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IL PANE E LE ROSE - classe capitale e partito
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Alcune considerazioni sulla povertà moderna

(30 Giugno 2006)

Può sembrare, a prima vista, che per conoscere la povertà d’oggi sia sufficiente uno studio accurato delle tabelle statistiche. Si accerta che, in un determinato periodo, il reddito pro capite reale (cioè depurato dall’inflazione) è cresciuto, e che persino le fasce più deboli hanno avuto un leggero incremento, e si arriva alla conclusione che, nei paesi sviluppati, la maggior parte della popolazione ha un discreto tenore di vita, e che un’altra parte sta lentamente uscendo dalla povertà.
In tale quadro, l’inserimento d’ogni elemento storico viene respinto perché interpretato come puramente decorativo, o come un’inconscia fuga dai problemi reali dell’oggi, se non un vero e proprio elemento di disturbo.
La sfacciata ostentazione di ricchezza, che si concretizza in macchine e imbarcazioni di lusso, e la spinta, a livello popolare, all’acquisto di elettrodomestici, telefonini, ecc, apparentemente confermano questo risultato: “Questa è la realtà, qui e ora, non seccatemi con inutili richiami alla povertà delle origini del capitalismo, o sulla desolante penuria che affliggeva le plebi romane e medievali”.
In realtà, senza un confronto con la miseria di ieri, è impossibile individuare i caratteri specifici della povertà odierna. Può essere utile, in via provvisoria, isolare un problema per approfondirlo, ma nella fase successiva occorre cogliere le relazioni con le altre questioni connesse, presenti o passate. Tutti abbiamo conosciuto persone iperspecializzate che, per il rifiuto di stabilire connessioni con altri campi di ricerca, finiscono col prendere assurde cantonate.
Un’analogia: soltanto la teoria dell’evoluzione ha permesso di cogliere le caratteristiche dell’uomo, e chi pretende di studiarlo isolatamente, senza collocarlo nello sviluppo della vita dalle forme più primitive ai grandi primati, finisce col ricadere in una visione creazionistica. Che senso ha accettare questo discorso, “storico” in senso lato, nel campo dell’evoluzione delle specie, e respingerlo nello studio della società?
La comprensione della povertà moderna ha fatto passi da gigante grazie anche ai capitoli storici del “Capitale”, che studiano l’accumulazione primitiva. Questo articolo non si propone di riassumere o ripresentare tale studio, ma soltanto di dimostrare che non è vero che il processo di proletarizzazione si è esaurito, anche se – è inutile negarlo - almeno nei paesi sviluppati, ci sono anche spinte in senso opposto. Nessun processo storico è lineare e meccanico, ci sono sempre cause antagonistiche.
Un confronto con le epoche precedenti estremamente semplificato basterà a mettere in forse il facile ottimismo di chi vede solo progresso e miglioramento della vita. Quando l’economia era basata prevalentemente sull’autoconsumo, cioè la famiglia contadina consumava alimenti, rozzi vestiti, e oggetti fabbricati in casa, questi prodotti non erano considerati dalle statistiche, perché non passavano attraverso il mercato. Il reddito familiare era bassissimo, e bastava a comperare quelle poche cose che la famiglia non produceva.
Con l’abbandono della terra e il trasferimento nelle città industriali, gli ex agricoltori dovettero comprare quei prodotti, che prima producevano e consumavano direttamente. Questa quota di produzione, prima non presa in considerazione perché fuori commercio, venne “scoperta” dalle statistiche, che segnavano incrementi altissimi, che non avevano nessuna corrispondenza nella realtà. I dati riguardanti lo sviluppo del capitalismo primitivo erano “esaltanti”, ma erano reali solo per ciò che riguardava l’eccezionale saggio di profitto. Erano fittizi per quel che riguardava la produzione agricola, perché la crescente commercializzazione spesso celava una sua reale diminuzione. Quasi sempre la produzione effettiva scendeva per la riduzione della manodopera, almeno fino all’introduzione delle macchine, e il contadino inurbato mangiava molto meno di quando viveva nei campi.
Per un lungo periodo l’ex contadino cercò di mantenere un rapporto col suo vecchio mondo, un orticello, animali da cortile, mentre le donne producevano ancora qualche capo d’abbigliamento (calze, maglie), e rimaneva una fascia di artigiani, che aggiustavano vestiti o scarpe. In queste fasi, soltanto parzialmente mercantili, un reddito modesto bastava. Quando il lavoro fuori casa della donna rese impossibile ogni forma di autoproduzione - spesso neppure la cottura in casa dei cibi - e tutti i consumi necessari passavano attraverso il mercato, le spese cominciarono a crescere più rapidamente del reddito. Per questo, non necessariamente ad un incremento di reddito corrisponde un miglioramento del tenore di vita.
