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    D’Alema, Israele e la pace

    (13 Maggio 2007)

    Abbiamo letto su Forum Palestina, questa dichiarazione del nostro ministro degli esteri e gli siamo molto grati della sua sincerità. Speriamo che questo contribuisca a far perdere le illusioni a chi crede ancora che il governo Prodi possa avere qualche funzione positiva, diversa comunque dal governo Berlusconi, nell’arena internazionale.

    D'Alema: Abbiamo aiutato Israele perché era giusto

    "Speriamo che Israele esca dalla crisi politica che sta affrontando con un governo nella pienezza delle sue funzioni e in grado di cogliere opportunità nuove".
    Così il ministro degli Esteri Massimo D'Alema, in un'intervista all'Espresso, a proposito delle difficoltà del premier Olmert e del ministro della Difesa Perez, pressati dalla richiesta di dimissioni in seguito all'indagine di una commissione d'inchiesta sulla guerra con il Libano.
    Ma quali sono le opportunità da cogliere? In particolare, il ministro spiega di riferirsi all'iniziativa "della Lega araba" che dice che "sulla base dei confini del '67 si può aprire una prospettiva di pace nella regione e chiede il ritorno dei profughi. Capisco – osserva - che per Israele quest'ultimo punto sia inaccettabile perché metterebbe in discussione il carattere ebraico dello Stato. Ma l'iniziativa definisce il terreno del confronto. Il problema è sapere come risponde Israele, quali sono le controproposte concrete. Sinora non mi pare che siano emerse con chiarezza.
    A proposito della missione internazionale in Libano, avviata dopo il conflitto tra Tel Aviv e Beirut, D'Alema dice: "Se non fossimo intervenuti noi con Unifil, Israele si sarebbe trovato in una situazione drammatica. Quindi noi abbiamo aiutato Israele, questa è la verità, perché era giusto. Li abbiamo aiutati molto di più di quelli che elogiano continuamente gli israeliani senza fare però nulla di utile per Israele".
    ForumPalestina, 10-05-07
    http://www.forumpalestina.org/news/2007/Maggio07/10-05-07D-Alema.htm

    D’Alema “crede” che Israele sia interessato a una prospettiva di pace.

    Nel giugno 1967, Israele, con una guerra lampo preventiva, nell’arco di sei giorni conquisterà la striscia di Gaza e la Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, a forte popolazione araba palestinese, ultimi lembi di quello Stato arabo di Palestina che doveva sorgere secondo il piano di spartizione delle Nazioni unite del 1947. La conquista comprenderà anche il Sinai egiziano. E l’esercito israeliano, rifiutando il cessate il fuoco dell’ONU, continuerà l’attacco e, nei due giorni successivi, conquisterà le alture del Golan siriane, quadruplicando il proprio territorio. Dopo cinque mesi di trattative, le Nazioni unite, con la risoluzione 242 del Consiglio di sicurezza, affermeranno la necessità di un ritiro di Israele dai territori arabi occupati.

    Israele rifiutò, e così dal 1967 (cioè da 40 anni), i palestinesi vivono sotto occupazione e senza pace. La loro situazione si è aggravata ulteriormente dopo il “processo di pace” di Oslo con le sanzioni economiche imposte al popolo palestinese per punirlo di aver votato in libere elezioni democratiche per Hamas. Votando questo partito, il popolo palestinese ci segnala che ha preso atto che Israele non vuole la pace ma prosegue nel piano sionista elaborato ben prima della fondazione dello Stato di Israele. Non bisogna conoscere tutti i particolari della storia del sionismo per capire che il loro piano storico consiste nell’appropriarsi del massimo della terra palestinese col minimo di palestinesi, così da restare uno Stato etnico quanto più puro possibile. La “pace” che vuole Israele è la “pace” che volevano i razzisti sudafricani in uno Stato di apartheid bianco su terre rubate alla popolazione indigena nera.

    Lo Stato d’Israele non ha mai voluto cogliere le opportunità di pace di cui parla D’Alema, addossando la responsabilità di tutto il conflitto ai palestinesi e agli stati Arabi.

    Secondo l’ONU doveva sorgere uno Stato palestinese nel 1948 accanto a quello israeliano. I palestinesi erano contrari alla spartizione.

    Chi poteva accettare di essere privato di buona parte del proprio territorio, la più fertile, Eppure l’ONU lo fece. L’ONU (allora composto da solo 56 stati) sapeva benissimo che i palestinesi erano contrari a cedere parte della loro terra, ma le potenze vincitrici del II conflitto mondiale, in particolare gli USA, che condizionavano fin da allora l’Organizzazione delle Nazioni Unite, imposero la spartizione lo stesso. Né si preoccuparono di svolgere un referendum (che avrebbero naturalmente perso) presso la popolazione palestinese che pure doveva pagare il prezzo delle decisioni altrui. Non si preoccuparono nemmeno di costituire lo Stato palestinese come avevano deciso. Lasciarono che i sionisti, nel 1947-1948 espellessero, come da tempo avevano progettato con il famigerato piano Dalet, circa 750.000 palestinesi da quello che doveva essere lo Stato ebraico e da altri territori che conquistarono. I nuovi storici israeliani, tra i quali svetta Ilan Pappe per l’accurata ricostruzione storica e per il suo alto profilo morale, hanno dimostrato che si trattò di una pulizia etnica accuratamente preparata e metodicamente realizzata.

