –peraltro vana, come si è visto il 18 novembre a Milano- di mettere in piazza grandi numeri, il resto viene da sé come da copione. Molti dei 500 pullman diretti a Milano sono rimasti vuoti anche se il viaggio era gratuito.
A fronte di ciò, la sinistra antagonista può ben far confluire in una grande assemblea unitaria quanto di meglio si muove contro le politiche aggressive del capitalismo italiano, ma per ribadire e rafforzare la possibilità di continuare la lotta nelle piazze contro qualsiasi governo che di quelle politiche si faccia portatore. E di polemizzare, se è il caso, anche duramente con personaggi con l’aureola che si prestino a svolgere il ruolo di pacifinti. Detto con estrema chiarezza, non è più tollerabile che si giochi a fare i santi camminando sotto il braccio dei ministri della guerra o comprendendo le ragioni di un carnefice come Olmert.
Questa scelta –che non esito a proporre come predeterminata- non va enfatizzata come rispondente a vaste aspettative di massa, ma come sollecitazione a rapportarsi alla nuova fase del militarismo italiano con le sue conseguenze sociali e culturali. Ed è sicuramente in salita. Ma è una scelta aperta, che, in quanto consapevole delle difficoltà, non è autosoddisfatta. Essa è necessaria, al momento, per impedire che nel passaggio dalla vecchia fase a quella nuova si determini un vuoto di autonomia, per il quale invece sta lavorando alacremente il centro sinistra cercando di assopire ogni conflitto che disturbi le sue manovre.

Silvio Serino del Collettivo RED LINK

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