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L'Eroe dei due mondi: Giuseppe Garibaldi in America Latina

(4 Luglio 2007)

Oggi, 4 luglio 2007, Giuseppe Garibaldi compie 200 anni. Di pochi personaggi storici si ricorda di più l'idealità, il coraggio, l'altruismo. Lo si ricorda in tutto il mondo, forse unico militare italiano dopo Giulio Cesare ad aver conquistato universale rispetto. Lo celebro con un saggio che ripercorre la lunga epopea latinoamericana dell'Eroe dei due mondi dal Rio Grande do Sul all'Uruguay. Carissimi simboli patri -a cominciare dalla camicia rossa dei Mille- ma anche una storia d'amore, quella con Anita, legano indissolubilmente l'Uruguay all'Italia, e Garibaldi a tutti noi.

Giuseppe Garibaldi

150 anni fa, il 15 aprile del 1848, l’ormai quarantunenne Giuseppe Garibaldi lascia l’America latina a bordo del brigantino Speranza verso la difesa della Repubblica Romana. E’ giunto a Rio de Janeiro nel gennaio di dodici anni prima, in fuga dalla condanna a morte inflittagli nel 1834 per aver partecipato ad un tentativo insurrezionale in Liguria.

E’ un uomo fatto, un carismatico ed integerrimo rivoluzionario, un conclamato condottiero di truppe volontarie destinato ad ulteriore ed universale fama. E’ anche padre quattro volte e profondamente innamorato di Anita, indomita figlia di immigrati paulisti nel sud del Brasile ribellatosi all’Impero. L’ha rapita al primo sguardo in una storia così romantica come solo quelle dell’Ottocento sanno essere.

I principali biografi garibaldini, quelli contemporanei all’Eroe come quelli di questo secolo, concordano nell’affermare che gli anni americani sono fondamentali, sia per la ricostruzione della personalità, sia per lo studio del successivo percorso politico e militare del nizzardo.

La parte soprattutto italiana dell’imponente pubblicistica garibaldina, non sempre coglie, per la distanza dai nodi della storia latinoamericana post-coloniale, la portata dell’altro dei due mondi del quale il nizzardo è per antonomasia, eroe. Lo fa notare già Guerzoni, uno dei principali biografi di Garibaldi, che scrive nell’882. Considera la sottovalutazione del periodo americano e la scarsa conoscenza degli eventi come il punto debole degli studi garibaldini a lui noti. Ciò resta vero in molti casi anche per il nostro secolo.

Dalla storiografia americana emerge invece più chiaro, il riferimento è imprescindibile, un Garibaldi profondamente inserito in un contesto politico locale ben diverso dalla confusa lotta per bande dalla quale far emergere solo il bell’atto eroico, sradicandolo dalla realtà dove quell’atto viene compiuto.

Garibaldi dedica dodici anni di vita e di lotta all’America latina. Vi apprende la prassi dell’azione politica democratica e, sarà la sua fortuna, l’arte del comandare gruppi di volontari non necessariamente animati dagli stessi suoi nobili ideali. Al di là dell’eco non positiva della parola Caudillo e del fatto che il politico Garibaldi esprima l’antitesi della gestione del potere sottintesa nel termine, vi è indubbiamente del caudillismo nel condurre una spedizione quale quella dei Mille, un colpo di testa che cambia la storia d’Italia. Garibaldi conquista un regno in quanto uomo di popolo oltre che stratega militare, si pensi solo all’entrata in Napoli cercando ed ottenendo il bagno di folla. Solo poi, ed è di nuovo un atteggiamento ivi riconducibile, ne fa graziosamente omaggio al Savoia. Ed è di nuovo Caudillo quando in Aspromonte, come fosse alla testa dei suoi gauchos, viene fermato dall’esercito regio.

Per l’uomo Garibaldi poi, le esperienze sudamericane continuano fino alla fine ad essere ripercorse con sanguigna passione e nostalgia alla quale si lega in un continuismo anche simbolico della sua azione politica. Lo testimonia il traslare un simbolo profondamente uruguayano quale la divisa rossa del “Partido Colorado” nella “camicia rossa” dei Mille, profondo e fuor di retorica, simbolo patrio caro ai più.

Più in là della lotta politica, il nizzardo ama i grandi spazi di quello che chiama «il regno del cavallo, del bue, della gazzella e dello struzzo». Per un giovane cresciuto nell’Europa della Restaurazione, il contatto con l’America appena scrollatasi di dosso la dominazione spagnola, è inebriante e liberatorio. Ne scrive affascinato ampliando nelle memorie i capitoli americani, invece di fare spazio all’epopea dei Mille ed agli anni che vanno da Quarto a Porta Pia. Proprio in uno dei capitoli più descrittivi, quello dedicato alla vita ed ai costumi del gaucho, scolpisce l’affermazione, perentoria quanto sorprendente per chi pensa ai Mille, di quella dell’Uruguay come la campagna più brillante della sua vita.

La prima tappa

Anita

Dopo la condanna a morte per i moti del 1834, Garibaldi si rifugia prima a Tunisi e quindi a Rio de Janeiro. Lo attende l’amico Luigi Rossetti e la Giovine Italia brasiliana ma, soprattutto, lo attende un quadro politico in movimento.

Il Brasile, dove la corona portoghese si trasferisce nel 1808, si stacca poi da questa e si trasforma, con l’appoggio della chiesa e della Gran Bretagna, in un impero oligarchico e latifondista che, lasciando insolute questioni nazionali quali schiavitù e forma dello stato, resiste fino al 1889. Quando Garibaldi sbarca in America è già in corso nella provincia meridionale del Rio Grande do Sul, la Rivoluzione dei Farrapos (straccioni) capitanata dal Caudillo gaucho Bento Gonçalves, segretario del quale è il bolognese Zambeccari. La proclamazione di una repubblica del Rio Grande, contrapposta ad un impero, quello brasiliano, nonché la vicinanza di framassoni e carbonari al repubblicanesimo di Gonçalves, contrapposto al liberal clericalismo del regime di Frijó, riscalda gli animi della Giovine Italia brasiliana e dello stesso Garibaldi.