    Era così evidente la violenza cui erano stati sottoposti i palestinesi che l’ONU votò all’unanimità la risoluzione 194 (dicembre 1948) per chiedere il ritorno dei profughi. Il paragrafo 11 della risoluzione stabiliva:

    “[L’Assemblea generale dell’ONU] decide che i profughi desiderosi di ritornare alle loro case e di vivere in pace con i loro vicini debbano poterlo fare al più presto possibile, e che siano versati indennizzi a coloro che decidano di non rimpatriare e per la perdita e i danni subiti dalle proprietà, indennizzi che, secondo i principi del diritto internazionale o secondo equità, devono essere corrisposti dai governi e dalle autorità responsabili”.

    L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha successivamente sempre ribadito:

    “il diritto inalienabile dei palestinesi di tornare alle loro case e proprietà, dalle quali sono stati sradicati e scacciati, e chiede il loro ritorno”

    Questa posizione è stata votata ben 26 volte dal 1948 al 1974 e poi altre volte successivamente e non è stata mai smentita. Ma, parimenti, non è stata mai realizzata. Oggi i palestinesi sradicati e scacciati dalla loro terra e dalle loro case sono oltre 5 milioni. E D’Alema ancora “spera” che Israele sappia “cogliere le opportunità nuove” di pace.

    Perché non sono mai stati realizzati i diritti dei palestinesi?

    Le occasioni per applicare il Diritto Internazionale sono state tante. Ma Israele non le ha mai volute cogliere perché il progetto sionista è sempre lo stesso: conquistare, sottrarre terra, colonizzare il massimo di terre palestinesi con il minimo di palestinesi e così salvaguardare il carattere ebraico e razzista dello Stato israeliano, espandendone nel contempo il territorio. La storia mostra che proprio questo è avvenuto. Il progetto è andato avanti con la complicità degli amici di Israele.

    I D’Alema di turno hanno sempre, volutamente, accettato ipocritamente le “ragioni” dei dirigenti dello stato ebraico pur vedendole sistematicamente smentite da una aggressiva, costante colonizzazione sul campo. Hanno accettato per buone le menzogne israeliane sul muro dell’apartheid che gli israeliani stanno costruendo. Hanno cercato di convincerci che è un muro per difendere la popolazione civile dagli attacchi palestinesi mentre tutti vedono che serve a difendere gli insediamenti illegali nei territori occupati, a incamerare nuove terre, ad assicurare che la Gerusalemme araba sia inglobata nello Stato ebraico, espellendone gli abitanti arabi e, infine a rendere impossibile un sia pur piccolo Stato palestinese nei territori occupati. Alla fine resteranno solo dei Bantustans accerchiati, murati e separati tra loro dove sarebbe comunque impossibile far tornare i profughi che secondo l’ONU dovrebbero tornare a Gerusalemme, a Tel Aviv, a Haifa, in Galilea, cioè in Israele. Chi avrà il coraggio di chiamare questi Bantustan, Stato Palestinese?

    I D’Alema di turno hanno accettato di convincerci della buona volontà di Sharon (“uomo di pace”) per il quale il ritiro da Gaza è l’inizio della nascita dello Stato palestinese. Ma Gaza è un territorio desertico di 40 Km di lunghezza e meno di 10 Km di larghezza, sul quale vivono oltre un milione e mezzo di palestinesi. Di Gaza gli israeliani controllano i confini, il mare e lo spazio aereo, l’economia. Costituisce soltanto una riserva indiana che non si vuole in Israele perché ne altererebbe il profilo demografico ebraico. I D’Alema di turno hanno accusato i palestinesi di voler “distruggere” lo stato ebraico e di non volere la pace con il “piccolo” Israele “da sempre minacciato”, quando invece con il suo esercito, con le sue bombe nucleari e con il suo alleato americano, lo stato sionista sta effettivamente distruggendo i palestinesi e può permettersi di minacciare e intimidire chiunque in Medio Oriente e nel mondo.

    Tutti fanno oggi pressione perché i palestinesi “riconoscano” Israele e il suo “diritto a vivere in pace” in quanto “stato ebraico”, cioè razzista. Anche Bertinotti è andato al parlamento palestinese a ribadire questa posizione.

    Qual’è il problema: Hamas o “lo Stato ebraico”dei sionisti?

