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(17 Ottobre 2011) Enzo Apicella

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9 giugno 2007: felicità tragica

Il cupio dissolvi di pacifinti e sinistri (e possiamo renderne merito a Bernocchi)

(17 Giugno 2007)

Incominciamo con un bell’ossimoro: felicità tragica, volendo anche tragedia felice.
E’ quella che fiorisce nelle vittime delle bastonate quando riescono a colpire il bastonatore. Cosa che, ovviamente, per Bertisconi, Menaguerra e Morgantini è sommamente diseducativo. Ma che si radica anche negli analoghi sentimenti di qualche centinaio di generazioni passate per analoga esperienza e di cui i successori attuali sono i felici portatori. Il cupio dissolvi l’ho visto quarant’anni fa, di questi tempi, in Palestina, Guerra dei sei giorni. Uscito da Londra, dove Beatles, minigonne, licenziosità varie e nordirlandesi in lotta mi avevano fatto sentire come un topo nel formaggio, sui carri armati con la Olivetti 22 sulle ginocchia viaggiavo verso Sinai e Golan sentendomi un topo in trappola: assistere ai presunti ricacciandi a mare che radevano al suolo l’habitat e la vita dei palestinesi e ne cacciavano centinaia di migliaia ai confini del mondo, senza poter far altro che riferirne, tra tagli astuti di censura militare, a qualcuno lontano che probabilmente non ci avrebbe creduto. Pareva che quelle vittime non potessero ormai avere altro destino che quello di dissolversi e uscire dalla storia, liquidati da una forza spietata che agiva nel nome di qualcosa di inconfutabile, dio, nonché dall’inversione carnefici-vittime coltivata macchiavellicamente da chi era abituato da millenni a sentirsi portatore di superiorità e verità. E, simultaneamente, il cupio dissolvi pareva entrato nelle sinapsi inconscie di chi si esibiva da trionfatore e giustiziere dei torti subiti da tutt’altra parte: era l’inesorabile l’autodissoluzione del mito di una nazione dal conclamato primato etico, politico e sociale, in punta d’acciaio militarista e razzista del ricupero coloniale di popoli che avevano iniziato il cammino del riscatto. Era l’assunzione da parte della vittima di un olocausto dei principi e metodi dei suoi persecutori.

Ma i palestinesi, a un certo punto, tra le ceneri della dispersione e della soluzione finale dei rimasti, avevano scoperto colori e calori di brace e li avevano alimentati con il soffio del vento che aveva iniziato a spirare di continente in continente. Fine anni ’60, anni ’70, i migliori della nostra vita ( e non perché, come si scrive su “Liberazione” e “manifesto”, perché gli anni di Berlinguer e Moro, ma per tutt’il contrario), i migliori anche per i palestinesi assurti a fedayin. La felicità tragica l’ho condivisa con questi fedayin adolescenti quando, appostati sulle rive del Giordano con il Kalachnikov, per l’imboscata ai terminator con stella di Davide, ci guardavamo negli occhi e ci sorridevamo. Felicità, perché ci si ergeva contro il male, la morte, nel nome dell’umanità sofferente passata, presente e futura, perché si apriva un varco di luce nel tunnel del “fine pena”, perché si agiva di concerto, in solidarietà, zeppi d’amore. Tragica, perché tragico era il retroterra, perché la vita risorgeva comunque da una tragedia in atto, perché si doveva morire e inevitabilmente uccidere i singoli per la vita di tutti, perché, nella festa, un tarlo continuava a sussurrarti che la tragedia non sarebbe finita.

