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Una nazione di assassini

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(11 Maggio 2011) Enzo Apicella

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Cause della crescita del militarismo e del neofascismo

(17 Giugno 2007)

A comprendere la situazione attuale, può giovare un breve confronto con periodi bellici del novecento, per conoscere meglio le caratteristiche generali dell’imperialismo e le differenze specifiche del nostro periodo.

Negli anni trenta, due stati, Inghilterra e Francia, controllavano i più vasti imperi coloniali, ma le loro capacità produttive risultavano sempre più inadeguate al mantenimento di questa funzione dominante. A maggior ragione, ancora più squilibrato sembrava il rapporto tra Belgio, Olanda e Portogallo con i loro vasti imperi. Tutti questi stati, con l’eccezione del Portogallo, erano democrazie, ma vivevano sfruttando centinaia di milioni di persone schiavizzate in Asia e Africa. C’era poi la Germania, per capacità produttive seconda soltanto agli Stati Uniti, guidata da un partito totalitario, che lottava con ogni mezzo per ottenere il dominio in Europa e la ridistribuzione delle colonie. Ad essa si aggiungeva l’Italia, che si sforzava di emanciparsi dalla tutela inglese, e chiedeva pure una revisione delle zone di influenza. L’Inghilterra cercava di tacitarle con concessioni, ma, quando si rese conto che la Germania la stava estromettendo dai mercati dell’America latina e dell’Europa sud-orientale, e che il Giappone, invadendo la Cina, non trovava una grande resistenza in Chang Kai-shek - che temeva più una sollevazione delle masse che i conquistatori giapponesi - allora l’Inghilterra cominciò una corsa al riarmo, che coinvolse tutti gli altri paesi.

Ai giorni nostri, invece, la potenza revisionista, quella che apporta più colpi allo status quo, è proprio quella dominante. Gli Stati Uniti, colpiti da una crescente deindustrializzazione, con una bilancia dei pagamenti terribilmente squilibrata, con un debito crescente verso l’estero, con una popolazione essa pure indebitata, per gli acquisti di case o di prodotti a rate, devono per forza scaricare all’esterno queste enormi tensioni. Infatti la politica estera non è altro che la continuazione di quella interna. Questi problemi non si possono risolvere con un’oculata politica economica, ma soltanto con la guerra. Per l’imperialismo, ossia per il capitalismo gangster, la guerra non è una scelta, una politica, ma una necessità vitale.

Il carattere parassitario dell’imperialismo lo vediamo già nelle metropoli. Un breve articolo di Joseph Halevi, “Il diabolico potere dei fondi privati”, dipinge efficacemente un quadro inquietante. Gli affari hanno perduto ogni rapporto con la produzione reale. Compagnie razziatrici di altre società (corporate raiders) mirano a spogliare le imprese che cadono sotto i loro artigli. Sono delle finanziarie che s’impadroniscono della maggioranza delle azioni di compagnie in difficoltà, le ristrutturano spietatamente fino a che il valore delle azioni cresce. Non portano a uno sviluppo tecnologico, ma si servono soprattutto dell’espulsione selvaggia di manodopera e di operazioni aziendali.

Invece i “private equity investment funds” comprano le azioni di una società finanziandosi per mezzo di emissione di debito garantito dalle azioni comperate. Una volta comprate tutte le azioni, a un prezzo più alto di quello delle quotazioni di borsa, rimuovono le società acquistate dal mercato azionario e le costringono ad addossarsi il debito contratto dal fondo. Al riparo dai problemi della borsa, il fondo predone può procedere alla spoliazione dei beni, la società vittima viene scorporata, i settori meno remunerativi chiusi e quelli più redditizi venduti. Questi fondi pirati prendono di mira soprattutto aziende di pubblica utilità.

“Alla fine di febbraio le società di fondi equity Kkr e Texas Pacific Group hanno effettuato il più grande buyout della storia con l'acquisto per 45 miliardi di dollari dell'azienda elettrica Txu. L'evoluzione finanziaria del capitalismo fondata sull'indebitamento crescente e sul suo uso come strumento corsaro non è scindibile dal fiume di denaro generato dagli Usa e dal Giappone nel corso dell'ultimo decennio.”[1]

Un’altra forma di pirateria, in cui c’è completa connivenza tra banche e stato, si manifesta nella bolla azionaria che è sorta sulla base di tassi di interesse artificialmente bassi e della crescente svalutazione del dollaro tramite l’aumento della massa monetaria. Lo si vede molto bene in un articolo di Mike Whitney. “Il grande crollo del dollaro nel 2007”. Queste pratiche servono a rapinare miliardi di dollari dei lavoratori e a convogliarli verso l’aristocrazia finanziaria, aumentando il baratro che c’è tra una minoranza di pescecani di borsa e i lavoratori.