    Il successo di Hamas alle elezioni e la sua vittoria nell’essere riuscito a costituire un governo di unità nazionale, oltre a rappresentare un fatto nuovo incancellabile (come vorrebbe Israele e i D’Alema del mondo), dimostra che la situazione sul campo è mutata radicalmente. I palestinesi, nella loro maggioranza, hanno capito che le “trattative” di pace di Israele e di Oslo sono state solo un inganno per poter condurre la politica sionista della conquista della terra palestinese e dell’espulsione dei suoi abitanti originari. Oggi Israele sta effettuando un imprigionamento momentaneo per poi procedere all’espulsione non appena sarà possibile. [1]

    Hamas oggi chiede solo l’applicazione del Diritto Internazionale: la restituzione dei territori occupati nel 1967. Perché dovrebbe riconoscere Israele e riconoscerlo come “Stato ebraico”? Dovrebbero riconoscere forse che è stato giusto effettuare la pulizia etnica che ha fatto di Israele uno “Stato ebraico”? Israele almeno restituisca prima i territori occupati come chiede la risoluzione 242 del 1967 e poi si parlerà di riconoscimento. Israele deve necessariamente essere riconosciuto prima di rendere il maltolto? Sarebbe come se un ladro chiedesse di essere riconosciuto come persona onorata prima di rendere la refurtiva.

    Se Israele restituirà i territori occupati, Hamas propone una tregua di 10 anni in cui ci sarà tutto il tempo di affrontare il problema del riconoscimento e quello più spinoso dei profughi. Perché D’Alema non appoggia questa posizione di Hamas? Sarebbe un bel passo in avanti e sarebbe basata sul Diritto Internazionale. Anche l’iniziativa di pace dei paesi arabi di cui parla il nostro Massimo ministro degli esteri propone il ritiro dai territori occupati senza trattative ma in cambio di riconoscimento e legami economici e politici tra il mondo arabo e Israele. Non è tanto diverso da quello che chiede Hamas. Col vantaggio per Israele che offre subito il riconoscimento da parte di tutti gli Stati Arabi. D’Alema dovrebbe ricordare che questa proposta saudita è del 2002. Perché allora Israele tergiversa? Forse perché come dice il nostro Ministro degli Esteri ora il governo israeliano è debole? Ma prima della guerra in Libano, il governo israeliano non era affatto debole e invece di accettare l’iniziativa di pace araba, sul tavolo da almeno 4 anni, si dedicava a invadere le città palestinesi e si preparava alla guerra di distruzione in Libano. E se oggi in Israele si cerca di scalzare Olmert, è solo perché non si è dimostrato all’altezza di una piccola guerra in Libano e quindi, si presuppone, totalmente incapace di preparare una guerra ben più impegnativa con l’Iran. Quando Israele sarà forte potrà preparare per bene la guerra all’Iran.

    Debole o non debole, Hamas o non Hamas, comunque nessun governo israeliano accetterà di restituire i territori occupati, se non costretto con le maniere forti (cioè con dure sanzioni).

    La restituzione sarebbe solo il minimo del Diritto Internazionale. Perché in verità resterebbe sempre quell’altro piccolo aspetto del diritto internazionale (dal dicembre 1948), che è il ritorno dei profughi. D’Alema dice di non averli dimenticati (secondo l’intervista egli “chiede il ritorno dei profughi. Capisco – osserva - che per Israele quest'ultimo punto sia inaccettabile perché metterebbe in discussione il carattere ebraico dello Stato. Ma l'iniziativa definisce il terreno del confronto”). Egli sa che essi vivono senza diritti in vari paesi arabi, in condizioni economiche e di sicurezza disastrose. Recentemente i profughi palestinesi in Iraq sono stati costretti a fuggire sotto la minaccia di alcune componenti sciite legate al governo filo-americano. Ma il Nostro dice che non ha dimenticato ….

    “Capisce” che il ritorno dei profughi è inaccettabile per Israele ma dimentica che esso è sancito dal Diritto Internazionale e va applicato. Che non sia accettabile per Israele non vuol dire niente. Era accettabile per Saddam Hussein il ritiro dal Kuwait? No, ma ha dovuto ritirarsi. Certo l’Iraq non è Israele e della sovranità dell’Iraq si può fare quello che si vuole. Che sia Israele e la lobby ebraica americana a decidere quale sia il “Diritto internazionale”? L’applicazione del Diritto Internazionale sul dramma dei palestinesi richiederebbe qualche pressione su Israele perché accetti di far rimpatriare almeno qualcuno di questi profughi. Ma D’Alema non ci pensa nemmeno. “Diritto Internazionale” sembra essere diventato un collutorio con cui tutti i D’Alema del mondo si sciacquano la bocca. Il nostro Massimo agli Esteri lo considera “un’opportunità da cogliere” un “terreno di confronto”. In tutte le cose i D’Alema occidentali aborriscono le pressioni su Israele e recitano il refrain sionista: Sul ritiro dai territori occupati e sul ritorno dei profughi, Israele non può accettare dictat (dall’ONU) ma è disponibile a “trattare”.