Alla causa riograndense dedica cinque anni. E’ un apprendistato importante ma deludente. Già parlando degli anni centrali della sua partecipazione, lascia traccia dei propri dubbi sulla gestione politica riograndense. Capisce di essere coinvolto in un’orribile guerra civile nella quale il metro dei suoi ideali a poco serve per discernere tra il combattere per una tirannia contro un’altra dove nulla vi è della sua mazziniana “guerra nazionale”. Rileva violenze, corruzione, cattiva gestione della cosa pubblica ed imputa a queste il fallimento di una spinta propulsiva che, scrive nell’edizione definitiva, avrebbe portato al «trionfo della Republica su tutto il continente Americano».

Per un po’ va avanti per la sua strada. Il “negro Antonio”, catturato ed emancipato a bordo della lancia Marinbondo nel 1837, sarebbe, 50 anni prima dell’abolizione totale in Brasile (1888) e cinque prima che in Uruguay il primo schiavo liberato dell’intera costa atlantica dell’America latina.

Nel ’38 conosce Anita, “Tu devi essere mia”, le sussurra al primo incontro. L’incertezza di lei, pur sposata, è brevissima. Si lascia tutto alle spalle e segue Garibaldi a bordo della Rio Pardo che in quel momento lui comanda. Si sposano nel ‘42 a Montevideo, hanno 4 figli. Lei combatte fin dal primo momento al suo fianco in una corsa che si spezza solo nell’agosto del 1849 con la morte di lei nella ritirata dei difensori della Repubblica Romana.

Non altrettanto gloriosa ma altrettanto drammatica è un’altra ritirata di nove anni prima al termine della quale Garibaldi giunge alla conclusione della necessità di uno sganciamento personale dalla lotta sempre meno gratificante per il Rio Grande do Sul. La morte dell’amico Rossetti, le condizioni miserrime nelle quali Anita conduce la gravidanza del primogenito Menotti, che viene alla luce il 16 giugno 1840 con «una ammaccatura sulla testa», conseguenza di una caduta da cavallo della madre che mai abbandona il compagno nella lotta, sei anni di mancanza reciproca di notizie con i genitori, lo spingono verso un periodo di riposo, che, sa essere senza ritorno, verso Montevideo. Vi giunge nel giugno 1841. E’ il modo più elegante per distaccarsi da Gonçalves e dalla difesa della Repubblica del Rio Grande che si prolunga fino al 1845.

La motivazione privata trova terreno fertile nella delusione politica. Garibaldi, oltre che umanamente deluso, non crede più nel fondamento politico di quella lotta. Con ogni probabilità, condivide l’ultima lettera di Luigi Rossetti, suo più stretto collaboratore ed amico, al ministro riograndense Almeida che delinea già nel Federalismo più che nella secessione l’organizzazione più plausibile per l’allora Impero del Brasile. A Montevideo, lo attende tra gli altri il giornalista Giovambattista Cuneo. Anni prima, nel porto del Mar Nero di Taganrog, ha iniziato il giovanissimo Garibaldi agli ideali mazziniani e repubblicani. Ora sta pubblicando il periodico l’Italiano, che lo stesso Mazzini amerebbe ricevere a Londra. Garibaldi si mette di impegno nel provare a vivere in pace. Non ci riesce. Lavora come sensale navale ed insegnante di matematica ma presto, stanco, accetta il comando della flotta uruguayana con la quale si rende protagonista di una prodigiosa risalita del Paraná.

Un rivoluzionario e due imperialismi

La difesa di Montevideo

Se la lotta riograndense s’inquadra nell’assestamento statuale brasiliano, la partecipazione garibaldina alla Guerra Grande, che si combatte in Uruguay dal 1839 al 1851, va contestualizzata nella fase post-coloniale che tocca il consolidamento degli stati nazionali, il processo di sostituzione dell’influenza spagnola con quella franco-britannica ma anche la lotta tra autoritarismo e liberalismo o, secondo la prospettiva, tra americanismo e capitale europeo.

La fragile indipendenza uruguayana è a lungo appesa ad un filo. Da una parte non sono svanite le mire del Brasile, al quale l’Uruguay è annesso dal 1820 al 1828 come provincia cisplatina, di raggiungere il Rio de la Plata considerato il confine naturale dell’Impero. Dall’altra sono ben concrete le ambizioni dell’Argentina di Rosas di ricostituire il virreinato, viceregno, spagnolo. Come terzo incomodo, è remota ma esiste la tentazione dei gabinetti Thiers, di fare dell’Uruguay una testa di ponte dell’impero francese in America Meridionale. Al di là di ciò, Francia e Gran Bretagna svolgono sempre un ruolo attivo che ha, come primario obbiettivo, che il Plata non diventi un fiume interno argentino.

Gli interessi industriali europei, almeno in quell’area, appaiono già preferire il consumatore al suddito e pertanto il frazionamento dell’America Latina, anche al di là dell’infrangere il sogno di Artigas e Bolivar, è desiderabile. Trattare con piccoli stati quali il Paraguay, l’Uruguay e perché no, Rio Grande, Corrientes, Santa Fe, Entre Rios, è spesso vantaggioso rispetto al dover gestire un riottoso nazionalista quale Rosas. Contro questi la flotta francese applica due lunghi blocchi navali, poco graditi agli stessi inglesi che hanno nel porto di Buenos Aires il canale privilegiato della loro penetrazione nel Cono Sud proprio come i primi puntano sulla riva orientale e quindi su Montevideo.