“Ogni volta che un dollaro Usa viene commerciato, si emette un addebito su un conto che è scoperto per 8.6 milioni di milioni di dollari (è l'attuale dimensione del debito nazionale). Si tratta, senza dubbio, della più grande truffa della storia. Fragili fogli in verde sbiadito di azioni gratuite sono alacremente scambiati per costosi beni e servizi senza alcun riguardo per il reale valore della valuta.”

Nell’articolo c’è una citazione di Thomas Jefferson: "Se il popolo Americano permetterà che siano banche private a controllare la emissione della nostra moneta, prima con l'inflazione, poi con la deflazione, le banche e le società per azioni che sorgeranno toglieranno al popolo tutte le loro proprietà fino al punto che i loro bambini si sveglieranno senza casa sul continente che è stato conquistato dai loro padri. La emissione del potere dovrebbe essere tolto dalle mani delle banche e restituito al popolo, al quale appartiene legittimamente".[2]

Come si vede, non occorre essere marxisti per rendersi conto dei disastri compiuti dall’aristocrazia finanziaria, tanto più che la storia delle truffe bancarie e borsistiche, a cominciare dai secoli passati, potrebbe riempire centinaia di volumi.

Se il più sfrenato avventurismo caratterizza banche, borse, fondi e società per azioni nell’epoca imperialistica, non c’è da stupirsi se questo comportamento si riproduce anche nel campo militare.

La causa principale di tutte le guerre, del carovita, della disoccupazione, dell’oppressione dei popoli del sud del mondo, del fascismo, in ultima istanza è la proprietà privata dei mezzi di produzione, che ha assunto una forza immensa nelle grandi concentrazioni finanziarie e industriali. Le cause immediate e i pretesti della guerra, invece, possono essere diversissimi. Solo chi è totalmente privo di ogni conoscenza politica può ritenere che gli Stati Uniti combattono effettivamente contro il terrorismo. In realtà, i terroristi sono funzionali a Washington, non solo Luis Posada Carriles e soci, ma anche lo stesso “ricercatissimo” Osama, che il governo americano avrebbe potuto trovare facilmente, intorno all’11 settembre, perché era ricoverato in un ospedale militare americano nella penisola arabica.

E’ indispensabile un’opposizione continua a Bush, Cheney, Sarkozy, Merkel, e non trascuriamo Prodi, ma non dimentichiamo che essi sono soltanto i commessi viaggiatori di giganteschi apparati che hanno nelle grandi banche e nella grande industria i loro centri fondamentali. Se, per pura ipotesi, la Cina riuscisse a comprare la Hulliburton, Cheney diverrebbe di colpo filocinese, e se fosse riuscita ad acquistare l’Unocal, avrebbe ricevuto in regalo anche Karzai.

Gli Stati Uniti hanno perso da tempo la battaglia delle esportazioni, dove alcuni formidabili concorrenti, la Germania (primo esportatore mondiale), Cina e Giappone hanno enormi mercati. Il primato borsistico è conteso a New York dalla City londinese. Washington conserva il primato militare e ha un dominio incontrastato nei mari e nei cieli. Questa è una grande differenza rispetto agli anni trenta, quando l’Inghilterra, che controllava direttamente un terzo del mondo e indirettamente tutta una serie di semicolonie, aveva la superiorità sui mari, ma non poteva competere con la Germania quanto a forza terrestre.

Tutto ciò determina il diverso carattere della guerra: lo scontro, allora, doveva necessariamente assumere il carattere di guerra mondiale, oggi uno scontro diretto si tradurrebbe in un facile successo degli Stati Uniti. Per questo, abbiamo una sorta di “guerra mondiale a tappe”, in cui gli Usa aggrediscono successivamente vari stati, ma sono contrastati dallo sviluppo successivo di guerriglie, che logorano l’esercito occupante. Nessuno può affrontare in campo aperto gli Usa, ma mille punture di spillo possono fare più male di un colpo di spada.