    D’Alema dice che bisogna definire il terreno del confronto. Ancora! Siamo agli esordi. Prima stabiliamo il terreno del confronto, poi decidiamo con chi trattare, intanto colonizziamo. Il gioco è vecchio! E poi che cosa c’è da trattare sui “diritti inalienabili” dei palestinesi? Cosa c’è da trattare sul “Diritto internazionale”? Il Diritto internazionale è legge non dictat e va rispettato integralmente e subito. Sappiamo tutti che il ladro che vuole trattare sulla “legge”, è un furbo che vuole farla franca. Se poi va dicendo che non ha con chi trattare, allora vuol dire che della legge se ne frega altamente.

    Israele da sempre dice di voler “trattare” sulla restituzione dei territori occupati; da Oslo in poi dice di voler “trattare” anche sui profughi, a condizione che però che il loro ritorno non alteri la natura ebraica dello Stato. In realtà, noi vediamo che, con l’aiuto della potenza americana, con l’uso ricattatorio dell’olocausto e la relativa minaccia di “antisemitismo” contro chi gli si oppone, Israele non ha mai seriamente trattato, sapendo di farla comunque franca.

    Prima ha sostenuto che l’OLP era una organizzazione terroristica che non poteva essere riconosciuta come “partner per la pace”, poi ha cercato di costruire un’alternativa alla stessa OLP, finanziando organizzazioni diverse nei territori occupati (l’assemblea dei sindaci, la stessa Hamas). Poi accortosi che Hamas era un osso ancora più duro dell’organizzazione Fatah di Arafat, ha abbandonato il suo piano e qualsiasi progetto di accordo coi palestinesi.

    Dopo la guerra del Golfo (1991), sotto le pressioni internazionali ha dovuto accettare il processo di Oslo, ha quindi riconosciuto quell’organizzazione che per lui era il male minore, l’OLP, e ha iniziato una “trattativa” sul “Diritto internazionale” invitando, nel frattempo, i suoi amici-servi-protettori occidentali ad operare per corrompere il più gran numero possibile di rappresentanti palestinesi e imporre loro la versione sionista del “Diritto internazionale”.

    Quando a Camp David, Arafat ha avuto il coraggio e la forza di rifiutare l’offerta generosa” di uno Stato ridotto al 70% della Cisgiordania, senza Gerusalemme Est, senza acqua, senza confini e senza sovranità, ecco che Israele ha invaso i territori, ha iniziato la costruzione del Muro dell’apartheid, ha incarcerato Arafat, probabilmente brigando per il suo avvelenamento, ha imposto come suo “unico partner per la pace” il debole Abu Mazen e ha cominciato a prendersi (al di qua del muro) quello che Arafat non aveva voluto riconoscergli.

    Quando i palestinesi hanno scelto Hamas, togliendo il loro riconoscimento ad Abu Mazen, Israele si è rifiutato di trattare con i legittimi rappresentanti dei palestinesi, ha imposto sanzioni, ha incitato alla guerra fratricida tra Fatah e Hamas. Ma anche questo piano sta fallendo, e Israele oggi si sforza di far perdurare le sanzioni e mantenere l’isolamento internazionale di Hamas, per rimandare ancora l’applicazione del Diritto Internazionale.

    Per applicare il Diritto Internazionale non c’è bisogno di riconoscimenti, non c’è bisogno di trattative. Il Diritto internazionale si applica e basta, (sempre che chi può esercitarlo ne abbia voglia). La sua applicazione non dovrebbe nemmeno essere richiesta da Hamas, o dagli Stati arabi. Comunque l’OLP, Arafat, Abu Mazen hanno trattato e dov’è lo Stato palestinese? La colonizzazione non è mai cessata e alla fine non ci sarà più niente da trattare e ci si troverà davanti al classico “fatto compiuto”. Il cosiddetto ritiro unilaterale di Sharon e Olmert lasceranno ai palestinesi le prigioni a cielo aperto che sono i Bantustan, delimitati dal muro dell’apartheid. In questo senso siamo ormai vicini alla fine delle “trattative”.

    A 60 anni dalla fondazione dello Stato sionista, a 40 anni dall’occupazione di Gerusalemme Est, Cisgiordania e Gaza, D’Alema si aspetta “controproposte concrete” alle iniziative di pace arabe. “Sinora non mi pare che siano emerse con chiarezza” dice.

    È vero, non sono emerse con chiarezza, è invece emerso con chiarezza che Israele vuole tutta la Palestina senza i palestinesi.

    Uno o due Stati?

    La prospettiva di pace che D’Alema ritiene fattibile e realizzabile è la cosiddetta soluzione dei “due Stati”. Anche Bertinotti la pensa allo stesso modo e si è recato a Ramallah per ribadirlo ai palestinesi oltre che, naturalmente, per condannare la violenza palestinese. Non ci risulta che alla Knesset abbia condannato la ben più feroce violenza di Israele; anche per Bertinotti, evidentemente, come per D’Alema e per Israele d’altronde, è solo la violenza dei deboli e degli oppressi (riconosciuta legittima dalla Carta dei diritti dell’uomo) che va condannata mai quella dei forti e dei prepotenti.

