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(23 Febbraio 2010) Enzo Apicella
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La montagna e il topolino

(2 Marzo 2007)

Parturient montes, nascetur ridiculus mus
(le montagne devono partorire, nascerà un ridicolo topo)
Orazio, “Ars poetica”


Tutti ricordano il grande clamore con cui il nuovo centrosinistra si preannunciava. Le primarie - una campagna pubblicitaria in cui l’ignaro elettore viene coinvolto direttamente – furono un trionfo, e, contro la destra, l’anziano notabile democristiano Prodi fu esibito come il Salvatore. La rabbia contro Berlusconi, i suoi sfacciati favoritismi, i suoi interventi per neutralizzare le pendenze giudiziarie, proprie o degli amici, favorirono la beatificazione di Prodi. Non serviva ricordare alla gente i favori fatti alla Fiat, dalla cessione quasi gratuita dell’Alfa alle varie rottamazioni, le promesse non mantenute sulle 35 ore, le scelte che favorivano la precarizzazione. Anche i lavoratori furono trascinati in questa operazione propagandistica, perché la maggior parte di loro non ha tempo per occuparsi di considerazioni teoriche e di analisi storiche, ma giudica sulla base dell’esperienza immediata. Era necessario che vincesse ancora una volta Prodi perché quest’aura si dileguasse, e la sua politica apparisse, non solo nella sua assoluta banalità, ma anche nella sua sostanza filopadronale. La montagna ha partorito un topo.

La crisi ha messo a nudo l’intrinseca debolezza della maggioranza. Come un lussuoso supermercato che ha subito un’alluvione, tanto per non chiudere, mette sui banchi fondi di magazzino salvati dalle acque, così alle centinaia di pagine del pretenzioso programma di governo, si sono sostituiti i dodici punti non negoziabili. E come i commessi si adattano a magnificare gli scampoli, così i segretari di partiti assicurano i dubbiosi militanti ed elettori, che l’essenziale è stato salvato. Il governo ha riottenuto una risicata maggioranza, ma il futuro è incerto.

Su quelle sbiadite imitazioni dei Pacs che sono i “Dico” (ma proprio il logo di una catena di supermercati dovevano copiare?), la cautela di Prodi, per non irritare il Vaticano (e Andreotti), ha rasentato il ridicolo. Se i parlamenti della rivoluzione inglese passarono alla storia come “Lungo Parlamento”, e “Rump Parliament” (parlamento fondoschiena), oggi in Italia, vista la completa subordinazione alla Curia, dovremmo parlare di “Parlamento baciapile”.

Per nascondere la fragilità sostanziale del governo, era necessario trovare un capro espiatorio, anzi due. Questo spiega le accuse, gli insulti volgari, le minacce rivolte a Rossi e Turigliatto.

Non tutti si sono prestati a questo linciaggio, c’è chi ha messo in rilievo che Prodi non era affatto tenuto a dimettersi, e che lo ha fatto per poter imporre il proprio diktat ai partiti della coalizione. La dirigenza di Rifondazione ne ha approfittato per imprimere un giro di vite. Un episodio ha un valore simbolico: quando Loris Campetti nel 1970 fu espulso dal PCI perché legato al “Manifesto”, la decisione gli fu comunicata dal “compagno Cappelloni Guido”. Lo stesso personaggio ha dato un analogo avviso a Turigliatto. Bertinotti ha fatto una campagna contro l’ectoplasma dello stalinismo, ma lo stalinismo reale in Rifondazione rimane, non solo come metodo, ma è persino impersonato dagli stessi grigi funzionari di un tempo.

Questa squallida vicenda ha alcuni risvolti positivi: è distrutta la credibilità di tutti quelli che hanno votato per l’espulsione, o, come ipocritamente si dice, per l’ “allontanamento” di Turigliatto, a cominciare dall’area Grassi. Non hanno fatto una bella figura neppure Pegolo e Bellotti, che si sono astenuti.

Questa scossa politica è servita a congelare il partito su posizioni definitivamente governative, mettendo le briglie a una base non sempre convinta. Questo non vuol dire che si rinuncia alla retorica di sinistra. Si potrà ancora partecipare a manifestazioni pacifiste, fare dichiarazioni antimilitariste, ma guai a sgarrare sulle scelte governative o nelle votazioni delle amministrazioni locali. Il modello è Diliberto, “Giove tonante” nelle invettive contro la destra, ma sempre ligio e al servizio del governo. E’ in corso una “dilibertizzazione” di Rifondazione.

Il comportamento di Turigliatto è contraddittorio, e la contraddizione non risale a lui, ma al congresso di Rifondazione, perché è l’unico senatore ad averne rispettato le decisioni. Le tesi votate al VI° Congresso, con primo firmatario Bertinotti, dicono: “Più che mai… la lotta per la pace deve essere la priorità delle priorità”, “un programma di governo deve, in questa fase, avere come caratteristica fondamentale quella di rappresentare una rottura di continuità con la politica del governo Berlusconi”. Un po’ difficile dimostrare che il raddoppio della base di Vicenza e il rifinanziamento della spedizione in Afghanistan rappresentano una rottura con Berlusconi e un aspetto della lotta per la pace.

