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    Scalfari, il PRC e la rappresentanza parlamentare: un anno dopo il “caso Ferrando”.

    (25 Gennaio 2007)

    Nella giornata di domenica scorsa, 20 gennaio 2007, chi leggeva il fondo di Eugenio Scalfari avrà certamente fatto un salto nella memoria.
    Infatti l’anziano giornalista si attarda sulle incontinenze parlamentari per parlare di una possibile crisi del centrosinistra, che porterebbe ad un governo del Presidente della Repubblica guidato da un tecnico. Perché la crisi? Scalfari individua in alcuni (e sparuti) deputati e senatori i possibili rei di una debacle del governo Prodi, che potrebbero, a seguito della vicenda dell’allargamento della base Nato, “intestardirsi” e non votare il rifinanziamento delle nostre missioni in Afghanistan.

    Scalfari fa tre importante previsioni/raccomandazioni: la prima è che si vada presto ad una nuova legge elettorale, la seconda è che si depurino le liste da eventuali ribelli che potrebbero arrecare danno al futuro governo, la terza che il Partito Democratico non può più aspettare, stante la nuova situazione politica.

    Non mi attardo su questa nascita, perfettamente congruente e consequenziale con lo scenario sempre meno rappresentativo dei Partiti, come neppure sulla nascita della cosiddetta Sinistra Europea, immediatamente necessaria e simmetrica.
    Mi piace invece offrire una linea di ragionamento a partire dalla questione della legge elettorale.

    Come da più parti è stato affrontato è evidente che la legge elettorale -sulla quale è nato per puro miracolo il governo Prodi- debba essere modificata: una legge sbagliata, che concepisce e attaglia la rappresentanza politica parlamentare non in funzione di quella sociale, ma per collocare soggettività controllate, scelte ed individuate nelle stanze partitiche nazionali, senza che gli elettori possano optare; come già dissi altrove, non si sceglie più la rappresentanza politica, ma l’Azienda (che sia di centrodestra o di centrosinistra abbiamo verificato poco importa) che ci guiderà governando il Paese, mentre i dirigenti ed i funzionari (deputati e senatori) li sceglie direttamente l’Azienda stessa.

    Come l’arguto e preveggente Massimo D’Alema aveva ampiamente fatto sapere a Bertinotti -quando cominciarono i primi contatti tra il CS e il PRC per ricomporre la “frattura” determinatasi con la caduta del primo Governo Prodi- era indispensabile che il plotone parlamentare non avesse al suo interno soggetti che potessero fare propria quella “autonomia politica” sinora assegnata loro, al fine di evitare appunto un possibile ribaltamento o crisi di governo.
    Bertinotti recepì perfettamente la lezione, e quando si trattò di comporre le liste per Rifondazione, aprì apparentemente alla minoranza interna del PRC, per poi, surrettiziamente, far esplodere il “caso Ferrando”.
    Marco Ferrando, reo di continuare a proporre una diversa politica per un Partito che chiamandosi Rifondazione Comunista doveva essere autonomo e libero dagli invischiamenti con la borghesia e il padronato, il mondo della finanza e dell’economia, con i Padoa Schioppa o i Montezemolo, così come nella politica estera e nell’impegno anticostituzionale del nostro Paese sugli scenari di guerra, fu punito e, dopo un processo mediaticamente esposto ma telefonicamente svolto, venne estromesso dalla lista del Partito.

    Un anno dopo Scalfari ripropone l’esatta filosofia: “fate attenzione, partiti che volete governare questo Paese! Assicuratevi di non mettervi serpi in seno”.
    Dunque passa ormai nella fantasia e nelle opinioni, ma è prevedibile anche nelle future decisioni, che il Parlamento non potrà essere il luogo della rappresentanza sociale e politica del Paese.
    Sarà solo un luogo dove gli “eletti” dovranno rispondere e garantire esclusivamente il proprio voto al Governo (o all’opposizione).
    Qui sta il problema.
    Da una parte non viene svolta alcuna analisi e critica alle ragioni (reali) del governo del CS e di quanti, seppur obtorto collo, avevano riposto lì le proprie esili speranze. Certo non me la aspetto dal fondatore del filo-craxiano La Repubblica.