    Ma la proposta dei due Stati è realizzabile? È compatibile con il Diritto Internazionale? Secondo quest’ultimo, abbiamo visto, Israele dovrebbe accogliere nelle sue frontiere 5 milioni di profughi (Risoluzione 194) e dovrebbe ritirarsi entro le sue frontiere precedenti il 1967 (Risoluzione 242).

    Se questo avvenisse i problemi sarebbero risolti. Avremmo effettivamente due Stati: Israele, entro le sue frontiere precedenti il 1967 (78% della Palestina storica) con una popolazione mista di circa 6,5 milioni di palestinesi e 4,5 milioni di ebrei; uno Stato misto in cui però la maggioranza sarebbe palestinese (5 milioni di profughi + 1 milione e mezzo di palestinesi cittadini arabi di Israele, oggi con diritti limitati). Ci sarebbe poi lo Stato palestinese sui territori occupati nel 1967 (22% della Palestina storica) abitato da 3,5 milioni di palestinesi e 500.000 ebrei cioè i coloni degli insediamenti illegali. Ci sarebbero quindi due Stati a maggioranza palestinese e non si vede perché dovrebbero restare divisi. La logica dice che subito questi due Stati palestinesi si fonderebbero in un unico Stato sul territorio della Palestina storica, con una popolazione maggioritaria di 10 milioni di palestinesi e una minoritaria di 5 milioni di ebrei. Sarebbe lo Stato al mondo con la più alta percentuale di ebrei rispetto alla popolazione complessiva e sarebbe la seconda concentrazione di ebrei al mondo dopo gli Stati Uniti. Si noti quindi che con l’applicazione coerente e rigorosa del Diritto Internazionale si finirebbe comunque ad uno stato unico e multietnico. Per i palestinesi sarebbe la realizzazione dei loro sogni; per il Diritto Internazionale ciò costituirebbe la sua piena realizzazione. Per il mondo intero sarebbe la pace in Medio Oriente. Ma gli ebrei lo accetterebbero? No.

    Questa prospettiva terrorizza gli ebrei (israeliani e nel mondo) ma sarebbe in conformità del Diritto Internazionale. Ed è per questo che Israele non accetterà mai (se non sarà costretto) l’applicazione del Diritto Internazionale. È per questo che “tratta”, cioè per non doverla mai applicare. Ma senza Diritto Internazionale non si potranno mai realizzare i “legittimi diritti dei palestinesi”, non ci potrà mai essere la pace in Medio Oriente.

    Senza dire che la proposta dei due Stati non è affatto fondata sul Diritto Internazionale. A mio modesto modo di vedere nel 1947, l’ONU non aveva nessun diritto di spartire la Palestina senza consultare i suoi abitanti. Le Nazioni Unite, costituite allora solo da una minoranza degli Stati del mondo (i paesi coloniali non ebbero voce in capitolo) imposero, ingiustamente, la divisione di una terra che da millenni era stata unita. Ma sia pure, il male fu fatto. Anche volendo accettare la spartizione, essa definì le frontiere di Israele e dello Stato palestinese nel 1947. Sono le uniche frontiere che l’ONU abbia tracciato. Si ritorni almeno a quelle frontiere. Le frontiere che Israele si diede nel 1949, dopo la pulizia etnica, furono imposte dagli israeliani con la guerra e accettate dall’Occidente. Esse furono in vigore dal 1948 al 1967 e non furono mai accettate dai palestinesi. Ma anche volendo accettare queste altre frontiere, almeno si costringa Israele a ritirarsi entro di esse. Se l’Occidente è in grado di ottenere il ritiro israeliano dai territori occupati nel 1967, lo faccia subito e nasca uno Stato palestinese nei territori occupati.

    I nodi vengono al pettine e noi dobbiamo concludere che: O l’impresa sionista è stata una follia a cui porre al più presto termine; o che dobbiamo aspettarci che il Vicino e Medio Oriente sprofondino sempre più nella guerra e che alla fine sia questa guerra a risolvere il problema. Gli USA, Israele e tutti i D’Alema del mondo hanno scelto la seconda soluzione, costi quel che costi, e dopo l’Afghanistan e l’Iraq, si preparano alla guerra contro l’Iran.

    Ma noi, possiamo accettare che le cose vadano avanti in questo modo? Possiamo accettare che il Diritto Internazionale sia violato ogni giorno? Interpretato ad uso e consumo? Condizionato da mille pretesti israeliani? Possiamo accettare che il popolo palestinese, incolpevole dell’Olocausto, sia trattato come è stato trattato finora? Possiamo accettare che il Vicino e Medio Oriente siano per sempre afflitti dall’ingiustizia, dalla guerra e dal terrorismo? Possiamo accettare la guerra infinita?