Leggevo un cupio dissolvi, analogo ai due di cui sopra, nelle facce stiracchiate e nelle patetiche e bislacche dichiarazioni di coloro che si erano creduti capipopolo e si sono ritrovati, il 9 giugno 2007, alle 17, in Piazza del Popolo, capicapannello. Volevano rampognare Bush e accarezzare Prodi. Prendersela con il cavaliere dell’Apocalisse, ma far finta che il suo scudiero facesse il filantropo da un’altra parte. Convincenti e credibili come il papa quando ammonisce i ricchi e abbraccia Bush (vista la meravigliosa vignetta di Bush col panzerpapa: “La coppia di fatto”?). Come non ipotizzare la fuga nell’Antartico dopo aver constatato, con l’evidenza di una tegola sul naso, che, a forza di protervia delle chiacchiere e disastro delle azioni, a forza di biasimare il mandante e risparmiare il sicario, si era rimasti in quattro, e nemmeno gatti: poliziotti, cronisti, famigliari, portaborse, ostinati occupanti o intemerati auspicanti di strapuntini e poltrone? Mentre da un paio di chilometri, oltre i caffè presidiati dal Kossiga imbandierato di nazisionismo, giungeva il rombo di 150.000 (alla faccia del sabotaggio dello sfasciume detto “Trenitalia”, disposto dal sempre più beriano ministro di polizia) marciatori della liberazione. Liberazione sia dal tiranno che dal suo buffone di corte, sia dall’assassino che dal palo. Elementare, Watson. Liberazione dal colonialismo della menzogna, dell’intimidazione, diffamazione, repressione. Liberazione dai praticoni dell’equivoco, del millantato credito, del camaleontismo, dell’imbroglio, del bidone, del ricatto. Quelli lì, imbalsamati nel disdoro a Piazza del Popolo. Compresi gli scaltri cerchiobottisti delle due piazze il 9 ( diventato 90 per la paura di perdere il posto), divertenti a vederli squartati come Montezuma dai cavalli di Cortez, con i piedi a Piazza del Popolo e aneliti verso il corteo. Ecco, in quelli che in quel corteo si vedevano vindici della verità e della serietà, finalmente vincenti, e anche rappresentanti dei milioni confinati nella parte del torto a sud e a nord dell’equatore, c’era le felicità tragica che splendeva come un circuito elettrico tra i miei compagni fedayin con il Kalachnikov, vindici di tutto quanto spetta all’uomo. C’è forse qualcosa che dà più soddisfazione al sottoposto dell’aver fucilato, in questo caso politicamente e moralmente, il sodomizzatore dei sottoposti? Dell’aver potuto strappare il vello di agnello al lupo (scusami, lupo!) e averlo mostrato nudo a quelle 150.000 avanguardie di popolo e, al TG1, 2, 3, 4, 5 piacendo, alla platea televisiva del globo terracqueo? Guardate che non esagero. Dai tempi della cacciata di Lama dall’università, non era più successo. C’è un battaglione di traumatizzati da quel ’77 che stanno stendendo vernice nera bipartisan sull’anno più nobile degli ultimi quattro decenni: hai visto mai che si ripresenta? E riusciranno ancora a infiltrarlo, manipolarlo, provocarlo a un confronto armato suicida, criminalizzarlo ed estinguerlo?