Sono gli anni del liberalismo classico. Come le cannoniere francesi bloccano Buenos Aires, così quelle inglesi, per costringere la Cina ad aprirsi e consumare prodotti britannici, bombardano Nanchino e bloccano Canton. E’ la Guerra dell’oppio. Di lì a poco, stessa sorte tocca al Giappone, obbligato a fare altrettanto dalla flotta statunitense del Commodoro Perry.

Vista in quest’ottica, la Guerra grande nella quale Garibaldi combatte è il conflitto tra l’America spagnola e l’Europa industriale. E’ forse la visione più calzante all’osservatore del tardo secolo XX che utilizzi strumenti marxisti di analisi. Se si limitasse a ciò sottovaluterebbe le implicazioni locali del conflitto e concluderebbe vedendo il braccio dell’Eroe dei due mondi miseramente prestato ai fini dell’imperialismo franco-britannico.

La Guerra grande è, in primo luogo, una lotta per bande tra partiti che non sono ancora partiti ma che già vantano divise, la bianca dei Blancos e la rossa dei Colorados che segnano tutta la storia dell’Uruguay indipendente. Sono partiti dalla pallida o inesistente ideologia che in primo luogo si disputano il controllo della proprietà e la distribuzione di una terra che, in Uruguay come in Argentina, continua a passare di mano a seconda del Caudillo vincente: Fructuoso Rivera, colorado, già sistematico genocida dei nativi Charrua o Manuel Oribe, caudillo blanco costretto all’esilio e che trova appoggio naturale alle sue aspirazioni di potere nel dittatore argentino Juan Manuel de Rosas che a sua volta lo considera strumento delle proprie mire espansioniste.

Da qui sorge il punto di vista di Garibaldi e delle Legioni italiana e francese che si inseriscono nella fase più complessa della guerra civile uruguayana, quella dell’internazionalizzazione e dell’assedio di Montevideo. Sorge dalla lotta di un piccolo popolo contro un dittatore brutale che manda il suo luogotenente, il «feroce Ourives», alla testa di un esercito straniero assediante a metterne a repentaglio il sacro diritto alla libertà.

Garibaldi fa la sua scelta di schieramento, partendo dalla sua cultura politica, dalla condizione di esiliato e dalla realtà contingente. La percezione dell’imperialismo francese ed europeo nell’area appare secondaria. Mazziniani italiani, liberali di varia provenienza, borghesi ed intellettuali orientali, sposano con decisione la causa colorada rispetto a quella blanca. Appaiono in gioco dei principi universali: da un lato il romantico liberalismo di provenienza europea, dall’altro la tirannide oscurantista e tardo-coloniale. Che poi in prospettiva l’americanismo di Rosas,, al di là della violenta e personalistica dittatura, significasse anche la difesa di una possibile area produttiva locale, corrispondente al vecchio virreinato, argine al liberoscambismo delle potenze industriali, non è all’ordine del giorno per Garibaldi ed i suoi.

Non avrebbe potuto esserlo. Il postulato nazionalista ed americanista del governo del Cerrito installato da Oribe alle porte della città ha, oltretutto, un carattere xenofobo, il pericolo del quale non sfugge all’immigrazione europea. L’armamentario ideologico blanco, perfino più raffinato rispetto all’avversario colorado Rivera, archetipo del caudillismo senza definizione ideologica, lungi dal concepire forme di sviluppo libere da ipoteche europee, non va molto più in là del propugnare il monopolio degli orientali di nascita nei posti pubblici. Lo accompagna col disprezzo per il cosmopolitismo montevideano nel quale si sottolinea, con qualche ragione, l’essere la produzione come la difesa in mani straniere.

Tutta l’interpretazione blanca della guerra civile, è in termini di contrapposizione tra orientali e stranieri. L’avere un italiano con i suoi mercenari alla testa della difesa della città appare un’onta da lavare.

Per Garibaldi, pur aborrendo l’intervento francese, solo il piccolo imperialismo argentino, che vuole privare l’Uruguay del valore per gli esuli italiani più sacro, quello dell’indipendenza nazionale, appare questionabile. Non così il grande imperialismo rappresentato dalle due potenze industriali europee, una formata, la Gran Bretagna ed una in fieri ma già rampante, la Francia di Luigi Filippo. Quest’ultima, anzi, diventa compagna di percorso nella difesa di Montevideo.

Oltre al quasi immediato riferimento al ’98 cubano, altri due paragoni uguali e contrari possono illuminare e confermare l’incidenza del paradosso nella vicenda. Il primo è quello spagnolo del 2 di maggio del 1808 e della sollevazione contro Murat. All’assolutismo di Ferdinando VII si associa l’idea d’indipendenza nazionale contro il regime filo-napoleonico, illuminista ma “affranciosato”, di Murat. Sessant’anni più avanti, con esito opposto, la Gran Bretagna raccoglie i dividendi della guerra di sterminio combattuta da Argentina, Brasile ed Uruguay per abbattere il regime protezionista paraguayano. Reo, quest’ultimo, di non dovere nulla a nessuno e di tentare una propria via di sviluppo.

Sono considerazioni dovute a posteriori ma che non possono non tener conto come fosse naturale, per il giovane liberale porteño o montevideano, così come per il rivoluzionario europeo esule, aderire a quella che sente come una lotta universale tra borghesia europea opposta all’assolutismo monarchico e tra progresso e conservazione.