    I profughi: Israele cambia ancora le carte in tavolo

    Vediamo ora più approfonditamente all’altro aspetto del Diritto Internazionale: il ritorno dei profughi. Durante le trattative di Taba (dicembre 2000) il governo di Ehud Barak si dichiarò disponibile ad accettare, per ragioni umanitarie, il ritorno di alcune migliaia di vecchi sopravvissuti della pulizia etnica del 1948. Rifiuto assoluto invece per quanto riguardava il ritorno dei loro figli e nipoti. Si sa, i vecchi non possono far figli e presto moriranno e così secondo Israele sarebbe risolto il problema dei profughi, così sarebbe attuato il “Diritto internazionale”. Fra qualche anno tutti gli espulsi del 1948 non ci saranno più, rimarranno solo i loro discendenti. Ma per Israele essi non sono stati espulsi, sono nati in altri paesi. Quindi, per Israele non ci sarà più il problema dei profughi palestinesi. Logico e semplice. La logica sionista fa miracoli. La realtà è diversa: il Diritto Internazionale stabilisce che i sopravvissuti della pulizia etnica, i loro figli, i loro nipoti sono legittimati a rientrare se lo desiderano. Abbiamo visto che se tornassero, lo Stato ebraico non sarebbe più ebraico. Sarebbe uno Stato di ebrei e palestinesi, uno stato misto, non etnico, come tutti gli stati del mondo dove diverse genti convivono. Ma, scandalo! Lo Stato deve essere ebraico! D’Alema è assolutamente d’accordo.

    Uno Stato che si definisce “ebraico” o è uno Stato religioso o uno stato etnico. D’Alema dovrebbe essere contrario all’uno e all’altro. Ufficialmente Israele non è uno Stato religioso, e quindi è uno stato etnico, per una sola razza, per gli ebrei. Chiamiamo le cose col loro nome: Israele è uno stato razzista. E i palestinesi d’Israele, che non sono ebrei, sono cittadini di seconda classe. Oggi non esistono altri stati razzisti. Ovunque ci sono Stati dei loro cittadini senza distinzione di razza, religione, etnia. I bianchi Sudafricani volevano uno Stato per soli bianchi, dove i neri non avevano diritti. La Germania nazista voleva essere lo Stato dei soli ariani, per questo espelleva e eliminava i non ariani, cioè gli ebrei. Ma entrambi i progetti, sudafricano e nazista, sono falliti. Oggi sono le vittime del nazismo che costruiscono uno Stato per una sola razza come i loro persecutori. E D’Alema approva. Finge di non capire, lui Ministro degli Esteri che dietro la parola d’ordine ”Israele deve restare uno Stato ebraico” non c’è solo la negazione del Diritto Internazionale della risoluzione ONU 194, c’è anche il razzismo! Con il razzismo c’è anche la guerra, perché “Stato ebraico” significa non voler risolvere alla radice i problemi mediorientali, negare i diritti ai palestinesi, mantenere il Medio Oriente in uno brodo di cultura della tensione, dell’ingiustizia, della violenza.

    Per i profughi palestinesi, i D’Alema d’Occidente potrebbero anche cercare di convincere la maggior parte di essi a sistemarsi, dietro giusto compenso dello Stato israeliano, nei paesi dove da decenni vivono, ma solo dopo aver ottenuto gli stessi diritti degli altri cittadini di quei paesi. Si dovrebbe raggiungere un accordo a tre: palestinesi, Stati Arabi, Israele: i palestinesi dovrebbero accettare di restare, gli Stati arabi dovrebbero concedere loro uguali diritti, gli israeliani dovrebbero pagare giusti compensi per chi accetta di non tornare ma anche e soprattutto dovrebbero accogliere quelli che non vogliono compensi ma desiderano tornare alle loro proprietà e alle loro case. Questo sarebbe ancora all’Interno del Diritto Internazionale.

    L’Occidente si dovrebbe liberare dall’influenza nociva di Israele e della lobby ebraica americana e imporre il Diritto Internazionale. È pronto a fare questo? No! L’Occidente non è disposto a farlo. Ha avuto tanto tempo per farlo. Esso ha accettato la logica che si deve “trattare”. In realtà l’Occidente, D’Alema, Bertinotti, il centro, la sinistra, Bush vogliono quello che vuole Israele: costringere i palestinesi ad accontentarsi delle frontiere definitive che lo Stato ebraico sta tracciando con il Muro dell’apartheid. Soprattutto vorrebbero che i profughi non tornassero alle loro case e alle loro proprietà ma restassero dove sono o tutt’al più, se i bantustans palestinesi saranno formalizzati come Stato palestinese, che essi vadano ad affollare ulteriormente i carnai di Gaza e delle prigioni a cielo dietro il Muro dell’apartheid. Ecco la soluzione dei profughi secondo la visione dei due Stati di cui parlano Israele e i suoi sciocchi amici-servi.

