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il pane e le rose

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Proletariato

(22 Giugno 2007)

Qualche decennio fa, gli avversari del marxismo sostenevano che il capitalismo, dopo due guerre mondiali, intervallate dalla grande crisi, si stava avviando verso la definitiva stabilizzazione. Secondo loro, l’uso sapiente delle politiche keynesiane, i controlli statali sulle operazioni finanziarie, la formazione tecnica dei disoccupati, la crescita del welfare, permettevano di scongiurare il ritorno delle crisi cicliche, sostituite al massimo da piccole recessioni. Chi sosteneva che nel capitalismo le crisi economiche erano inevitabili, veniva tacciato da visionario.(1)

Si sosteneva che la crescita della produzione avrebbe migliorato sempre più il livello di vita delle masse, accresciuto la diffusione della cultura e ridotto progressivamente il conflitto sociale. Per questo, il movimento operaio avrebbe dovuto capire che non c’era più spazio per la lotta di classe e la rivoluzione, ma solo per riformismo, che allora almeno era inteso come aumento dei salari, estensione delle garanzie sociali, assistenza, come promettevano i laburisti, “dalla culla alla tomba”, e non come tagli alle pensioni, accrescimento dell’orario di lavoro, e le tante cure che i riformisti di oggi ci propinano.

Questa ideologia era il riflesso di una fase di forte sviluppo economico, dovuto in gran parte alla ricostruzione delle immani distruzioni della guerra. Il saggio di profitto era alto, quindi era possibile distribuire qualche briciola anche ai lavoratori. Si faceva l’esempio degli alti salari della Ford, ma si teneva nascosto che erano frutto di pesanti lotte, e non una graziosa concessione dell’impresa. Soprattutto si tenevano celati i precedenti filonazisti del fondatore dell’impresa, Henry Ford. Quanto alla Fiat, oltre che per la repressione e per i licenziamenti dei lavoratori di sinistra, brillava per taccagneria nel concedere aumenti salariali. Spesso operai di tale impresa, nel parlare, accompagnavano il discorso con strani gesti, gli stessi che facevano alla catena di montaggio. La ripetitività meccanica del lavoro condizionava l’insieme dei movimenti anche al di fuori della fabbrica, proprio come in “Tempi moderni” di Charlot.

Erano altissime le cifre degli incidenti sul lavoro, spesso mortali, e molti operai del settore chimico si ammalavano di cancro. I più attivi sindacalmente e i più politicizzati venivano discriminati e costretti ai lavori più ingrati, quando non erano licenziati.

Come si vede, il neocapitalismo progressivo era una favola reazionaria, alla quale non credevano gli operai, sempre sfruttati, ma i piccoli borghesi, e il PCI, a caccia di voti, si adeguava nei fatti a questa mentalità, anche se fingeva di essere marxista.

Oggi, per sostenere che il marxismo è fallito, si usano argomenti diametralmente opposti a quelli sopra citati: è subentrata una crescente instabilità sociale, c’è una crescente precarizzazione della forza lavoro manuale e intellettuale, lo spostamento di fabbriche verso paesi a basso livello salariale, la terziarizzazione, ecc.

In realtà, chi ha presente l’ABC del marxismo ha chiaro che il capitalismo è il più instabile dei sistemi economico-sociali. Marx ed Engels non l’hanno detto in qualche inedito conosciuto solo da pochi studiosi, ma nel “Manifesto del partito comunista”. Vediamo qualche passo: “La borghesia non può esistere senza rivoluzionare di continuo gli strumenti di produzione, quindi i rapporti di produzione, quindi l’insieme di tutti i rapporti sociali… Il continuo rivoluzionamento della produzione, l’incessante scuotimento di tutte le condizioni sociali, l’incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l’epoca borghese da tutte le altre”. E più in là: “L’operaio moderno… invece di elevarsi col progresso dell’industria, cade sempre più in basso, al di sotto delle condizioni della sua propria classe. L’operaio diventa il povero, e il pauperismo si sviluppa ancora più rapidamente della popolazione e della ricchezza”. E sempre dell’operaio si dice: “L’incessante e sempre più rapido perfezionamento delle macchine rende sempre più precarie le loro condizioni di esistenza“. Molti, in passato, hanno ironizzato su questi punti. Oggi ci troviamo di fronte a masse di disoccupati, di cinquantenni licenziati che non trovano più lavoro e non possono andare in pensione, di finti lavoratori indipendenti che si differenziano dai salariati soltanto perché meno garantiti, di precari a vita, di occupati classificati poveri perché il loro salario è assolutamente insufficiente, di ricercatori scientifici completamente proletarizzati, con uno stipendio al massimo di mille euro al mese. Si moltiplicano le tipologie di lavoro che sostituiscono il posto fisso: lavori part-time, a chiamata, a progetto, interinali, ecc. In altre parole, si tratta della fine di ogni certezza, di ogni garanzia. I lavoratori ritornano ad essere ciò che erano nel passato, dei “senza riserve”, proletari, perché avevano solo la prole. Oggi non hanno neppure quella, perché molti, per la difficoltà di avere un’abitazione e un reddito passabilmente sicuro, rinunciano ad avere figli.