La nuova Troia

L’Uruguay che giura la sua costituzione nel 1830 conta appena 74.000 abitanti, mal distribuiti in un territorio grande quanto l’Italia centro-settentrionale. Molti di questi sono coloni brasiliani. Brasiliani a tutti gli effetti già che leggi, lingua e giustizia riconosciuta saranno ancora per decenni quelle dell’Impero. La Montevideo del 1843 ha una popolazione di circa 30.000 abitanti. Tra questi, 6.300 francesi, 4.200 italiani, 3.400 spagnoli e 2.500 argentini. Solo le quattro comunità straniere più numerose sommano oltre il 50% della popolazione. Tra il 1840 ed il 1852, giungono a Montevideo oltre 6.000 sudditi degli Stati sardi. Sono i soli immigrati legali. Molti altri, il fenomeno ricorda da vicino quelli contemporanei con l’Italia come approdo, giungono in Uruguay senza visto o imbarcati per la fittizia destinazione di Gibilterra e abbandonati in un punto qualsiasi della costa uruguayana per proseguire verso un ignoto che sovente non prevede alcuna registrazione.

Su questa immigrazione se ne innesta un’altra non poverissima ma, soprattutto se francese, inglese, tedesca, spesso in grado di acquisire tenute che non di rado si misurano in migliaia di ettari. L’esigenza di garantire le proprietà dei connazionali diviene ben presto una delle principali funzioni consolari e motivo di ingerenza incontrollabile per uno stato incapace di prescindere da sussidi stranieri, prima francesi poi brasiliani e che, quando deve difendersi dall’invasione argentina, può fornire appena il 20% degli effettivi dell’esercito. Gli altri li garantiscono, anche con generosità, le varie comunità straniere. Si formano così una legione francese, che arriva a 2.600 effettivi ed una italiana, che giunge a toccare i 700.

Quando Garibaldi giunge a Montevideo si va saldando l’intesa tra Uruguay, il Rio Grande e le province argentine di Santa Fé, Corrientes ed Entre Rios che condividono con le potenze europee la necessità della libera circolazione dei fiumi, negata da Rosas, accentratore sulla dogana di Buenos Aires di tutto il commercio argentino.

Il 6 dicembre 1842 l’eterogenea e debole coalizione condotta da Fructuoso Rivera viene distrutta, «come forse mai successe ad altro esercito» nella battaglia di Arroyo Grande. Garibaldi, evita di entrare nel merito limitandosi ad affermare la sconfitta causata da ambizione ed egoismo. Non nomina Rivera, in altri casi peraltro blandamente elogiato per le capacità tattiche, ma in qualche modo il riferimento è obbligato. Di lì a poche pagine, di nuovo senza nominare l’uomo per il quale formalmente combatte, si fa del tutto esplicito: «Non era più la causa d’un uomo che [...] spingeva le moltitudini sui campi di battaglia - l’astro di quell’uomo avea tramontato nell’ultimo conflitto - ed invano sforzavasi in seguito di rialzarsi, ma era la causa nazionale [...]».

Scene apocalittiche ed esecuzioni di massa sono ammesse dagli stessi bianchi. Oribe, il «tremendo luogotenente del tiranno Rosas», invadendo il paese, mette a rischio la stessa esistenza dell’Uruguay come stato indipendente.

Quella che fino a quel momento è apparsa la lotta di potere tra due caudilli, quello Blanco e quello Colorado, assume una nuova luce. L’Uruguay, invaso e ridotto a lungo alla sola Montevideo diventa la Nouvelle Troie da difendere dagli invasori. L’efficace conio di Alexandre Dumas lega per la prima volta la figura del nizzardo a quella del pubblicista e scrittore francese che sarà il più prestigioso tra i biografi di Garibaldi. Il libro di Dumas è un pamphlet scritto per appellarsi al sostegno della Francia esaltando l’eroismo dei difensori di Montevideo. Garibaldi vi splende di luce propria.

L’assedio dura dal febbraio del 1843 all’ottobre del 1851. Nessuna delle due parti è in grado di prevalere sull’altra ed alla fine non ci sarà altra soluzione che la negoziale. I costi umani, soprattutto per i civili, sono altissimi. La popolazione torna a diminuire ed il patrimonio bovino, la principale ricchezza del paese, si riduce ai minimi storici passando da 7 a meno di 2 milioni di capi.

Di fronte alla possibile repressione di un ingresso in città degli uomini di Oribe e Rosas, che almeno agli esuli argentini costerebbe la vita, le collettività straniere residenti, altrimenti esentate dal servizio, decidono in vaste proporzioni di prendere le armi in difesa della città. Nasce così, sorta di “Brigate internazionali” ante litteram, la Legione italiana. Fin dall’inizio è permeata da idee mazziniane e repubblicane ma è in larga misura composta da immigrati economici che cercano di costruirsi una nuova vita al di là dell’Atlantico. Gli inizi della Legione, un battaglione di fanteria che inalbera uno stendardo nero con al centro un Vesuvio ardente a rappresentare il fuoco del lutto italiano, sono difficili per inesperienza e scarsa conoscenza del territorio. Ciò provoca anche qualche risentimento e motto che poi si ritrova in alcuni versi a dispetto della tradizione della poesia gauchesca. Ben presto Garibaldi, che agli inizi scrive: «io arrossivo di vergogna», può essere presto orgoglioso dei suoi. Il giudizio però non è sempre unanime.