La parte tragica della faccenda è proprio quell’esito. E il contesto, ancora più scientificamente repressivo e castrante, allestito dai padroni oggi. Con il concorso – e questa non è una gran novità rispetto agli anni ’70 – di quei coadiuvanti che, ancora una volta, erano riusciti a farci credere che sarebbero stati dalla nostra parte, al governo dei capitalisti avrebbero messo la mordacchia, per le guerre si sarebbe dovuto passare sopra i cadaveri delle loro mamme, e se solo fossimo stati zitti e del tutto nonviolenti, avrebbero sistemato ogni cosa. Una buona fetta di tragedia sta in questo. E in chi ci ha bruciato, una volta di più, pezzi di cuore e di cervello. Una classe politica monnezza, con per cupola esterna i delinquenti di Tel Aviv e Washington e, per quella interna, l’uomo della Goldman Sachs, quello della confindustria e quello del Vaticano. Una classe ormai pasolinianamente omologa, brigantesca, corrotta dal primo all’ultimo, dove il più pulito ha la rogna e va a braccetto dell’avversario appestato (vedi Berlusconi che soccorre il D’Alema sospettato di fondi brasiliani e il bombarolo di Belgrado che corrisponde sostenendo il compare contro i fischi dei giusti), dove oggi la massima preoccupazione di questi lestofanti è soffocare, a colpi ipocriti di privacy, gli ultimi sprazzi deontologici dei giornalisti. La parte più formidabile in commedia, però, va riconosciuta a Bertinotti. E’ forse l’unico, tra i rottami dell’associazione a truffare, a godersela senza ombre di tragico. Catturato nel 1993 quanto era sopravvissuto al craxismo-occhettismo per un futuro mondo migliore in questo paese, lucidamente, scientificamente ne ha perseguito la distruzione, passo passo, di arretramento in arretramento (ovviamente novista), fino a regalare ai padroni la disintegrazione dell’ultimo ostacolo al trionfo dell’agognato protocapitalismo tendente al feudalesimo, magari attraverso una fase fascista. Ne ha avuto in cambio lo scranno del vigile nel traffico di Montecitorio, macchina blù, frequentazioni vip, magari pruriginose, ovazioni da Azione Giovani e Cielle, voli di Stato (legittimi?) alle nozze delle baronesse albioniche. Non ha sbagliato una mossa. Chissà se l’arrampicata gli sarebbe riuscita così rapida e incontrastata senza il coro panegiricista di quella brigata di femministe ginocratiche, ma devote al maschio capobranco, giornaliste, parlamentari, che al confronto la guardia del corpo di Gheddafi è una covata di gattine. Non è un film dell’orrore immaginarsi quote rosa con precedenti come Melandri, Armeni, ancella nella stazione Cia di Giuliano Ferrara, Menapace-Menaguerra, Deiana, Sentinelli, Nocioni, Sereni, Dominijanni, Turco, Sgrena, Azzaro, Finocchiaro… Signore alla Rice, Thatcher, Albright, Meir, Merkel ne menerebbero vanto. Certo, i maschi della nostra classe politica non avrebbero nulla da invidiargli. Forse, mi sia consentito l’infernale dubbio, è ancora più questione di classe che di genere.

Ora c’è una corsa che sembra quella del cinodromo verso il coniglio rosso che alla Piazza del Popolo ha detto marameo. Dalle Alpi al Lilibeo è un frastuono assordante che urla: sono io il comunismo vero, giusto, onesto. Anzi, spesso si intrasente nel sottofondo un sottile ma convinto: sono io il capo del nuovo comunismo, vero, corretto, eccetera. C’è di tutto. Prescindendo da quanto cercano di rappezzare nel Palazzo i laceri reduci della ritirata di Russia, abbiamo tutto un bestiario di corvi e capovaccai (avvoltoio della regione centrale) che astutamente si erano posti alla finestra mentre nel palazzo dei notabili l’appartamentino di sinistra andava in rovina. Pronti a scendere in picchiata sulle folle rimaste all’aperto. Cosa vi fanno pensare nomi come Folena, Tortorella, Salvi, Occhetto, Novelli, Ruffolo, Spini, Veltri, Patta, Curzi, Salvato, o sigle come Punto Rosso, Network delle comunità in movimento, Attac, Arci, Cgil, Uniti a sinistra, Per la sinistra, Leoncavallo, Essere comunisti, Forum per la Sinistra, Forum per la sinistra europea-socialismo XXI, trotzkisti qua trotzkisti là e chi più ci crede più ne metta? E’ l’ora dell’adunata e le trombe sono quasi più dei convocati. Per tutti penso a un prototipo: accademico, autore prolifico, direttore di alcuni house organ di vasta copertura geografica e di ridottissima copertura di lettori, sostenitore alla morte delle rivoluzioni lontane e altrettanto dei Veltroni vicini che brindano al serial killer Simon Peres-Capo di Stato, mentre riposano i piedi sul cuscinetto di voti dal Nostro graziosamente offertigli. Chiamiamolo Lucky Baciagallina. Leader di comitati di solidarietà e però dichiara guerra a chi, magari da quarant’anni e molto meglio, fa solidarietà con lo stesso interlocutore di là dal mare e poi, visto il fallimento di questo assalto al cielo, fa una capriola e diventa spietato accusatore dello stesso comitato per aver fatto la guerra a chi fa solidarietà. Con doppio salto carpiato si intrufola poi nella stessa casa del concorrente già da obliterare e ricomincia un’altra scalata. Dal che si vede che il modello Palazzo sa diffondersi fin negli slums della politica. Un virtuoso! Perciò occhio, compagni, prima di farsi mettere cappelli intesta! Chè poi quel cappello te lo calano sugli occhi e non vedi più niente e magari te lo cambiano in corsa e manco te ne accorgi che stai votando per il campione italico di Olmert. Ma su, siamo buoni, non è detto che anche il più curvacelo e flessibile non possa redimersi ritrovando una spina dorsale dritta e puntata nella direzione giusta. Che in ogni caso – e questo nel nostro paese va sottolineato sempre - non è quella dell’ego.

