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La guerra è una malattia

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(6 Marzo 2011) Enzo Apicella

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(Il nuovo ordine mondiale è guerra)

Spese militari, profitti e segreti di stato

(12 Aprile 2007)

In un vecchio articolo di Sbancor (1) sulle cause della guerra in Iraq (ritrovato in internet) si legge: “Guerra per mantenere il nostro stile di vita, guerra per continuare a consumare l’80% delle risorse in solo 7 paesi del mondo, guerra per le nostre belle automobili, guerra per la tv a colori, guerra per salvare le nostre belle banche, guerra per continuare ad ingrassare, mentre altrove c’è il problema della fame, guerra per le nostre malattie cardiovascolari e per i by pass, guerra per poter continuare a leggere su tutti i giornali che questo è il miglior mondo possibile nel migliore dei mondi possibili. Guerra per non finire come l’Argentina.”

Bello e coinvolgente, ma abbastanza lontano dall’individuazione delle vere cause della guerra. In fondo, descrive i paesi del nord del mondo proprio come li rappresenta la propaganda ufficiale, considerando negativo ciò che essa dichiara positivo. Mancano, in questa analisi, le classi sociali. Questi paesi, caratterizzati da un ceto uniforme dall’alto tenore di vita, esistono solo nella propaganda. Ci sono i disoccupati, ci sono i salariati a mille euro al mese, i pensionati col minimo. Anche in America ci sono gli operai cinquantenni che hanno perso il posto in fabbrica e ora confezionano panini con un salario dimezzato, ci sono i neri e i latino-americani discriminati. Molti, tra coloro che continuano a mantenere un tenore di vita alto, hanno già impegnato in acquisti a rate buona parte del salario dei prossimi anni. L’aristocrazia operaia degli anni cinquanta e sessanta è ormai un ricordo. Crescono ogni giorno le differenze sociali, che stanno divenendo abissali.

La guerra non è a responsabilità collettiva, le decisioni passano sulla testa della gente, spesso anche dei parlamentari. Non è neppure un arrogante mediocre come Bush a decidere. L’imperialismo è dominato dalla borse, dalle banche, dal complesso industriale-militare, contro il quale persino Eisenhower ha tuonato.

I peggiori militaristi, salvo casi eccezionali, non sono i militari, ma gli industriali e i banchieri che della guerra fanno un affare, che esercitano pressioni sui politici e i militari perché venga scelta, non l’arma più pratica, ma la più costosa. Alla fine – come diceva il manifesto di Basilea del 1912, nel condannare preventivamente la grande guerra che si profilava all’orizzonte – “Si è accumulata tanta polvere da sparo che le armi cominceranno a sparare da sé.”

Secondo la retorica ufficiale, lo stato democratico si differenzia da quello dittatoriale o totalitario, perché il popolo è sovrano. Ma questo popolo, elevato su un piedistallo a parole, in realtà è tenuto all’oscuro, o è informato all’ultimo momento che la decisione è già stata concordata con la Nato, o con l’Europa, con l’ONU, con la CEI, con la giunta comunale di Vicenza, e così via. Si è tanto celebrato il trattato di non proliferazione nucleare, questo patto leonino, che lascia agli stati che già hanno l’atomica il loro arsenale intatto. Ci sono però vistose eccezioni, da Israele all’Italia; non è un mistero che nel nostro paese sono collocate circa 90 atomiche, ma questo non impedisce alla nostra rappresentanza all’ONU di votare le sanzioni all’Iran. Quando sono state portate queste bombe, chi lo ha deciso, quando sono stati consultati i cittadini? O forse la democrazia in Italia è un guscio vuoto?