Da parte blanca, sia per motivi di opportunità politica sia per una distinta percezione storica della guerra, il giudizio è distinto. Magariños de Mello, lo definisce tout-court un pirata imputandogli saccheggi ed incendi metodici. Il giudizio è poi asperrimo per la Legione pur concedendo che senza Garibaldi sarebbe stato di gran lunga peggiore. Vero è che sulla disciplina della Legione italiana tornano in molti, non tutti bianchi, generalmente con toni negativi. Walewski descrive a Guizot, nel 1847, la Legione come un branco di cattivi soggetti. Eppure, ne scrive Mazzini da Livorno a Nicola Fabrizi, è entusiasta di Garibaldi. Un alto grado colorado, Ventura Rodriguez, distingue tra valore in battaglia e condotta turbolenta al di fuori attribuendo i meriti della prima alle doti del comandante. Lo stesso Garibaldi, sia pure con toni sfumati ammette di avere avuto problemi d’indisciplina. Sono polemiche particolarmente vive ad inizio secolo tra partiti tradizionali e tra cattolici e massoni e dove emerge la figura di Setembrino Pereda, polemista colorado, liberale ed anticlericale, informato e che conta ancora su alcuni testimoni diretti.

La figura dell’italiano non passa inavvertita. Così lo descrive lo storico e politico argentino, poi presidente della Repubblica nonché traduttore di Dante, Bartolomé Mitre, all’epoca giovanissimo combattente unitario: «La personalità di Garibaldi esercitava una fascinazione irresistibile per una specie mistero morale che emanava». Mitre lo ricorda con voce dolce e vibrante cantare l’inno della Giovine Italia mangiando pane imbevuto di salsa di aglio preparata alla genovese.

In Uruguay come già in Brasile, la vita non appare facile a Garibaldi. Pur amando molto il paese che ricorda sempre con affetto, quanto vede e rammenta stride spesso con i suoi ideali. E’ l’occasione per lui di mettere in risalto con partecipazione le ingiustizie sociali, la sorte dei nativi, degli schiavi, degli animali. Di fronte ad un territorio di fatto deserto, riflette sulle «immense estancias a perdita d’occhio fino all’orizzonte e proprietà di un solo individuo laddove ne potrebbero vivere agiatamente molte famiglie». Le umiliazioni e la morte inflitta quotidianamente agli animali (nell’Uruguay di quegli anni si uccideva una vacca per la sola pelle) scrive: «¿E le sventure inflitte alle altre razze animali? Io credo: la morte una semplice transazione della materia, a cui conviene conformarsi pacatamente - anzi famigliarizzarsi con essa - Ma i patimenti inflitti da un essere all’altro! Oh! io credo che esistendo una vendetta della natura, essa dev’essere applicata ai ministri del rogo, delle torture e di qualunque sofferenza inflitta ad animale qualunque».

Nel 1846 suo luogotenente è un tal “indigeno Paolo”, sulla cui razza e sulle relative disgrazie, spende parole chiare parlando dei «predoni europei» che l’hanno fatta infelice. Non sappiamo null’altro di Paolo e non possiamo che supporlo Charrua, i nativi delle pianure uruguayane sterminati da Rivera. In un solo caso Garibaldi li nomina espressamente ed è un’aggiunta della versione definitiva rispetto alle anteriori. Lo fa in un contesto descrittivo degli immensi ed ondulati campi orientali dall’aspetto tanto inusuale per un italiano non abituato ad un territorio tanto spopolato. Afferma di aver visto «l’ultima famiglia Chanua mendicare un pezzo di pane nei nostri campamenti».

Tra esperienze di vita e la Legione che conquista l’ammirazione dei difensori ed accuse da parte degli assedianti, passano due anni. L’ulteriore sconfitta di Rivera, a India Muerta il 27 marzo 1845, segna l’ultimo tentativo colorado di riprendere il controllo dell’interno del paese che da quel momento resta sotto il controllo blanco fino alla fine della guerra. Da quel momento proprio le due Legioni, francese ed italiana restano il cuore della difesa di Montevideo.

L’anno successivo, a San Antonio di Salto, l’8 febbraio del 1846, 186 fanti italiani al suo comando vengono colti di sorpresa da 900 uomini di cavalleria e 300 fanti nemici. Uno sfondamento avrebbe aperto le porte verso Montevideo ma la resistenza degli italiani lo impedisce. E’ il momento più alto del prestigio della Legione. Garibaldi, pur costantemente prodigo di meraviglia per l’abilità delle cavallerie americane che più di una volta descrive come le migliori del mondo, fa riflessioni strategiche importanti sul tramonto della cavalleria nella guerra moderna e sul buon gioco che può avere un reparto di fanteria ben guidato. La soddisfazione è presto spazzata via dal colpo di stato che a Montevideo rimette in sella Rivera. Per Garibaldi è la fine della concordia che ha esaltato e permesso la difesa. La Repubblica Orientale ripiomba nel caos ed anche da parte colorada prende piede un’ala xenofoba, della quale oltre a Rivera si fa alfiere quello stesso generale colorado Medina per il quale gli italiani avevano combattuto a San Antonio.

Sul rapporto con Rivera e sul ruolo politico della Legione si gioca il disamorarsi di Garibaldi alla causa colorada. Secondo Mack Smith, la Legione giunge ad essere una fazione come un’altra in conflitto. Di certo, in una sporca guerra civile quale quella uruguayana, in nessuna sede viene messo in dubbio il disinteresse privato di Garibaldi. Non mancano anzi i particolari sull’onestà di gestione e sulla modesta vita condotta. Garibaldi, uomo e politico, non ha però difficoltà nel procurarsi amici e nemici. Nelle memorie esprime sempre giudizi netti, di stima o dissenso mantenendo forme di cautela, via via abbandonate fino ad un finale disprezzo, solo nei confronti del caudillo colorado. Se inizialmente parla di maestria di Rivera, più avanti ripensa quel giudizio e la maestria viene diluita in una meno nobile categoria “degli stratagemmi” non essendo “un gran generale da battaglie campali”. Tende in fondo a perdonare a Rivera i disastri militari ma non la gestione politica ed il «villano» spoil system con il quale gestisce la cosa pubblica minando la concordia delle forze a difesa della città.