In un’assemblea post-9 molta brava gente ha voluto riflettere sul cosa fare dei rottami sparsi della sinistra, su cosa ricuperare e come utilizzarlo per costruire una barca che regga i marosi, anzi gli tsunami, a venire. Idee, proposte, auspici, poca autocritica. Mi preme segnalare un intervento nel segno, in controtendenza, del ripartire “dall’alto”, anziché dal basso. Forse non s’intendeva apertamente che i lavori sui rottami e sui territori non compromessi dovessero essere ordinati e guidati dall’alto, magari di una cattedra, da gerarchie preesistenti e prestabilite. Forse andava compreso che noialtri, avendo il perfetto controllo dello strumento “teoria”, la dovevamo far scendere a pioggia benefica sulle masse da organizzare. In entrambi i casi opportuna risposta venne dall’ intervento successivo che rovesciava l’apodittico assunto e riferiva quanto ne era venuto in Rifondazione a lui e a tutti da un’impostazione del genere. Al catechismo precostituito, spesso sclerotico più di un dinosauro nel Museo di Scienze Naturali, opponeva la sconfinata messe di innovazione, invenzione, creazione che spumeggia nelle lotte di massa di questi anni, dai NoTav ai NoDalMolin, da Serre ad Acerra, dai NoPonte ai NoMose, dai metalmeccanici fischianti e scioperanti ai precari e pensionati marcianti e poi nei mille e mille gruppi, variamente organizzati e denominati, che, incontaminati e irriducibili, sono cresciuti su tutto il territorio. Qui non è che si voglia fare lottacontinuisticamente l’esaltazione dello spontaneismo. E’ che non essendoci né partito, né lotta anticapitalista generalizzata, questo è quanto offre il convento. E non è poco. Perché prendendosela con il tunnel in Val di Susa si è imparato a capire cosa il capitale fa all’ecosistema e alla convivenza civile, opponendosi alla base degli sterminatori Usa a Vincenza, si è visto in faccia la mostruosità dell’imperialismo e l’oscenità dei suoi corifei. La strada della lotta di classe consapevole è aperta, tocca farla entrare nella rete di tutte le altre strade. Tocca farla partire da chi aveva capito tutto del capitalismo/imperialismo e farla arrivare dove ci porta il cuore (per ridare dignità al titolaccio di un pessimo libro). Non l’euro. Non la poltrona, E su questo, mi pare, che ci tocca lavorare, con la demolizione della falsa informazione – terrorismo, estremismo, paura, securitarismo – in prima linea.