Cinque cittadini hanno intentato una causa contro il governo statunitense per la presenza di armi atomiche nella base Usaf di Aviano. Molti pensano che si tratti di un’azione velleitaria, visto il precedente del Cermis: la Cassazione condannò la Filt Cgil, costituitasi parte civile contro il governo USA, a un risarcimento di 50 milioni di lire, data l' “immunità di giurisdizione” degli Usa in base al trattato di Londra. Però, come mise in rilievo Lafargue, i processi, anche quando la vittoria non è molto probabile, hanno un grande valore politico, perché servono a sensibilizzare settori sociali, altrimenti non influenzabili.

Non è chiaro, soprattutto, come vengono gestite le spese militari. Si dirà che è ovvio, che si tratta di problemi di sicurezza, e che non è possibile renderle pubbliche nei particolari. Qui si finge di non capire. Si violano segreti militari se si vuol sapere come si spendono i soldi pubblici, quali profitti ricavano le ditte fornitrici, comprese quelle che hanno i lavori in subappalto? I datori di lavoro e il fisco hanno tutti i dati sulla busta paga dei lavoratori, ma questi ultimi possono conoscere solo i bilanci lisci, levigati, perfettamente simmetrici, che vengono pubblicati sui giornali, non quelli reali.

Si dirà che si tratta di dati tecnici, incomprensibili ai più. Ebbene, si tolga il segreto commerciale, e i sindacati, le associazioni, o gruppi di semplici cittadini, mobiliteranno contabili ed esperti, pagati da loro, perché verifichino e ne traggano conclusioni comprensibili ai più.

Dal tempo della glasnost gorbacioviana ci hanno inondati con discorsi sulla trasparenza, mai però ci hanno presentato qualche esempio concreto. Non possono farci conoscere i dati reali, anche perché in tal modo si capirebbe fin troppo bene chi detiene effettivamente il potere politico e chi , invece, è soltanto un valletto.

Industriali e banchieri, politici e sindacalisti, fanno a gara nel cantare le lodi del libero mercato, della liberalizzazioni riguardanti barbieri e tassisti, ma i capitalisti non amano la concorrenza, preferiscono andare sul sicuro, con le commesse statali. Fin dal tempo della I guerra mondiale le forniture militari costituivano una greppia perfetta, e molti soldati vennero mandati in guerra forniti di scarpe con suole di cartone. Ci parlano di patria, di onore nazionale, di diffusione della democrazia con azioni militari, di pacificazione mediante interventi, ma la radice di tutto è da cercare negli interessi delle banche e delle imprese fornitrici, al cui servizio i governi stanziano miliardi, sottratti a spese sociali vitali.

Il fascismo sfacciatamente parlava di guerra, di conquiste, di impero. Non meno militaristi dei gerarchi di allora, i politici di oggi aggiungono l’ipocrisia, e parlano di rispetto dell’art, 11, di spedizioni di pace. I nuovi arrivati al governo, più buffi di tutti, parlano di riduzione del danno.

C’è chi si nasconde dietro un sofisma di questo tipo. Noi saremmo pacifisti, ma gli Stati uniti sono la potenza egemone, impongono la loro volontà agli alleati, ed è pericoloso contrastarli. Ma l’imperialismo non è un comando unificato e rigido, compatto come un plotone ben addestrato. L’imperialismo è una giungla di interessi, che si compongono e si disarticolano secondo le convenienze, in cui una lobby potente conta assai più di un generale o del ministro della difesa. Non sono i tecnici a decidere quale tipo di arma o di aereo costruire, ma sono le banche e le multinazionali, delle quali persino gli onnipotenti Stati Uniti sono uno strumento. Quanto hanno lucrato le banche, le borse e le compagnie petrolifere per i continui sbalzi del prezzo del petrolio determinato dagli eventi bellici del Golfo? Il sangue umano che così copioso scorre in Iraq, Afghanistan, Palestina, Libano, si traduce in dollari sonanti. Ecco chi ha interesse a che la guerra non finisca presto. E il partito democratico, obbediente, mentre finge di contrastare Bush, propone date di ritiro, lasciando tante possibilità di modificarle. E’ evidente che si tratta solo di una manovra per confondere l’opinione pubblica americana, stanca dei continui conflitti.