    Occorre un soggetto politico altro, che sappia intercettare e rappresentare quanti, diluendosi in movimentarismi estemporanei, rischiano ancora una volta di essere sedati da quelle rappresentanze partitiche che da una parte inneggiano al PACS, e dall’altra votano una finanziaria anti-lavoratori, nella perversa interpretazione dell’essere partiti “di lotta e di governo”.

    Dall’altra sembra profilarsi una ipotesi di extra parlamentarismo. Nessuno si è mai illuso che un parlamento borghese possa abbattere “lo stato delle cose presenti”, ma certo la sua composizione a sistema proporzionale ha potuto consentire voce e rappresentanza anche ad istanze alternative.
    Che per altro trovarono ben poco spazio, con qualche clamoroso flop elettorale negli anni 70 e 80 nel tentativo della rappresentanza istituzionale.

    Dunque? Questa spicchio di ragionamento vuole portare semplicemente ad una ipotesi da costruire che abbisogna di essere scomposta, analizzata ed eventualmente portata a sintesi politica.
    L’allora extra parlamentarismo nasceva da una stagione politica di lotta sociale, che non trovava sponda nei tradizionali partiti (PSI e PCI).
    Dal ’68 sino ai cosiddetti anni di piombo, l’effervescenza politica, nata in seno a fabbriche ed università aveva coinvolto fortemente il tessuto sociale del Paese portando istanze e rivendicazioni che produssero forti passi in avanti di stampo riformista. Si pensi alla legge 300, per quanto riguarda il mondo del lavoro, o la nascita dei consultori socio-sanitari, i diritti alla maternità, la legge Basaglia, sino a svolte decisamente interessanti sul piano dei diritti, come divorzio ed aborto.

    Il giro di boa, oltre il quale si vennero a prefigurare le cosiddette contro-riforme, fu rappresentato dalla legge 833, quella che istituì il Piano sanitario pubblico. Nulla di rivoluzionario, ma quelli furono i frutti di una fase di grande rivendicazione sociale.
    Il prosieguo purtroppo segnò il passo, la fase politica già si arenò nel “buco nero” del cosiddetto compromesso storico, che consentì alla borghesia italiana l’apertura nei confronti del PCI.

    Poi vennero i governi Andreotti (quelli della “non sfiducia” e poi ancora delle “convergenze programmatiche”, che videro il PCI assumere un ruolo di compartecipazione esterna ai governi), sino alla svolta dell’EUR della CGIL a guida Lama.
    “La classe operaia non era solo chiamata a identificarsi negli interessi nazionali del capitalismo in crisi. Era chiamata a identificarsi nello Stato borghese, a “farsi Stato”. La domanda di potere che in qualche modo era emersa, con molte contraddizioni, nella dinamica di massa del 1969-76 e nella coscienza dell’avanguardia proletaria veniva in qualche modo capovolta e sublimata nella partecipazione subalterna al potere avversario”[http://www.progettocomunista.it/12-03MR2FerrandoCompStorico.htm].

    Quale fase stiamo attraversando? E’ possibile immaginare un fermento quale fu quello degli anni 60 e 70? La classe lavoratrice ed il popolo dei precari riesce ancora a riconoscersi come tale? Quali strumenti è possibile attivare per ricostruire una cosiddetta “coscienza di massa”, e soprattutto di classe?
    Tutti interrogativi che la fase politica che stiamo attraversando impone di rivolgerci, per non ricadere nell’errore avvenuto un trentennio fa, consapevoli che oggi non abbiamo lo stesso strato sociale in termini organizzativi e quindi rivendicativi.

    Savona, 25 gennaio 2006

    Patrizia Turchi

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