I periodi di relativa stabilità del posto di lavoro degli anni sessanta (forse sarebbe meglio dire la possibilità di trovare un altro lavoro dopo averlo perduto) non sono la regola nel capitalismo, ma l’eccezione.

Tutto ciò ha un effetto anche sul piano psicologico. L’incertezza dell’uomo contemporaneo non deriva dalla natura umana - non erano incerti Dante, Leonardo, Cromwell, Giulio II, Savonarola, i calvinisti - non nasce nelle pieghe recondite dell’animo umano, ma nasce da un tipo di società che vive sull’insicurezza, la coltiva, la favorisce. Chi ha sicurezza nel proprio lavoro non è facilmente ricattabile, può rifiutare di fare lavori pericolosi o straordinari secondo le esigenze dell’impresa, è in grado di condurre lotte anche dure. Se ci fosse piena occupazione, i salari salirebbero, per questo una parte della società è tenuta in stato di disoccupazione (il cosiddetto esercito di riserva), per mantenere bassi, attraverso la concorrenza i salari. Il capitale ha bisogno di ricreare miseria, perché è il dominio del lavoro morto, oggettivato, sul lavoro vivente.

Quindi la precarizzazione di massa è una conferma, non una smentita dell’analisi marxista.

Qualcuno potrebbe osservare che mai come ora si sono viste tante barche di lusso, porti turistici, crociere, auto da corsa, ecc. Verissimo, ma proprio Marx spiega che, se aumentano i salari, e di conseguenza diminuisce il saggio di profitto, una parte maggiore della produzione si indirizza verso la produzione di generi di prima necessità, mentre diminuisce la produzione di prodotti di lusso. Viceversa, se calano i salari reali e aumentano i profitti, diminuisce il consumo di prodotti indispensabili e cresce quello di prodotti voluttuari, e l’ostentazione del lusso più sfacciato.(2) Inoltre, per tutto l’arco di sviluppo, crescono sempre più i prezzi dei prodotti agricoli, mentre diminuiscono – naturalmente in moneta costante, depurata dalle svalutazioni - i prezzi dei prodotti industriali. L’economia mercantile non è fatta per sfamare l’uomo.

E’ inutile pensare a un ritorno della stabilità. Negli anni ’60 e ’70 l’occidente e il Giappone avevano il monopolio nel campo industriale e nella manodopera tecnicamente preparata. Oggi, con lo sviluppo dei giganteschi paesi asiatici, non solo è cresciuto a dismisura il numero dei proletari, anche specializzati, in concorrenza fra loro, ma è entrata nel mondo del lavoro una parte crescente delle donne. Tutto ciò ha portato a una tendenza verso l’abbassamento dei salari e a una crescente insicurezza per quanto riguarda il posto di lavoro. Questo spiega in buona parte i pesanti arretramenti nelle conquiste sindacali e politiche dei lavoratori.

Nel lessico di buona parte della sinistra e dei sindacati, il termine “proletario” è pressoché scomparso, quasi si trattasse di un arcaismo, di un relitto del movimento operaio ottocentesco. Eppure, è il termine più corretto per indicare quella parte di società che è espropriata di ogni proprietà, è “senza riserve”. Si dirà che lo si può sostituire con “lavoratore”, ma anche l’artigiano e il contadino piccolo proprietario sono lavoratori, e seguono dinamiche sociali completamente differenti. Un sinonimo, solo in parte più adatto, sarebbe “lavoratore salariato”, ma escluderebbe i disoccupati, coloro che non possono lavorare per gravi motivi di salute, e così via.

Molti pensano che la riduzione del peso (non la scomparsa) del classico operaio della fabbrica fordiana e la crescita della terziarizzazione, porti alla scomparsa del proletariato. Ma sono proletari anche i braccianti agricoli, le commesse dei grandi magazzini, gli impiegati, gli addetti ai call center. Il criterio, infatti, non è quello borghese del lavoro manuale o lavoro intellettuale, colletto bianco o colletto azzurro, ma quello della separazione dagli strumenti di lavoro. Un contadino, o è proprietario di un pezzettino di terra, o almeno degli strumenti di lavoro e materie prime (zappa, trattore, sementi). Anche un artigiano è proprietario dei propri strumenti. Il proletario va sul mercato solo col denaro del suo salario o stipendio, il non proletario ci va con merce e denaro. L’agricoltore può consumare una parte del proprio prodotto, mentre il proletario non ha nessun controllo su ciò che produce. Non è una questione di reddito, perché il contadino proprietario o l’artigiano possono essere poverissimi, ma di posizione sociale e di rapporto con la proprietà.

Anche l’impiegato, che non ha la proprietà dei computer, dei mobili dell’ufficio, dei server, e degli altri strumenti di lavoro, e non può fare suoi i prodotti dell’impresa, è pure un proletario. Ci sono tuttavia casi di impiegati di altissimo livello, proprietari di azioni, che partecipano agli utili dell’azienda, e questi appartengono alla media o alla grande borghesia.(3)

Si dirà che molti impiegati non si riconoscono nel proletariato e considerano il loro lavoro assai diverso da quello in fabbrica. Certamente il lavoro d’ufficio può creare l’illusione di superiorità sociale rispetto a chi lavora manualmente, ma queste differenze si vanno attenuando con la crescente meccanizzazione degli uffici, che trasformano chi ci lavora in una rotella di un ingranaggio sociale, rendendo il lavoro assolutamente privo di creatività e noioso quanto quello svolto in fabbrica.

