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Pro mutuo mori

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Una nota sulla mobilitazione del 9 giugno.

(27 Maggio 2007)

Il 9 giugno viene a Roma Bush, Presidente della prima potenza mondiale. Il governo presenta questa visita come un’occasione per rinsaldare i legami tra Italia ed USA, nel quadro di una comunità occidentale più coesa. Ma al di là della retorica ufficiale, i giornali hanno da tempo lanciato l’allarme rispetto alle possibili contestazioni. Le preoccupazioni espresse al primo apparire di appelli in rete contro lo sgradito ospite sono un segno inequivocabile di quanto si tenda a ridurre gli spazi di agibilità. Si considera, di fatto, incompatibile con questa democrazia la ferma protesta nei confronti del primo protagonista delle aggressioni imperialiste che avvengono in tutto il mondo Le carneficine di cui si sono macchiati i soldati americani (e alleati), le torture e le carceri segrete della CIA, il complessivo disegno volto a rimodellare il Medio Oriente e l’Asia centrale sulla base dei propri interessi, non possono essere contestati. Così come non può essere motivo di protesta il fatto che l’amministrazione USA abbia deliberatamente fatto morire migliaia di proletari, per lo più neri, quando la città di New Orleans fu colpita dall’uragano Katrina. Ovvero da un effetto del riscaldamento climatico, prodotto da quell’american way of life che Bush considera intoccabile.

Ma quando diciamo che si intende negare legittimità al dissenso radicale nei confronti di George W. Bush, non alludiamo soltanto al clima di allarme creato dai media. Né pensiamo in modo esclusivo a chi, come l’ideologo del Corriere della Sera Angelo Panebianco, vede in qualsiasi forma di manifestazione, anche la più moderata, un colpo mortale alla credibilità internazionale del paese. Vi è chi, muovendo da obiettivi simili, lavora più di fino. Chi non attacca il proposito stesso di manifestare, ma segnala quali sono le piazze buone e quali quelle cattive. Chi non difende Bush a spada tratta, ma lo critica in modo ragionevole. D’altronde, sui quotidiani italiani, la politica statunitense è stata spesso oggetto di critiche “assennate”. Si pensi a La Repubblica, il quotidiano più bellicista, che nel 1999, durante l’aggressione alla Serbia, aveva assunto il ruolo di organo “ufficioso” della NATO e che altrettanto stava iniziando a fare sull’Afghanistan, prima del rapimento Mastrogiacomo. Ebbene, questo quotidiano, tramite Vittorio Zucconi, ha spesso criticato Bush. Dicendo che gli USA sono una vera democrazia ma sbagliano a scavalcare l’ONU e, talvolta, la NATO ed esprimendo l’istanza di una pressione europea affinché l’alleato statunitense faccia scelte ponderate. L’implicito, in queste critiche, è che Clinton era un grande Presidente e che la devastazione della Serbia del 1999 costituisce un modello nella gestione delle crisi internazionali.

Ora, abbiamo accennato alla linea di politica estera di un quotidiano per un motivo preciso. Il 9 giugno, a Roma, ci sarà una piazza che, al di là di qualche diversità di accento, esprimerà gli stessi contenuti di un qualsiasi articolo di Zucconi. Stiamo parlando della piazza che sostiene di voler contestare Bush ma non Prodi. Proposito a dir poco bizzarro, dato che Italia e USA sono alleati e condividono la responsabilità di varie guerre. Volendo essere logici, non criticare Prodi significa anche smorzare i toni nei confronti di Bush. Significa, per meglio dire, sostenere di fatto Prodi nel suo sforzo di contenere gli “eccessi” della prima potenza planetaria, riconducendone la politica negli ambiti multilaterali come la NATO e l’ONU. In sostanza, siamo lontani anni luce dal no alla guerra “senza se e senza ma” che Rifondazione, Arci e Fiom dovettero abbracciare nel 2003, nelle mobilitazioni contro l’invasione dell’Iraq. Oggi queste forze sono direttamente al governo o sono un trait d’union tra governo e società.

Oggi, Rifondazione Comunista appoggia tutte le imprese militari italiane. Magari, rispetto all’Afghanistan, sostiene la proposta di una conferenza internazionale lanciata mesi fa da D’Alema. E’ chiaro che tale passaggio, in un contesto di guerra sempre più guerreggiata, è a dir poco chimerico. Ma è interessante notare che in esso consiste l’utopia della piazza “buona” del 9 giugno. Non si propugna il ritiro da quella guerra, bensì un altro modo di condurla, nel sapiente dosaggio di bombe e diplomazia.