Il tempo di Rivera è contato ed il complotto contro los gringos fallisce. Dopo Arroyo Grande e India Muerta va incontro ad una terza disfatta a Paysandú e deve riprendere la via dell’esilio in Brasile. Il 25 giugno 1847 Garibaldi è capo di tutte le forze della Defensa. A quel punto però la questione orientale appare a Garibaldi una mera transazione diplomatica tra Rosas e la Francia, cosa che contribuisce ulteriormente a disamorare Garibaldi che scrive come per i difensori non restino che tedio e mortificazioni. Ben presto il cuore guarda alle notizie che giungono dall’Italia sulla fase riformista del pontificato di Pio IX.

Dopo 14 anni di esilio giunge il momento di tornare. Fin dal febbraio del ’46 e dalla battaglia di S. Antonio di Salto, giungono inviti al ritorno. Sembra improbabile che Garibaldi prospetti mai mille uomini pronti a salpare per l’Italia, se ne parla però nel ’47 in ambienti mazziniani, ma è certo che il totale effettivamente partito fosse deludente. Ancora l’8 marzo a Torino si spera in 200 unità. Rispetto all’entusiasmo iniziale, il ritardo di mesi, causato dalla mancanza di mezzi economici sopraffà i più. E’ un dato che una volta di più contribuisce a far luce sulla natura prettamente economica dell’emigrazione italiana verso l’Uruguay.

Anita ed i figli lo precedono di pochi mesi. Si ricongiungono a Nizza nella casa materna dove Giuseppe porta il corpo trafugato della piccola Rosita morta a Montevideo. Sul Brigantino Speranza viaggiano secondo Garibaldi, 63 combattenti della Legione italiana. Candido cita il quotidiano 22 marzo di Milano che parla di 85 uomini e calcola in una ventina il numero degli ufficiali. Quando arrivano a Nizza, sessantatré o poche decine in più che siano, l’aspetto è già inconfondibile: blusa rossa con mostre verdi e pantaloni bianchi, come la divisa colorada, come poi i Mille. La maggioranza si distingue nella difesa della Repubblica Romana tanto che l’8 giugno del 1849 il Monitore Romano parla de «le tigri di Montevideo». Tra questi, alcuni personaggi vicinissimi a Garibaldi, Sacchi, Medici e Anzani, che muore a pochi giorni dall’arrivo in Italia ed alcuni cittadini uruguayani. Si ricordano Andrea Aguiar, figlio di schiavi, noto come il moro di Garibaldi che muore a Trastevere con Luciano Manara, Ignacio Bueno ed il portabandiera Manuelito Caballeros che pure cade nella difesa di Roma.

Alle spalle si erano lasciati come scrive Garibaldi «il popolo orientale in preda al più malvagio dei concepimenti umani, la Diplomazia Francese».

Mito e memoria garibaldina in Uruguay

Alla fine del XIX secolo, nella sola Montevideo, esistono ben sei vie intitolate all’Eroe dei due mondi. Tuttora si contano almeno cinque monumenti a lui dedicati nel paese. La memoria di Garibaldi ed il garibaldinismo, restano a lungo vivi in Uruguay come pensiero politico e ideale libertario, spesso ufficiale o ufficializzato, utilizzato dai governi del partito colorado.

Il 4 luglio 1907, primo centenario della nascita, in una piccola Montevideo che non supera i 200.000 abitanti, viene decretata la festa nazionale con celebrazioni presiedute dal Presidente Batlle y Ordoñez davanti a più di 40.000 persone. Pochi anni dopo, nel 1915, il presidente Feliciano Vera dichiara il 20 settembre festa nazionale, ma come anniversario dell’entrata in Roma delle truppe di Garibaldi (sic).

Con l’interesse colorado ad utilizzare la figura di Garibaldi, compete e si affianca un garibaldinismo radicato nel tessuto sociale. Il 2 giugno del 1882, cinque giorni prima della morte dell'Eroe, viene fondato a Montevideo il «Circolo legionario garibaldino» del quale è continuatrice l’associazione tuttora esistente. Lo integrano, tra gli altri, 22 cittadini italiani dei quali 14 legionari ed 8 garibaldini propriamente detti. E’ una presenza alimentata anche dalla storia migratoria e politica degli anni ‘50. Dopo la caduta della Repubblica romana, molti dei difensori, braccati dalle polizie francesi, austriache, spagnole o con la prospettiva di essere costretti ad una lunga ferma nell’esercito sardo, decidono di espatriare. In almeno un caso, ma seguirebbero altri viaggi del genere, la fuoruscita è organizzata dal consolato uruguayano a Genova. Circa 150 uomini vengono convogliati in un viaggio semiclandestino per partecipare alla parte finale della difesa di Montevideo. Forse anche perciò, nel primo anniversario dei Mille, maggio 1861, i festeggiamenti montevideani sono di rimarchevoli dimensioni con luminarie, bengala, petardi che secondo il console italiano Raffo danno luce a giorno a tutta la baia.

Siamo ancora nella prima fase del garibaldinismo in Uruguay, quella dell’esistenza in vita dei contemporanei dell’Eroe. E’ una fase che possiamo spingere fino alle soglie della prima guerra mondiale, laddove il polemismo della pubblicistica, tratta la Guerra grande e Garibaldi come argomenti ancora all’ordine del giorno. Nella prima parte del secolo, le presidenze di Batlle y Ordoñez, pur senza toccare la struttura latifondista dello stato, danno impulso ad un riformismo sociale che disegnano l’Uruguay come país modelo. Il periodo batllista può considerarsi uno dei pochi, di effettiva vicinanza politica tra coloradismo e garibaldinismo. Da parte colorada dunque, più che per la storiografia, meno ricca di quella di estrazione blanca o marxista, la permanenza o l’uso della figura del nizzardo, va vista nella prassi politica e come simbolo di coesione elettoralistica più di una volta funzionale a coprire i vuoti ideologici di un riformismo senza cambio sociale.