Le sempre più numerose classificazioni, che la sociologia borghese sforna, hanno lo scopo di impedire la comprensione del fatto che, lungi dallo sparire, il proletariato costituisce ormai la stragrande maggioranza dell’umanità, e tra le masse sfruttate del sud del mondo, buona parte, se non proprio braccianti, sono contadini poveri, gli alleati naturali dei lavoratori salariati. Se, nel cercare di capire le classi, ci fidassimo ciò che dicono i giornali ufficiali – e la maggior parte degli intellettuali si forma su tali giornali e su libri che fanno l’apologia del capitale - giungeremmo alla conclusione che buona parte dei lavoratori sono borghesi, mentre i borghesi sono “operai”, come Berlusconi, che si vanta di lavorare 12 ore al giorno. Non ci aiutano a conoscere la verità, ci portano a perdere.

Una parte crescente di proletari è costituita da immigrati, perché solo una piccola parte di loro ha un’impresa autonoma. Le bande di scafisti che scaricano sulle nostre coste, e spesso direttamente in mare, migliaia di diseredati, dopo aver sottratto loro fino all’ultimo quattrino, sono perfettamente funzionali agli interessi del capitalista, che sfrutta il lavoro nero, e, per impedire che i suoi operai escano dalla clandestinità e rivendichino i diritti sindacali, preme perché ci siano leggi più severe sull’immigrazione, e parla di incremento della criminalità, per non far capire che il vero criminale è lui, lo sfruttatore. L’idea razzista dell' immigrato delinquente è stata ad arte diffusa, e si è radicata a tal punto che, chi ha assassinato parenti e vicini, cerca di salvarsi accusando rumeni, albanesi o marocchini.

L’immigrazione porta milioni di nuovi proletari, ed è compito di chi ha coscienza di classe sviluppare la lotta perché vengano riconosciuti come tali, si concedano loro pari diritti, e, per chi la vuole, la cittadinanza in tempi brevi, senza le “forche caudine” della burocrazia.

Appartengono a questa classe sociale anche molti di coloro che, con un criterio borghese o socialdemocratico, sono classificati sottoproletariato. Certo quest’ultimo settore della società esiste, e comprende ladri, truffatori, e quelli che vivono di espedienti alle spalle degli altri (ogni riferimento al cosiddetto “ceto politico” è puramente casuale). Comprende anche le prostitute, almeno quelle che lo fanno volontariamente. Per quelle sventurate che sono attirate dall’Europa orientale o dall’Africa col miraggio di un lavoro e poi sono costrette con la violenza o il ricatto a battere il marciapiede, sarebbe più corretto parlare di schiavitù. Per colpa soprattutto della l’ala destra della Socialdemocrazia tedesca, espressione della parte meglio pagata degli operai e della piccola borghesia, si cominciò a considerare arbitrariamente sottoproletariato (Lumpenproletariat), anche settori di disoccupati e sottoccupati, rompendo così la solidarietà di classe. Era il primo passo discriminatorio, e a questo si sarebbero aggiunti la xenofobia e il razzismo, tutti espedienti della borghesia per dividere i lavoratori, chiuderli in recinti locali o nazionali, in patrie vere o inventate (come la Padania), dividerli sulla base religiosa. Tutti artifici per impedire che il gigante proletario prenda coscienza della sua forza, e suoni la campana a morte per questa società basata sullo sfruttamento e la discriminazione sociale, sulla violenza e la guerra.

20 giugno 2007

Note

1) Già metà degli anni cinquanta, in polemica con gli economisti borghesi, Bordiga sostenne, in molti suoi scritti, che la crisi si sarebbe ripresentata intorno al 1975. Dopo il periodo della ricostruzione, in cui i profitti erano altissimi, si sarebbero riproposte le conseguenze della marxiana legge del tendenziale calo del saggio del profitto. Bordiga sperava che la crisi avrebbe portato alla ripresa su vasta scala del movimento proletario e della lotta rivoluzionaria. Se questa ripresa non ci fosse stata, la tendenza del capitale avrebbe inevitabilmente portato alla guerra mondiale. Il boom durò fino al 1973, poi ci furono la crisi petrolifera e la recessione industriale del 1974/75. Alla fine del 1975 c’erano 15 milioni di disoccupati nei paesi OCSE. Non ci fu, però, la sperata ondata proletaria risolutiva. In luogo della guerra mondiale abbiamo una serie di guerre terribilmente distruttive. Si veda, di Bordiga, il “Dialogato coi morti”, nel sito internet della “libreria Internazionale della Sinistra Comunista”.

2) Karl Marx, “Salario, prezzo e profitto”.

3)”L’impiegato è un proletario?”, Il Programma Comunista, 29 settembre 1963, n. 18.

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