Un altro fattore da considerare è il trasporto. Un tempo, il lavoro si svolgeva quasi sempre nelle vicinanze dell’abitazione, spesso nell’abitazione stessa. Nella città, il posto di lavoro s’allontana sempre più da casa, e una parte dell’aumento del reddito serve, non ad incrementare il benessere, ma a coprire le spese di trasporto. I prodotti agricoli una volta provenivano dai campi e dagli orti locali, oggi giungono spesso da oltre oceano, con grandi spese di trasporto, conservazione, confezionamento, passaggi da vari intermediari. A volte, dal contadino al consumatore il prezzo aumenta di venti volte. Il riscaldamento comportava fatica, per tagliare la legna nei boschi, ma non una spesa paragonabile a quella del metano.
Si aggiunga che, mentre l’aumento della produttività tendenzialmente riduce i prezzi dei prodotti industriali, se non ci sono monopoli o protezionismi, invece la crescita della rendita provoca aumenti nei prodotti dei campi, del sottosuolo (gas, petrolio, rame) e nel campo edilizio. Il capitalismo realizza i desideri di Oscar Wilde (toglietemi il necessario, ma datemi il superfluo!). Famiglie che vivono in baracche non mancano, nella maggior parte dei casi, di televisione e telefonini. Non siamo moralisti e non ci scandalizziamo: è enormemente più difficile ottenere un bene necessario come una casa decente che un televisore, che fa parte di quei “giochi di circo”, sempre considerati indispensabili dalle classi dominanti per mantenere quiete le folle diseredate.
Se espungere ogni confronto storico dall’analisi e focalizzarsi esclusivamente su un determinato periodo comporta l’incomprensione di certi fenomeni, ancor peggio è, assolutizzando le tendenze del proprio tempo, cercare di trarne delle previsioni per il futuro. E’ il caso di Bernstein che, trapiantato in Inghilterra, a contatto con le strutture sindacali e politiche locali tradizionalmente empiriste, notò che lo sviluppo industriale, la lotta dei sindacati, l’avanzata delle consuetudini democratiche, miglioravano le condizioni dei lavoratori. Per la Germania registrò che, a causa della divisione del latifondo degli Junker, aumentava la piccola proprietà contadina e, proiettando nel futuro le risultanze del “qui e ora”, ne dedusse che la proletarizzazione era finita, e che ci sarebbe stato uno sviluppo graduale e pacifico. Due guerre mondiali, una serie infinita di guerre locali, rivoluzioni e crisi come quella del 1929 lo smentirono.
Un altro esempio meno tragico descrive bene la miopia di chi assolutizza i dati del momento: alla fine dell’Ottocento a New York si discuteva sull’enorme e ingombrante crescita delle carrozze, e c’era chi, sulla base di tali dati, aveva calcolato l’anno in cui la città sarebbe rimasta soffocata dalle deiezioni dei cavalli. Nel giro di una generazione o poco più, invece, le carrozze furono sostituite dalle automobili. Potremmo portare altri esempi, ma limitiamoci ad accennare alle previsioni, fatte alcuni decenni fa, di una popolazione mondiale in crescita esponenziale, mentre oggi, salvo qualche paese particolarmente tormentato, come l’Afghanistan o la Palestina, la curva della demografia è in calo in quasi tutto il mondo, e in buona parte d’Italia, in Russia, Ucraina, Romania, ecc, c’è una forte denatalità.
A maggior ragione, è sbagliato dedurre dal carattere limitato e corporativo delle lotte attuali, dalla morta gora della politica, che la lotta di classe è una questione del passato, riguarda solo una fase dello sviluppo di un paese, e che non tornerà più. Sono previsioni alla Miliukov, il liberale russo che sentenziò: “In Russia non ci saranno più rivoluzioni!”. Se ne verificarono due in un solo anno, il fatidico 1917.
Il capitalismo è un’economia talmente dinamica e instabile che, nel giro di pochi anni può invertire completamente alcune tendenze importantissime. Oggi, ad esempio, assistiamo a delocalizzazioni e trasferimenti di industrie in paesi a bassi salari, ma niente esclude che, per trasformazioni politiche, guerre o instabilità dei paesi stessi, si verifichi il fenomeno contrario. E’ già avvenuto qualcosa di simile: Francia e Inghilterra, quando dovettero abbandonare le colonie, videro il ritorno d’ingenti capitali, che favorirono una reindustrializzazione. Se in Cina le crescenti rivolte sociali delle aree agrarie escluse dallo sviluppo assumeranno dimensioni assai più vaste, il capitale americano ed europeo ivi presente cercherà altre soluzioni, non escludendo un parziale ritorno nella madrepatria. Oggi la diffusione dell’industria nel mondo è talmente vasta che neppure un nuovo Marx potrebbe fornirne un’analisi completa, ma questo dimostra come sia vuota una previsione, fatta sui dati dell’Italietta d’oggi, che escluda il ripresentarsi di certi fenomeni sociali così frequenti in epoche passate.