La proposta di D’Alema (che lo stesso ministro ha accantonato) non era che una presa d’atto delle difficoltà incontrate sul campo dalle forze occupanti: farla passare per un messaggio di pace è stato davvero un capolavoro di ipocrisia! Per fortuna, però, il 9 giugno ci sarà anche la mobilitazione di chi realmente intende opporsi alla guerra, senza fare sconti a nessuno, contestando Bush e Prodi a un tempo.

Ovviamente, noi parteciperemo a questa manifestazione.

Ma proprio perché la sfida che abbiamo di fronte è di grande importanza e perché intendiamo rafforzare la vera mobilitazione contro la guerra, intendiamo fare alcune precisazioni. Nel documento di convocazione della piazza antagonista – e della assemblea che si è tenuta a Roma il 18 maggio – si compie un errore analitico che non è privo di conseguenze politiche. Si parla di subordinazione dell’Italia nei confronti degli USA e questa pare essere tra le ragioni principali della contestazione a Prodi ed al suo governo. Fortunatamente, nell’assemblea del 18 maggio, questo motivo è passato in secondo piano rispetto alla volontà di denunciare il bellicismo del governo italiano. Ma non basta. Il mito relativo ad una presunta subordinazione dell’Italia agli USA va definitivamente sfatato. Va detto in modo chiaro che non stiamo lottando per la riconquista della sovranità nazionale e che l’Italia non è un paese oppresso dal giogo coloniale ma un paese colonizzatore. Se un limite c’è stato, nella opposizione alla guerra in Iraq, è consistito proprio nel non aver messo in primo piano l’interesse italiano. In un primo tempo, era addirittura sembrato che l’Italia fosse entrata in guerra perché Berlusconi si voleva ingraziare Bush.

Poi, quando sono emersi gli interessi italiani – dell’ENI in particolare – non si è avuta la capacità di sviluppare una campagna al riguardo.

Qualcuno, sorpreso dalla intraprendenza del capitale nostrano, non potendo più limitarsi a denunciare gli americani, si è inventato la storia dell’Italia che si mette sotto lo scudo USA perché il suo capitalismo non avrebbe autonome capacità di penetrazione. Eppure proprio il campione nazionale citato (l’ENI) mostra il contrario, sulla pelle di intere popolazioni in varie parti del mondo. Si pensi al disastro ecologico prodotto in quella parte della foresta amazzonica che si trova in Ecuador. Si pensi alla Nigeria, dove l’opera di rapina delle multinazionali come l’ENI è denunciata pure dai vescovi, timorosi che il malcontento popolare possa assumere forme radicali.

Nell’uno come nell’altro caso non si sono svolte iniziative adeguate. Quasi come se prevalesse la forza dell’abitudine: denunciare la Shell rimane, ancor oggi, più facile che prendersela con l’ENI. Allora, quello che abbiamo di fronte non è solo un limite analitico. Gran parte del movimento, anche schierato coerentemente contro la guerra, non riesce a far sua l’idea che bisogna anzitutto contrastare l’imperialismo del proprio paese. Non si parte, insomma, dal presupposto che occorrerebbe impegnarsi nell’individuazione degli interessi che determinano il concreto atteggiamento dell’Italia nella politica internazionale. Ora, ci sembra che proprio in un documento distribuito all’assemblea del 18 maggio di Roma (Qualche riflessione sui contenuti della manifestazione del 9 giugno contro la visita di Bush a Roma) siano state espresse istanze vicine alle nostre.

Non a caso tale scritto è stato firmato da realtà con le quali da tempo ci confrontiamo e collaboriamo: Pagine Marxiste, Circolo Internazionalista di Torino, Collettivo Internazionalista di Napoli, Red Link, Gruppo Comunista Rivoluzionario, Comitato di lotta internazionalista di Torino.

Non possiamo che concludere questa nota sottolineando la nostra condivisione di quel documento e impegnandoci nella costruzione di uno spezzone che, al corteo del 9 giugno, sappia esprimere una ferma opposizione sia all’imperialismo italiano che a quello statunitense.

Roma, 26 maggio 2007

Corrispondenze Metropolitane (Roma)

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