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Nessuna coscienza. Nessun riscatto

(5 Marzo 2007)

Ai giorni nostri vige ancora più del passato una profonda, ma -ancora per molti (ahimè!!)- impercettibile demarcazione tra due classi sociali. Ieri potevano definirsi borghese ed operaia. Oggi la prima si è evoluta in una ristrettissima cerchia capitalista, un piccolo gruppo di persone che detiene ogni sorta di potere e di controllo; l’altra, il proletariato, si è allargata a tutti gli altri, strategicamente addomesticati. Quelli che vivono nel limbo di un ipotetico riscatto della propria condizione, un riscatto utopico. Sembra un piano fin troppo perfetto nei suoi dettagli, concepito meticolosamente senza destare il benché minimo sospetto. E funziona. Funziona in tutti i settori che accompagnano quotidianamente la nostra vita e colpisce indistintamente qualunque posizione all'interno della classe "subordinata".
Ormai diventa sempre più difficile, in questa esplosione di messaggi mediatici, rendersi conto di quale sia il nostro effettivo status-quo. Inconsciamente falsato, accettato e riconosciuto non come il migliore, ma aprioristicamente, sempre ed in ogni modo, come quello riscattabile. Lo è per il precario, per lo studente, per la massaia, per l'operaio e per il letterato. Ognuno di essi impugna la propria causa individualmente, la fa propria e la trasforma come bisogno impellente di rivalsa.
Se dapprima le lotte sociali storiche erano finalizzate al rovesciamento delle proprie condizioni, accomunate da un pensiero unico da cui traevano forza e sviluppate attraverso un linguaggio gergale ben riconosciuto dalla medesima classe di appartenenza, ora il fine del dissenso di classe è praticamente impercettibile. La coscienza di classe, concepita come il motore di traino e la linfa vitale della propria riconoscibilità all'interno della società, è definitivamente estinta. Viviamo in un capitalismo sfrenato che distrugge qualsiasi forma di valore, mitizzando esclusivamente un nudo rapporto economico costitutivo i parametri sociali riconosciuti: noi e il denaro. Diventa sempre più difficile per chiunque uscire da questo binomio, come diventa sempre più complicato rassegnarsi a concepire con umiltà che la propria condizione sociale è quella di “sfruttato”. Una convenienza psicologica, questa, nata dalla paura di perdere privilegi inesistenti. Si è persa la fiducia anche delle classi politiche apparentemente più oneste e combattive, quelle che dovrebbero lottare per i più deboli. Esse vengono ideologicamente tradotte come la panacea di tutti i mali, ma ormai sono diventate solo ed esclusivamente autoreferenziali. Una degenerazione che trova la sua unica esplicazione attraverso un disinteresse evidentemente celato, contestualmente complice del proprio coinvolgimento nella strategia capitalista.
Un’ impasse di tale portata sembra lontana da una possibile soluzione, tuttavia il mondo è in continua evoluzione, le diversità dei pensieri si sviluppano in continuazione e le variabili per cambiare le condizioni attuali sono onnipresenti.
Le parole di Walter Benjamin, sebbene con violenza, aprono uno spiraglio ad riflessione costruttiva tesa all’individuazione delle condizioni di possibilità di un cambiamento reale dei rapporti sociali: "Noi siamo nati per vendicare le sofferenza dei padri: non esiste coscienza di classe se non esiste odio di classe". Queste parole assumono, ancor di più oggi, un significato emblematico.
La coscienza di classe, riscatto del proprio status vivendi, è tappa obbligata verso la prima, ma non ultima, metamorfosi della nostra consapevolezza.
Come la spiga di grano attende pazientemente quel soffio naturale di vento affinché i suoi chicchi possano raggiungere luoghi lontani, l'immortale utopia irrazionale rivendica quel balzo verso il suo significato pratico.

Alessandro Ambrosin

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