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(11 Gennaio 2007)
L’8 gennaio scorso il presidente venezuelano Hugo Chavez, dopo il giuramento dei membri del suo nuovo governo, ha pronunciato un discorso in cui ha sostenuto l’intenzione di allargare la rivoluzione bolivariana e realizzare quello che ha definito il “socialismo del Ventunesimo secolo”. In particolare ha dichiarato di voler avviare un vasto programma di nazionalizzazioni partendo dal settore delle telecomunicazioni e dell’energia fino a riuscire a riportare sotto il controllo dello Stato tutto ciò che in passato era stato privatizzato.
Ad essere interessate dalle decisioni di Chavez saranno la Compania Anonima Nacional Telefonos de Venezuela (Cantv), di cui una quota minoritaria del 28,5% è in mano alla americana Verizon Communications e la Electrocidad de Caracas, la cui proprietà è all’86% di un’altra società statunitense la Aes Corp della Virginia.
Non solo, l’ex ufficiale dei parà sembra intenzionato a sottrarre al controllo privato (in gran parte multinazionali europee e americane) anche le attività estrattive petrolifere della regione dell’Orinoco. Le affermazioni di Chavez hanno comportato reazioni scomposte e di vero e proprio panico tra gli operatori finanziari. Il titolo Cantv, subito dopo l’annuncio è precipitato di 14 punti alla borsa di New York, mentre i bond venezuelani hanno perso più di un punto percentuale.
Le decisioni di Chavez rappresentano una vera e propria inversione di rotta rispetto al trend favorevole all’espansione delle forze del mercato che, agli inizi degli anni 90, con l’affermarsi del modello delle democrazie di mercato, voluto dall’amministrazione Clinton, aveva condotto ad una graduale emarginazione dello Stato dall’economia in buona parte del globo. Anche il Venezuela, come il resto delle nazioni latino-americane, era stato interessato da tale fenomeno che, affiancato da politiche neoliberiste sostenute dal Fondo monetario internazionale, aveva permesso un iniziale progresso economico a cui, tuttavia, era seguito un graduale impoverimento delle popolazioni e frequenti crolli dei sistemi economici interessati.
Un insieme di politiche, note come Washington Consensus, che rappresentano uno dei principali obiettivi contro cui si fonda gran parte della politica interna ed estera del governo Chavez. Se il nuovo programma di nazionalizzazioni appare rivolto a combattere tale indirizzo politico, la decisione del presidente venezuelano sembra voler andare oltre tale lotta, pur importante. Dopo aver ottenuto la riconferma elettorale con oltre il 63% dei voti, la cui regolarità democratica è stata attestata da varie organizzazioni internazionali, Chavez intende ora completare il consolidamento del proprio potere e avviare la trasformazione definitiva della società venezuelana.
Secondo molti osservatori, tra cui il deputato repubblicano della Florida Connie Mack, l’esito di tale evoluzione non potrà essere che una completa cubanizzazione del Venezuela, seguendo l’esempio dell’amico Fidel Castro. In realtà i propositi di nazionalizzazione espressi da Chavez appaiono come ulteriori tentativi di consolidare il proprio potere non verso le masse, che glielo hanno confermato con grande entusiasmo, ma verso quelle oligarchie, spesso ricche, che non lo hanno mai accettato e che sono al comando in vari gangli della società venezuelana, anche nel mondo dei media.
Del resto, secondo un sondaggio Associated Press-Ipsos, compiuto poco tempo prima delle elezioni presidenziali dello scorso 3 dicembre, il 62% della popolazione venezuelana si era detta favorevole a progressi nelle nazionalizzazioni, mentre l’84% si diceva contraria all’adozione di un sistema politico simile a quello esistente a Cuba. Con la Cantv, il presidente si era già scontrato lo scorso agosto quando i vertici della società non avevano voluto accettare la sua richiesta di adeguare le pensioni dei propri dipendenti alla paga minima nazionale.
Ulteriore dimostrazione dell’attuale conflitto interno alla società venezuelana è anche l’intenzione di Chavez di voler eliminare l’autonomia della Banca Centrale in quanto i suoi rappresentanti, espressione di quelle élite a lui contrarie, si sono spesso opposti alla politica di riutilizzo dei proventi delle esportazioni petrolifere per le classi meno abbienti della popolazione per il timore che tali iniziative potessero favorire l’inflazione, secondo i più tradizionali dettami delle teorie economiche neoliberiste.
La struttura economica che Chavez sembrerebbe preferire per la società venezuelana è quella che i suoi consiglieri economici definiscono di “sviluppo endogeno”, fondata cioè sulla produzione interna di beni agricoli e industriali da parte di cooperative di lavoratori, ma in cui lo spazio per gli imprenditori privati non è escluso, anzi, per molti versi appare necessario. Chavez è infatti ben consapevole che non potrà fare a meno degli investimenti delle grandi imprese private nazionali ed estere per ammodernare la realtà economica del suo Paese.
Sia gli investitori stranieri sia gli Stati Uniti sembrano aver compreso la reale portata delle decisioni di Chavez, la cui valenza appare essere più interna che esterna. Se è vero che all’inizio i mercati internazionali hanno reagito con fastidio alle affermazioni del leader di Caracas, in seguito, a mente fredda, hanno agito in modo differente. Un esempio su tutti, Richard Francis, un analista di Standard and Poor si dice pronto a una strategia di ‘wait and see’ e a chi gli ha chiesto se le mosse di Chavez vanno intese come uno spostamento in direzione della trasformazione comunista della nazione venezuelana, questi ha espresso molti dubbi in proposito.
Anche gli Stati Uniti, i cui interessi economici rischiano di venire colpiti direttamente dalle nazionalizzazioni, dopo iniziali commenti molto negativi, come quelli del portavoce dell’amministrazione Bush, Tony Snow, si sono orientati verso una posizione molto più comprensiva. “Se - ha sostenuto Gordon Johndroe (portavoce del National Security Council della Casa Bianca) - le imprese statunitensi interessate alla nazionalizzazione venissero adeguatamente risarcite, la decisione di Chavez dovrebbe essere considerata del tutto legittima”.
Del resto Washington, dopo la fallimentare gestione del rapporto con il Venezuela di Chavez e con l’intera America Latina (in particolare dopo il fallito colpo di stato contro il leader di Caracas dell’aprile 2002), sembra intenzionata ad adottare un atteggiamento meno conflittuale con le nazioni sudamericane e in particolare il Venezuela. Lo scorso 14 dicembre l’ambasciatore statunitense a Caracas William Brownfield si è incontrato con il ministro degli Esteri venezuelano Nicolas Maduro e molti hanno definito i colloqui una vera e propria svolta nelle conflittuali relazioni bilaterali Washington-Caracas.
Pier Francesco Galgani
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