Prendiamo il caso della base di Vicenza. Quante spese, oltre quelle ufficiali, si faranno per strade, servizi, ecc. Quanti ospedali, scuole, asili, istituti di ricerca scientifica verranno chiusi, perché mancheranno i fondi, spostati a favore di un’economia militarizzata? Quanto denaro è stato speso nella propaganda per convincere il “cittadino sovrano” che la costruzione della base darà ricchezza e lavoro, e, a differenza delle precedenti, non porterà inquinamento, diffusione della prostituzione, pericoli di esplosioni e di attentati, pressione poliziesca sul territorio, ecc.

Si possono avere solo i dati ufficiali, quelli degli affari “autorizzati dallo stato”. Un articolo del Manifesto ne riporta alcuni significativi: “Secondo il rapporto della Presidenza del consiglio, le vendite di armamenti all'estero autorizzate dal governo italiano nel 2006 sono salite addirittura del 61%, passando da 1,36 miliardi del 2005 a 2,19 miliardi. Mentre le consegne già effettuate hanno fruttato 970,4 milioni. Le ditte esportatrici sono sempre le stesse, Augusta (810 milioni di euro), Alenia (311), Oto Melara (283), Avio (127), Lital (123), Selex (81,5), Aermacchi (73,4), Alcatel Alenia (71,5), Iveco (49,6). Delle prime dieci aziende esportatrici, ben sette appartengono a Finmeccanica di cui lo Stato è il principale azionista. In pratica lo Stato autorizza se stesso a vendere armamenti all'estero.”

E poi dicono che il capitalismo di stato non esiste più, anche se forse sarebbe meglio chiamarlo “bellicismo di stato”.

Quanto alle banche, quella che ha fatto più affari nel capo militare è la San Paolo-Imi.

“Dietro San Paolo-Imi (446,7 milioni di pagamenti ricevuti), seguono Bnp-Parisbas (290.5), Unicredit (86,6), Bnl (80,4), Banco di Brescia (76), Commerz Bank (74,3), Banca Popolare Italiana (60,6), Banca Intesa (46,9).

Il business va ben oltre la gestione passiva degli incassi. I flussi finanziari legati alle armi nel 2006 sono saliti fino a 2,27 miliardi di euro (nel 2005 ammontavano a 1.775 milioni). E poi ci sono le percentuali sulle transazioni, in pratica su ogni pagamento le banche incassano una percentuale che varia da affare ad affare ed aumenta a seconda del rischio. “Una vendita agli Usa o alla Gran Bretagna - spiega Giorgio Beretta di Unimondo - può valere una percentuale del 2-3% mentre un affare con uno stato meno sicuro, magari del terzo mondo, permette di guadagnare fino al 10%. I compensi di intermediazione nel 2006 superano i 32,6 milioni di euro.” (2)

Questi sono i dati ufficiali, ma, soprattutto dopo i casi della Enron, della Parmalat e della Cirio, siamo diventati tutti più sospettosi. In realtà, è più facile conoscere, almeno in parte, i guadagni e le gigantesche speculazioni della DynCorp e della Halliburton piuttosto che quelle delle imprese italiane. Ed è chiaro il perché: se venissero alla luce pienamente tutti questi affari, sarebbe assai difficile continuare a sostenere la fola dell’Italia pacifica, che manda truppe in tutto il mondo solo per salvare la pace, per i più nobili ideali. Cadrebbero le quinte di cartone dietro le quali si cela una politica di rapina, nei confronti dei lavoratori italiani e degli immigrati, e dei popoli del sud del mondo.

11 aprile 2007

Note:
1) Sbancor, Casus belli: la guerra in Iraq e le sue implicazioni economiche e geopolitiche.
2) Giorgio Solvetti, Affari d'oro per le banche armate, il manifesto, 06 Aprile2007.

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