    Shlomo Avieri, un pezzo grosso della facoltà di scienze politiche dell’Università ebraica di Gerusalemme e vera testa pensante per ultimi governi sulla questioni delle “trattative” con il mondo arabo, ha stabilito la proposta che Israele cercherà di imporre alla controparte, palestinese o araba che sia. Egli propone di mutare la vecchia linea “terra in cambio di pace” (che abbiamo visto come sta andando a finire) con una linea nuova: “terra in cambio di garanzie sui rifugiati”. Egli afferma: “Nessun dirigente israeliano può fare significative concessioni sulla West Bank pianificare l’evacuazione di decine di migliaia di coloni israeliani se poi non può rassicurare i suoi elettori che se Israele restituisce i territori occupati nel 1967, i palestinesi accetteranno questo come la fine non-ambigua e finale del conflitto”.

    C’è da giurare che D’Alema condivida queste parole. L’attuale linea israeliana non è più quella di trattare sulla pace o il riconoscimento. Balle! Israele sta proponendo di chiudere prima la questione profughi in cambio di “significative” concessioni sulla Cisgiordania e in cambio dell’evacuazione di “decine di migliaia” di coloni (ma non sono ormai 500.000?). La farsa di Oslo viene riesumata ma all’incontrario. Allora Israele “trattava” prima sui territori in cambio di pace, per poi affrontare il problema dei profughi. Oggi vuole prima trattare sui profughi per poi affrontare il problema dei territori. È chiaro che vuole solo guadagnare tempo. E poi, quale sarebbe la “trattativa” sui profughi? La trattativa, dice Avieri, non dovrebbe “mettere in pericolo l’esistenza di Israele come Stato ebraico”. E che trattativa è questa? Si dica direttamente che i palestinesi devono ingoiarsi la risoluzione 194.

    Ma sono convinto che i palestinesi non accetteranno mai. È inutile continuare a fare pressioni su di loro. Potremo rigirare le parole di Avneri contro di lui, “Nessun dirigente palestinese può fare significative concessioni sui profughi …” Tra l’altro ci vuole una bella faccia tosta per chiedere che i palestinesi rinuncino a qualcosa che è stabilito da una risoluzione ONU mentre si afferma che Israele invece non può fare significative concessioni sul ritiro dai territori occupati che invece è richiesto da una risoluzione Onu.

    L’espulsione dei profughi del 1947-48 costituisce il peccato originale dello Stato ebraico. A quella pulizia etnica i dirigenti israeliani non vogliono assolutamente porre rimedio secondo la 194. Quest’ultima non si concilia con lo “stato ebraico” che Israele vuole essere.

    Ma come fare a non rendersi conto che il problema di fondo è proprio lo “Stato ebraico”? Non si vuole ritirarsi da tutti i territori, non si vogliono far rientrare i profughi e tutto in nome dello Stato ebraico.

    L’unica soluzione giusta e definitiva appare essere la costituzione di un solo Stato democratico in Palestina per gli ebrei e per i palestinesi, con uguali diritti e uguali garanzie internazionali affinché nessuno sia espulso. Questo richiede agli ebrei di rinunciare alla follia sionista di uno Stato per soli ebrei, uno stato razzista. Colgano questa opportunità di imparare a vivere con gli altri! Tra non molto questa richiesta sarà fatta da tutti i palestinesi, non solo perché è giusta e conforme agli ideali di democrazia, ma anche perché Israele con la sua colonizzazione e i suoi rifiuti non ha lasciato spazio ad alternative

    Non c’è altra soluzione e chi ama la pace e la giustizia deve lottare per quest’obiettivo, come si è fatto contro il Sudafrica razzista. Palestinesi, ebrei democratici e antisionisti, cittadini del mondo amanti della pace e della giustizia ecco il compito arduo che ci aspetta. Sarà una lotta dura che alla fine, però non libererà solo i palestinesi, ma libererà anche gli ebrei da quella malsana teoria politica razzista che è il sionismo.

    La guerra in Libano, in preparazione di quella contro l’Iran.

    D’Alema ha avuto uno scatto di sincerità. Una cosa rara tra i politici. Ci aveva raccontato, prima, che le truppe italiane erano in Libano per difendere i libanesi aggrediti e per riportare la pace. Oggi il Massimo baffuto si confessa e dice che l’Italia è corsa in aiuto di Israele. "Se non fossimo intervenuti noi con Unifil, – egli dichiara - Israele si sarebbe trovato in una situazione drammatica. Quindi noi abbiamo aiutato Israele, questa è la verità, perché era giusto”. E si vanta che il suo governo è stato più soccorrevole verso Israele della stessa destra di Fini e Berlusconi, perché loro parlano e D’Alema fa i fatti.