Torniamo alla questione povertà. L’Italia era un paese dove il risparmio era considerato come una garanzia per il futuro. Oggi, seguendo la via americana, come si legge nel Rapporto dell’Eurispes, nel 2005, il credito al consumo ha avuto una crescita del 23,4%, pari a quasi 47 miliardi d’euro. Crescono del 200% gli indebitamenti a medio termine (fino ai 5 anni), ma è significativo soprattutto che molte famiglie facciano ricorso al credito per acquisti di beni di prima necessità, come alimentari. L’Eurispes prevede che nel 2006 il numero delle famiglie che vi faranno ricorso aumenterà dell’11, 8% (previsione a breve termine, quindi verificabile entro pochi mesi). Questo, unito ad un basso incremento dei consumi, significa che molte famiglie non riescono più a mantenere il vecchio tenore di vita, e che quindi l’impoverimento è reale.
L’Istat parla di oltre 4 milioni di lavoratori a basso reddito (meno di 700 euro mensili). I bassi redditi da lavoro sono più frequenti tra le donne (28% contro il 12% degli uomini). Tra i giovani al di sotto dei 25 anni si sale al 36%. Per la maggioranza dei giovani, il problema è accresciuto perché non sono proprietari dell’appartamento, e devono dedicare in media 500 euro all’affitto. Questo spinge molti a rimanere a casa presso i genitori, a rimandare la formazione di una propria famiglia (matrimonio o convivenza, non importa). La forte denatalità si spiega in parte così, e non cambiano la situazione tutti quei reazionari, del centrodestra o del centrosinistra, che propongono il pannicello caldo dell’assegno una tantum per le nuove nascite, soluzione utilissima per carpire voti agli ingenui, non certo per migliorare le condizioni di vita.
Sempre l’Istat stima che il 7,2% delle famiglie ha difficoltà a consumare un pasto adeguato ogni due giorni, e che il 30% ha difficoltà ad arrivare a fine mese.
I dati di un solo anno – occorre ripeterlo? – non bastano ad individuare una tendenza o previsioni per il futuro, ma attestano l’esistenza di uno strato non indifferente di povertà, difficilmente superabile.
Se ci sono queste fasce di povertà relativa diffusa, perché crescono sempre più i consumi di lusso? Accade quando la quota destinata ai profitti è particolarmente alta e quella destinata ai salari molto bassa. Poiché i consumi dei lavoratori salariati riguardano in gran parte prodotti di prima necessità, una forte lotta sindacale che conseguisse notevoli incrementi salariali, e quindi riduzione dei profitti, avrebbe questi effetti: in un primo tempo, l’accresciuta richiesta di generi di prima necessità porterebbe ad un ampliamento della loro richiesta e ad un’ascesa dei loro prezzi, quindi gli industriali che li producono compenserebbero con le maggior vendite le perdite dovute agli aumenti salariali. Gli altri capitalisti, che producono oggetti di lusso, non solo vedrebbero una diminuzione dei profitti, ma anche un restringimento del mercato per il diminuito consumo delle classi abbienti, sposterebbero una parte dei capitali verso i generi di prima necessità, aumentandovi l’offerta e facendo nuovamente calare i prezzi del settore. Alla fine di questo cambiamento, la parte destinata ai salari e ai generi di prima necessità risulterebbe aumentata, quella dei profitti e dei generi di lusso diminuita. (1) Quindi la spinta salariale, lungi dall’essere un freno all’economia, come pretendono i vari Padoa Schioppa, oltre a favorire la tendenza all’introduzione di nuovi macchinari e più moderni metodi di lavorazione, è anche un fattore che riduce rapidamente lo spreco in prodotti puramente voluttuari o antisociali.
Questo quadro può essere modificato in parte da strutture monopolistiche e dalla crescente internazionalizzazione degli scambi. Bisogna tener conto, inoltre, che con lo sviluppo industriale e dei traffici, certi prodotti, un tempo considerati di lusso, come automobili, elettrodomestici ecc., sono da lungo tempo d’uso comune, perché sono diventati indispensabili. Nel ‘settecento erano lussi estremi caffè e cacao.
Potremmo aggiungere un’altra cosa, riguardante specificamente la nostra epoca, caratterizzata da una crescente militarizzazione: una radicale spinta salariale, riducendo i profitti, costringerebbe a una riduzione delle spese militari, e si rivelerebbe assai più utile dello sventolio di migliaia di bandiere iridate.

28 giugno 2006

Note:
1) Karl Marx, “Salario, prezzo e profitto”.
I dati statistici sono presi dai rapporti Istat e Eurispes 2006.

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