La stessa politica americana, al di là delle proclamazioni estremamente ripetitive e retoriche sulla lotta al terrorismo, la democrazia, ecc., è necessariamente contraddittoria. L’ambiguità nei confronti di Siria e Iran è rivelatrice: si cerca di utilizzare i servigi di entrambi i paesi, coinvolgendoli nelle trattative, per le influenze che hanno su settori della società irachena, ma nello stesso tempo li si ricatta e li si minaccia, circondandoli di basi e di navi. Questa è la funzione della progettata base Nato in Libano, a guardia della Siria, circondata da paesi ostili o occupati. Sarebbe facile chiudere le frontiere di terra e impedirle qualsiasi commercio marittimo. L’Iran, invece, è minacciato dalle flotte nel Golfo Persico e nel Mare Arabico.

Alcuni pensano, sulla base di innegabili collusioni tra Iran e Stati Uniti, a partire dall’affare Iran-contras fino ai nostri giorni, che non è possibile che gli USA attacchino questo paese, e che le continue voci e inchieste giornalistiche sulla preparazione della guerra a Iran e Siria fanno parte di una campagna di disinformazione per mascherare la collaborazione. Ma la logica dell’imperialismo crea e scioglie le alleanze con la massima spregiudicatezza. Hitler fece concessioni territoriali alla Polonia, a danno della Cecoslovacchia, e non molto tempo dopo l’invase. Il governo USA appoggiò i talebani finché gli furono utili, poi cercò di sterminarli. Per questo, Siria e Iran usano col contagocce i loro “buoni uffici” nella normalizzazione dell’Iraq perché, se questo compito raggiungesse un risultato definitivo, non sarebbero più utili al brigante imperialista, e non resterebbe loro che arrendersi o cercare di resistere. Qualcuno dubita che l’imperialismo si fermi di fronte a una guerra o a un colpo di stato? Lo si è fatto con paesi della Nato (in Grecia, e c’è mancato poco che lo si facesse in Italia), non parliamo poi dell’America latina. Si è distrutto un paese non certo antioccidentale come il Libano, perché non potrebbero farlo altrove? L’insistenza sul caso Hariri, nel quale si vuole per forza coinvolgere la Siria, mentre odora di provocazione lontano mille miglia, prova che questo pericolo esiste. E se l’Iran ha fatto acquisti fortissimi di missili russi vuol dire che non si fida dell’America. In realtà i governi avrebbero un modo efficacissimo per rendere più difficile l’intervento americano, distribuire le armi al popolo, ma essi temono un’insurrezione popolare assai più di un’occupazione straniera. A differenza di molti comunisti, la borghesia sa bene che il nemico principale è nel proprio paese.

Comunque, la situazione del Medio Oriente è esplosiva, e non è detto che l’ambiguità e il doppio gioco di Siria e Iran possano durare a lungo. Quando si ha a che fare con una tigre, ci si deve aspettare di essere aggrediti. Basta pensare alle famosissime dichiarazioni del generale Clark, dalle quali risultava che gli Stati Uniti in cinque anni avrebbero aggredito sette paesi: oltre l’Iraq, Siria, Libano, Libia, Somalia, Sudan, e infine l'Iran. In Somalia c’è già stato l’intervento del regime lacchè di Addis Abeba, in Sudan lo stanno preparando i “pacifisti”, che chiedono uno schieramento di truppe per il Darfur. Un tempo i missionari aprivano le porte alle truppe coloniali, oggi i propagandisti dei diritti umani preparano il terreno per gli interventi delle grandi potenze. Questi sette paesi - guarda caso! - o sono sedi di giacimenti petroliferi oppure sono sulle vie obbligate di transito di presenti o futuri oleodotti. La Libia, con una conversione ad U della politica estera, cerca di salvarsi dalla sorte comune, ma è una preda troppo ghiotta perché gli USA rinuncino.

Le contraddizioni e i difetti di un regime si manifestano in una forma particolarmente evidente nell’esercito, soprattutto in tempo di guerra. Nella seconda guerra mondiale si capì presto che la Francia non era più una grande potenza, lo sbarco in Sicilia dimostrò che Mussolini non era un grande condottiero, ma un “Miles gloriosus” (soldato millantatore), che l’Inghilterra aveva ancora dei dirigenti tenaci come Churchill, ma che doveva lasciare il campo al concorrente d’oltre oceano. Neppure gli Stati Uniti, oggi, possono affrontare una guerra troppo lunga, che diventa logorante e demoralizzante. All’inizio è facile spronare l’esercito con mezzi politici, come la propaganda sciovinista, con mezzi disciplinari, con lo spirito di corpo, e persino con fattori artificiali, come l’alcol o la droga, per rendere i soldati insensibili a richiami umanitari. Ma questi espedienti non sono efficaci all’infinito, e, dopo un certo periodo, la delusione, la disorganizzazione il senso dell’inutilità della guerra, finiscono col prevalere. Anche le belve più feroci hanno momenti di rilassamento, mentre il soldato, circondato dall’ostilità della popolazione, deve sempre stare all’erta. Si sviluppa allora in lui un sordo rancore verso quei dirigenti politici che lo trattano come carne da cannone. Questo avviene persino nel soldato di professione, anche se con molto ritardo rispetto ai soldati di leva.