Chi fa questo da quarant’anni (Piero, nella dedica sul libro ho scritto “da trent’anni insieme”. Sbaglio: da quarant’anni) è Piero Bernocchi. E sono da qualche tempo i Cobas. Non faccio l’agiografo alla Gagliardi per Bertisconi, sto ai fatti. Basta pensare a quanti hanno mantenuto gambe salde, sguardo acuto, coerenza totale (e stupefacentemente pelo nero) dalla rivolta del ’68 in qua. Basta pensare che quando, con il “governo amico” la sbracatura fu cieca e generale e il “manifesto” bombardava chi aveva osato definire Damiano “amico dei padroni”, quando i più esagitati propugnatori della nonviolenza, i più integerrimi apostoli del pacifismo, quelli della “scuola pubblica e basta”, i più appassionati lottatori di classe si misero a nuotare nella corrente della restaurazione sociale tipo ‘800 e di un colonialismo genocida, non c’erano che Cobas e cani sciolti attorno al ragazzaccio smanierato Bernocchi che, temerariamente, aveva chiamato a raccolta una possibile resistenza. Duecento alla celebrazione ciampian-bertisconiana dell’Italia in armi. Trecento sotto Palazzo Chigi quando se la fece sotto e la mandò in Afghanistan anche chi aveva spergiurato no all’imperialismo. Decine di migliaia in corteo contro l’“amico dei padroni”, per il “manifesto”tanto iniquamente diffamato. E, via via, fino alla rotta tipo Stalingrado degli zombie di Piazza del Popolo. C’erano anche Cremaschi, Turigliatto, Ferrando. Evviva. Ma, rispondete con sincerità, se Bernocchi da solo non avesse retto, tra contumelie e irrisioni, quanti ci sarebbero stati, quanti saremmo stati a iniziare davvero un nuovo ciclo? Fa tenerezza anche qui il “manifesto” che, con perizia da funambolo, si è mantenuto in equilibro tra le due piazze, innamorato com’era di Mussi e della sua rivoluzionaria scissione (ma poi, ohibò, Mussi non c’era neanche nella piazza dei relitti). In equilibro, però vagamente squilibrato verso l’apoteosi che l’intruppamento dei tre o quattro sinistri “radicali” del parlamento avrebbe dovuto celebrare in quella piazza.

Ma davvero pensavano quelli del “manifesto”, quelli dei partiti-cortocircuito “di lotta e di governo”, che dopo aver rivoltato il programma dell’Unione come un guanto nel suo contrario, dopo essersi stesi a zerbino davanti a Olmert, Bush e Montezemolo, con per politica solo l’occasionale mugugno di Ferrero, costoro potessero raccogliere più gente di quante ce ne sta in nella sala d’attesa della stazione di Sgurgola di sotto? Hanno tutti dato prova di grandissimo fiuto, di stretta sinergia con il comune sentire del “popolo di sinistra”. Grande classe politica, grande categoria giornalistica! Epperò ecco che, a sabato 9 giugno concluso, il “quotidiano comunista” ha saputo raddrizzare la barra, cazzare la randa e prodigarsi in compiacimento per i vincenti e in irrisione dei perdenti. Ottimo, che resti sulla buona strada. Possa succedere la stessa cosa a Salvatore Cannavò del nascituro partito di “Sinistra Critica”, commendevole animatore della lavanda gastrica post-bertinottiana. Ne ricordiamo gli entusiasmi smodati - e ferocemente censori nei confronti di chi dissentiva – per i provocatori serbi di Otpor, prima grande prova di “rivoluzioni di velluto”, cioè di colpi di Stato “di velluto” (si fa per dire) pianificati, diretti, finanziati da “sinistri critici” come National Endowment for Democracy, Einstein Institute, Usaid, Open Society del sionista George Soros e altre centrali della destabilizzazione imperialista di Stati non sottomessi. Se non ha rivisto quel particolaruccio il discepolo di quell’altro confusionario ammazza-Milosevic di Livio Maitan, c’è da preoccuparsi per i destini del gruppo che pure annovera il grande Turigliatto. Quanto al “manifesto”, che tutti sosteniamo, chieda scusa a Piero Bernocchi. Noi gli diciamo grazie.

Mondocane fuorilinea 14/06/07

Fulvio Grimaldi

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