    Noi intanto ci chiediano: Perché era giusto aiutare Israele? Forse perché aveva perso una guerra che aveva pretestuosamente scatenato? Da quando in qua si aiutano gli aggressori? Certo, è sicuro che Israele abbia perso la guerra, dal momento che dopo un mese di massicci bombardamenti e un’invasione del Libano meridionale dall’aria, da terra e dal mare non è riuscito, col quarto esercito più potente del mondo, con la sua schiacciante superiorità tecnica e il sostegno degli Stati Uniti d’America, ad avere ragione del coraggio di circa 5000 miliziani di Hezbollah. Dopo un mese di bombardamenti, dai villaggi rasi al suolo sbucavano ancora i resistenti libanesi che facevano saltare i carri armati merkava, abbattevano gli elicotteri forniti ad Israele dagli americani e lanciavano razzi sempre più profondamente in territorio israeliano.

    La guerra irresponsabilmente scatenata da Israele non ha realizzato nessuno degli obiettivi israeliani, anzi ha dimostrato la fragilità e l’impotenza dello Stato ebraico. Stava anche dimostrando una cosa già chiara a molti, vale a dire che Israele non può ricorrere alla guerra ma deve incamminarsi sulla strada del rispetto della Diritto Internazionale e della pace. Da questa impasse ecco che D’Alema ha fatto di tutto per salvare Israele. Non era meglio lasciarlo cuocere nel suo brodo in modo che questi arroganti e irresponsabili avventurieri del nostro tempo fossero costretti a riflettere e a cercare la via della pace?

    No, dice D’Alema. Ma il nostro fine politico si sta assumendo una bella responsabilità. È chiaro che la guerra contro Hezbollah fa parte, nei piani israelo-americani, di un più ampio confronto con l’Iran. In previsione di una guerra contro l’Iran, una guerra atomica, Israele ha bisogno di togliersi la spina nel fianco rappresentata da Hezbollah. Se attacca l’Iran senza prima distruggere Herzbollah e senza intimidire la Siria, Israele rischia di dover dividere le sue forze in un momento in cui esse vanno concentrate contro il solo osso duro di Teheran, e difendersi anche dalla resistenza libanese e dalla Siria sulla sua frontiera settentrionale. L’obiettivo dell’attacco estivo del 2006 era quello di sbaragliare la resistenza libanese e costringere il governo filo-occidentale di Seniora a controllare la frontiera con Israele e impedire la presenza di Hezbollah e dei loro alleati siriani. La distruzione delle infrastrutture del Libano e i quartieri di Beirut rasi al suolo erano solo un avvertimento di quello che può succedere al Libano se Seniora e i suoi alleati non mantenessero la “pace” per Israele nel sud del Libano durante l’attacco all’Iran che stanno pianificando.

    Grazie alla sua confessione, almeno ora abbiamo capito con chi sta D’Alema e il nostro paese. Siamo in Libano per difendere l’aggressore dal popolo libanese. Siamo in Libano per smantellare i bunker di Hezbollah dai quali i partigiani si sono difesi dai soldati israeliani e dai bombardamenti. Siamo in Libano per impedire a Hezbollah di ricostruire le rampe di lancio per potere contrattaccare in caso di nuova aggressione. Siamo in Libano per cercare di disarmare la resistenza libanese e dare una mano al filo-occidentale Seniora e al suo governo di minoranza. Siamo in Libano per facilitare l’attacco all’Iran che Israele e gli Usa vorrebbero realizzare. Stiamo facendo il lavoro di Israele e degli americani.

    C’è poco da essere fieri.

    Dagli ex-DS, a loro volta ex-PDS, a loro volta ex-PCI e attuali PD non ci aspettavamo molto di più. Ma come fanno Rifondazione e il PCd’I a restare, senza nemmeno protestare, in questo governo? Non doveva questo governo marcare discontinuità con Berlusconi? Discontinuità in Afghanistan, dove si aumentano le truppe italiane e si caccia Emergency e in Libano dove siamo andati a lavorare per Israele e per la guerra.

    Note: [1] Martin van Creveld, professore di storia militare alla Hebrew University a Gerusalemme, ha sottolineato che “la deportazione collettiva” è l'unica strategia sensata nei riguardi del popolo palestinese.“I palestinesi dovrebbero tutti essere deportati. Coloro che lottano per questo obiettivo (il governo israeliano) stanno solo aspettando l'uomo e il momento giusti. Due anni fa, soltanto il 7 o l'8 per cento degli israeliani erano dell'opinione che questa sarebbe la migliore soluzione, due mesi fa la percentuale era salita al 33 per cento, ed ora, secondo un sondaggio Gallup, la percentuale è del 44 per cento”. Vedi: IAP News, RENSE.COM, 2 giugno 2003

    Shlomo Avneri, Israeli and Palestinians should ponder “Land for refugees”, Daily Star, 2 marzo, 2007 (corsivo nostro).


    12 maggio 2007

    Manno Mauro

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