L’ufficializzazione della figura del nizzardo con il richiamo alla tradizione della Defensa, laddove Garibaldi rappresenta l’aspirazione più alta alla libertà del popolo orientale, contrapposta all’autoritarismo blanco di Rosas e di Oribe, fa parte per decenni della retorica politica governativa. Più avanti il partito colorado affianca la comunità italiana nel promuovere almeno l’esteriorità garibaldina, il museo, il monumento, le commemorazioni che si susseguono, prima vive e poi stantie, lasciando in eredità agli storici decine di trascrizioni di dissertazioni e discorsi di personaggi più o meno illustri sempre uguali a sé stessi ma che pure attestano una vivacità della memoria.

Col tempo, anche l’asprezza del giudizio di parte blanca si stempera se è vero che proprio uno storico blanco, il positivista Pibell Devoto, può essere nel 1951, il grande animatore dell’acquisto e trasformazione in museo della casa dove Garibaldi visse con Anita e i figli per sette anni. Si disegna così una seconda fase, quella che arriva grosso modo agli anni ’50 di questo secolo, ovvero fintanto che la comunità italiana di prima generazione è forte ed attiva, nella quale quest’ultima affianca e sfuma la politica locale per presentare un Garibaldi simbolo unificante di quella comunità. Come per le Brigate partigiane, anche in Uruguay, mentre Mussolini promette di fermare sul bagnasciuga gli alleati appena sbarcati in Sicilia, un’associazione Italia Libre sceglie Garibaldi per lanciare l’appello all’azione antifascista.

Giungiamo così ad una terza fase, quella presente di declino della memoria storica, laddove un Garibaldi può prestarsi a qualunque fine, anche antitetico a quello originale. E’ in questo contesto che gli scritti di Pereda, pasticciatamente riassunti e pubblicati nel 1976 dallo Stato Maggiore dell’Esercito, vengono riciclati per essere funzionali al disegno dittatoriale degli anni ‘70. Non colpisca l’attenzione della dittatura per un uomo che in Uruguay è considerato soprattutto simbolo di libertà. Durante tutto il regime militare si assiste infatti alla pervicace esaltazione dell’elemento militare nella storia del paese. E così il Garibaldi simbolo di libertà e infine annacquato “patrimonio di tutti”, in quanto comandante delle forze navali durante la Guerra grande, finisce, siamo sicuri suo malgrado, per essere utile perfino all’abominevole causa della repressione militare.

Bibliografia

Nel 1971, lo sforzo di catalogazione bibliografica garibaldina, ha prodotto due enormi tomi per un totale di 1311 pagine e 16131 voci. Cfr. A.P. Campanella, a cura di, Giuseppe Garibaldi e la tradizione garibaldina - una bibliografia dal 1807 al 1970, Ginevra 1971.

G. Guerzoni, Garibaldi, Firenze 1982, p. XI prefazione.

Garibaldi, preso ben presto d’assalto da prestigiosi biografi, profonde energie nell’autobiografia. Fin molto avanti negli anni la modifica profondamente lasciando emergere dal confronto tra distinte redazioni, importanti indicazioni storiografiche. Per questo studio il riferimento, oltre che all’edizione definitiva, è alla redazione del 1859 alla quale Garibaldi lavora al tempo dell’idillio con la marchesina Raimondi. E’ una versione preziosa perché precedente ai Mille, evento che cambia molte percezioni e priorità dell’uomo e perché prima versione organica e strutturata in capitoli omogenei alla definitiva. All’esegeta garibaldino evidenti sono le evoluzioni del giudizio su Mazzini, Vittorio Emanuele, il caudillo colorado Fructuoso Rivera, ma anche aspetti diversi come l’indurirsi dell’anticlericalismo dell’Eroe che rimuove decine di riferimenti all’intervento divino o provvidenziale sostituendoli di volta in volta con fortuna, natura, caso. G. Garibaldi, Memorie, edizione diplomatica dall’autografo definitivo a cura di Ernesto Nathan, Torino, Società Tipografica- Editrice nazionale (già Roux e Viarengo), 1907, di qui in avanti, “definitiva”; G. Garibaldi, Le memorie di Garibaldi in una delle redazioni anteriori alla definitiva del 1872, a cura della Reale Commissione per l’edizione degli scritti di Garibaldi, Bologna 1932, di qui in avanti, “anteriore”.

G. Garibaldi, definitiva p. 129 e anteriore 113.

G. Garibaldi, definitiva p. 52 e anteriore 44.

B. Rossi Masella, «Garibaldi expresión de Libertad», Garibaldi, publicación anual de la asociación cultural garibaldina de Montevideo, Año 1, n. 1, Montevideo 1986, p. 64.

G. Garibaldi, definitiva p. 53.

Sulla condizione di Anita si accapigliano penosamente quasi tutti i biografi. Il fatto che avesse sposato a 15 anni, nel 1833, il calzolaio Manuel Duarte, trova oggi discreta concordia. Più interessanti sono due particolari. Da un lato l’ignorare di questi la quasi certa condizione di bigamia di lei a partire dal 1842. Appare improbabile sia mai stato esibito un documento attestante la morte di Duarte ed il certificato di matrimonio emesso dalla parrocchia di San Francisco nel 1881 (Partida de Matrimonio al folio 19 vuelta, según certificado n. 31318, expedido por el cura Martín Pérez, Rector de la Parroquia, Iglesia de S. Francisco, Montevideo, 27 gennaio 1881) per permettere il matrimonio di Garibaldi con Francesca Armosino e quindi riconoscere la paternità degli ultimi due figli Clelia e Manlio, nulla attesta in merito. Dall’altro è significativo come Garibaldi glissi amabilmente sulla condizione di Anita contemporaneamente (Capitolo XVIII, Innamorato) assumendo la personale, ed intera, responsabilità del torto da lui commesso verso un innocente. Un’ammissione di colpa duplice che da una parte si riferisce alla posteriore leggerezza con la quale si lascia imporre da Anita di accompagnarlo nella disastrosa ritirata dei difensori della Repubblica Romana dove trova la morte, dall’altra la mezza ammissione di avere infranto la vita di un innocente, il marito legittimo di Anita.