Sfogliando il documento del congresso, si riscontra il pieno fallimento di tale progetto politico. Nella tesi 11 si parla del superamento della “legge del pendolo”, secondo la quale “quando le sinistre sono all’opposizione suscitano speranze e attese che vengono disattese quando assumono il governo, determinando così la sfiducia nella politica da parte di larghe masse, e creando le condizioni per il ritorno delle forze conservatrici”. Ci affatichiamo tanto per definire il fallimento di Prodi, ma quale descrizione migliore di questa, elaborata da Bertinotti? In pochi mesi, Prodi ha ridato vigore a una destra largamente screditata. Le masse sono state deluse in tempo record quasi su tutto, sulle questioni militari, sulla mancata sostituzione della legge 30 e della Bossi Fini, sul conflitto d’interessi, ecc. Ci dicono: “appoggiate il governo Prodi, altrimenti tornano le destre”. Ma è proprio questo gioco delle parti, in cui Prodi gioca il ruolo del poliziotto buono e Berlusconi quello del poliziotto cattivo (o viceversa), il più grosso ostacolo al conseguimento delle rivendicazioni dei lavoratori.

Ora che l’integrazione di Rifondazione nel sistema è pressoché completata, anche se non è ancora completata la diaspora dei dissidenti, si comprende come siano stati inutili gli sforzi di tanti militanti di sinistra, che cercavano di dissuadere Bertinotti e sostenitori dal seguire la via governativa. Questo atteggiamento si fondava sul presupposto sbagliato che si trattasse di una semplice crisi di opportunismo, superabile con un brusco raddrizzamento del timone. In realtà, Bertinotti & C. erano organicamente riformisti, e quindi inevitabilmente alleati con la borghesia cosiddetta di sinistra. Si tratta di “affinità elettive”, che agiscono con forza, secondo combinazioni simili a quelle degli elementi chimici. Inutile, quindi, cercare di trattenerli. L’equivoco era nell’uso improprio del termine “comunista”: all’inizio del secolo scorso, rivoluzionari e riformisti convivevano nello stesso partito e si chiamavano tutti socialdemocratici, in Rifondazione si chiamano comunisti sia i riformisti, sia i militanti più radicali. L’equivoco ha creato gravi inconvenienti e forti ritardi nella presa di coscienza. L’esperienza governativa - soprattutto ora che è stato fissato il catenaccio a sinistra, e il governo ha imposto il cosiddetto rispetto degli accordi internazionali, cioè quelle decisioni prese sulla testa e spesso all’insaputa, non solo dei lavoratori, ma degli italiani in genere, compresi alcuni ministri – porterà allo scioglimento di tale equivoco.

La critica sarebbe fine a se stessa, se non fosse seguita da proposte in positivo. Bisogna distinguere due problemi importantissimi. Uno è la formazione del partito di classe, che esige un grande sforzo per l’elaborazione dei presupposti teorici e tattici, e che richiede una profonda unità politica, tutte condizioni che non si possono improvvisare. Occorrerà dedicare un ampio studio collettivo a questo tema. L’altro, più immediato, consiste nella risposta da dare ai 12 punti, che sono una vera dichiarazione di guerra contro i lavoratori e le forze più radicali. Qui è possibile un ampio schieramento di militanti, senza discriminazioni politiche specifiche, accomunati dal desiderio di difendere le condizioni di vita dei lavoratori, la loro agibilità politica, il diritto di sciopero e di manifestazione, il rifiuto delle soluzioni poliziesche, ecc. I punti da portare avanti sono noti a tutti, e vanno dalla lotta contro la base di Vicenza al ritiro delle truppe, dalla reintroduzione della scala mobile agli aumenti dei salari, dalle 35 ore alle conquiste sociali (sanità, scuola) e così via. Molte di queste rivendicazioni erano presenti nel programma di Rifondazione, che pretendeva di realizzarle andando al governo, ma i fatti hanno già dimostrato il fallimento completo di tale via.

Resta, invece, aperta la via della lotta, e questa è la soluzione scelta dagli elementi più radicali della CGIL, dei Cobas e della Cub, nonché dalla diaspora di Rifondazione, da parte degli anarchici e da gruppi più piccoli. Non è pensabile tra questi un’unità politica, ma sul piano rivendicativo non si può rispondere all’offensiva borghese in ordine sparso. Le forme organizzative devono essere adeguate alle lotte, e possono essere diverse, dalla partecipazione a organismi di base locali, collegati in una rete nazionale, all’elaborazione di una serie di punti comuni da presentare al governo, inteso non come benevolo interlocutore, ma come controparte, alla stregua dei padroni. L’importante è che non si agisca solo con le parole, ma con manifestazioni e scioperi. Se, invece, ciascuno continuerà a privilegiare il patriottismo di organizzazione o di sindacato, anche un candidato alla rottamazione come il governo Prodi, in questo aiutato in pieno dalla destra, riuscirà ancora una volta a soffocare ogni ripresa di lotta di classe. Se sapremo seguire l’esempio di Vicenza e unire le nostre forze, questa dannata ipotesi sarà evitata.

1 marzo 2003

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