Come potrà interrompersi questa catena di guerre, questa guerra mondiale per tappe? Non certo per le manifestazioni pacifiste, ma solo con una rivoluzione. E le rivoluzioni non scoppiano mai quando le guerre cominciano, ma quando stanno per finire. Non essendoci un partito solido nella teoria e nell’organizzazione come il bolscevico, con un movimento operaio controllato da luogotenenti della borghesia, non si avranno certo rivoluzioni proletarie , ma la politica odia il vuoto, e sarà colmato da altre forze, meno risolutive storicamente, perché non potranno uscire dall’ambito del capitalismo, ma non per questo poco rilevanti. Una sconfitta degli USA in Iraq, per l’effetto domino, travolgerebbe i regimi reazionari del Medio Oriente, cacciando i monarchi e le borghesie parassite che ne impediscono lo sviluppo sociale, e avrebbe conseguenze immense sulle metropoli imperialistiche. Nel momento in cui il Congo giunse alla liberazione, il Belgio fu scosso uno sciopero dall’estensione e dall’intensità eccezionale. Una lotta generalizzata di liberazione del Medio Oriente avrebbe ben più ampie conseguenze, suonando la campana delle ripresa delle lotte proletarie in Europa e in America. Entrerebbe in crisi il processo di fastistizzazione, che in questi anni ha fatto passi da gigante, con controlli, elettronici o no, in tutti gli aspetti della vita, con l’abolizione di fatto dell’Habeas Corpus, ecc., e le masse tornerebbero ad essere le protagoniste della vita politica.

Il pacifismo ha limiti risaputi, ed è nota la distinzione di Lenin tra il pacifismo strumentale dei politicanti e quello spontaneo delle masse. La rinuncia di Cindy Sheehan simboleggia questi limiti. Questa donna coraggiosa ha avuto un’importantissima funzione di denuncia e il suo caso è servito a smascherare la presunta opposizione democratica. I comunisti hanno sempre saputo che il partito democratico è persino più militarista di quello repubblicano. Cindy ha cominciato a capirlo e lo ha detto all’americano medio, che non ascolterebbe mai i comunisti, per pregiudizi derivanti da decenni e decenni di propaganda anticomunista. Una verità ha un impatto diverso secondo chi la dice. I militanti di sinistra sono visti come nemici, e quindi non ascoltati, ma una madre di un soldato caduto, che credeva nella democrazia e nella buona fede dei governanti, con la sua disillusione pubblicamente espressa, può colpire anche strati molto arretrati politicamente.

Certamente, lo sciovinismo è fortissimo in America, e per precise ragioni storiche e sociali. Gli stessi operai che conducevano scioperi durissimi, erano tra i primi ad appoggiare le guerre. Una canzone come quella dei coscritti italiani, che dice: “E se la patria chiama, lasciatela chiamare…” probabilmente non sarebbe accettata negli Stati Uniti.

Ci può sembrare strana la forma assunta da antimilitaristi americani, come alcuni veterani, che accusano il governo di tradire la patria facendo la guerra. Sarebbe pedante, da parte dei comunisti, salire in cattedra e spiegare qual è il vero internazionalismo. Se lottano contro la guerra - e lo fanno – in una maniera assai più radicali di certi sedicenti comunisti di casa nostra - sarà la lotta stessa che creerà un terreno fertile per il loro avanzamento anche teorico.

5 giugno 2007

Note:

1) Joseph Halevi, “ Il diabolico potere dei fondi privati”, su Il Manifesto del 18/04/2007

2) Mike Whitney. “ Il grande crollo del dollaro nel 2007”, in comeDonChisciotte, 18 febbraio da “The Great Dollar Crash of '07”, (Mike Whitney’s blog)

La citazione di Thomas Jefferson dice : “If the American people ever allow private banks to control the issue of our currency, first by inflation, then by deflation, the banks and the corporations that will grow up will deprive the people of all property until their children wake up homeless on the continent their fathers conquered. The issuing of power should be taken from the banks and restored to the people, to whom it properly belongs.”

Nella citazione in italiano presa da Come Donchisciotte, “Corporations” è tradotto con “multinazionali”. Poiché suona un po’ anacronistico per l’età di Jefferson, ho messo “società per azioni”.

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