G. Garibaldi, definitiva p. 81.

L. Collor, Garibaldi e a guerra dos Farrapos, Rio de Janeiro 1938, pp. 310-311

S. Candido, Giuseppe Garibaldi... cit, p. 45.

Per uno studio sistematico su immigrazione ed influenza francese dal secolo XVIII in poi in Uruguay, J. Duprey, Voyage aux origines françaises de l’Uruguay, Parigi-Montevideo 1952. In particolare sull’immigrazione post-unitaria e la Legione francese nella Guerra grande, cap. VII, pp. 153-204.

Al lettore non addentro alle cose uruguayane vanno chiariti almeno due particolari. In primo luogo che la denominazione ufficiale dello stato è Repubblica Orientale dell’Uruguay con riferimento alla collocazione geografica sulla riva sinistra del fiume Plata; l’aggettivo o sostantivo “orientale” è quindi in tutto e per tutto sinonimo di “uruguayano”. In secondo luogo va l’avvertenza di non cercare di collocare i partiti tradizionali Blanco e Colorado, che monopolizzano l’intera storia del paese, nelle categorie politiche della destra o della sinistra.

G. Garibaldi, definitiva p. 92.

J.P. Barran, «Apogeo del Uruguay pastoril e caudillesco - 1839-1875», Historia uruguaya, Tomo IV, Montevideo 1974, pp 13-20. Secondo studiosi quali Halperin Donghi, «De la revolución de indipendencia a la confederación rosista», Historia argentina, Tomo 3, Buenos Aires 1972, l’incidenza della politica doganale, protezionista o liberoscambista che sia, sarebbe marginale rispetto all’impatto ferroviario britannico nel segnare la rovina dell’artigianato locale rispetto alle merci europee.

M.J. Magariños de Mello, El gobierno del Cerrito, Montevideo 1963, tomo II, vol 2, p. 1343.

M.J. Magariños de Mello, El gobierno... cit, tomo II, vol 2, p. 1349.

B. Paris de Oddone, Cronología comparada de la historia del Uruguay, Montevideo 1966, p. 142.

I. De María, Annales de la defensa de Montevideo - 1842-1851 tomo I, Montevideo 1883-1887.

S. Candido, Giuseppe Garibaldi nel Rio della Plata 1841-1842, Firenze 1972, pp. 22-24.

G. Garibaldi, definitiva p. 109.

G. Garibaldi, definitiva pp. 104-105 e anteriore 92-93.

G. Garibaldi, definitiva pp. 107-108 e anteriore 95.

G. Garibaldi, definitiva p. 108.

A. Dumas, Montevideo ou una nouvelle Troie, Montevideo 1850. E’ a Montevideo che si salda il rapporto fiduciario tra i due. Garibaldi non solo farà di Dumas un privilegiato confidente ma, una volta a Napoli, non esiterà a chiamarlo all’ambitissima sovrintendenza al patrimonio artistico ed agli Scavi di Pompei.

Sulle conseguenze del conflitto, J.P. Barran, Apogeo... cit, pp. 50-59.

Quella sarda tra le altre non è tenuta a farlo sulla base del Trattato di amicizia, commercio e navigazione stipulato tra la Repubblica Orientale dell’Uruguay ed il Regno di Sardegna il 29 ottobre del 1840.

G. Garibaldi, definitiva p. 113.

M.J. Magariños de Mello, cit, tomo I, pp. 27 e 1349.

Alessandro Colonna Walewski, figlio naturale di Napoleone I e di lì a poco, sorta di Samuel Hoare francese, Ministro degli Esteri di Napoleone III, opera come chargés d’affaires in missione straordinaria tra Montevideo, Buenos Aires ed Asunción, Questi, secondo quanto afferma più avanti Mazzini, sarebbe entusiasta di Garibaldi. J. Duprey, Un fils de Napoleón dans les pays de la Plata au temps de Rosas, Parigi-Montevideo 1937, p. 164.

A. Ventura Rodriguez, Memorias militares del General Ventura Rodriguez, Montevideo 1919, p. 194

S. Pereda, Los extranjeros en la Guerra Grande, Montevideo 1904, Garibaldi en el Uruguay, 3 tomi, Montevideo 1914-1916.

B. Mitre, Episodios troyanos, Buenos Aires 1859, pp. 56-59.

G. Garibaldi, definitiva p. 135.

G. Garibaldi, definitiva p. 157.

G. Garibaldi, definitiva p. 21. Pur raffermando i giudizi a volte la distanza temporale gioca scherzi alla memoria di Garibaldi. Lo testimonia il chanua per charrua ed ancora di più il già citato e ripetuto Ourives per Oribe.

G. Garibaldi, definitiva pp. 160-161.

D. Mack Smith, Garibaldi, Milano 1959, p. 59.

G. Garibaldi, definitiva p. 111 e anteriore 99.

G. Garibaldi, definitiva p. 167.

La Concordia, Torino 8 marzo 1848.

G. Garibaldi, definitiva p. 233.

S. Candido, Italiani dell’Uruguay ed uruguayani alla difesa di Roma, Torino 1971, p. 6.

A. Cavaciocchi, «Le prime gesta di Garibaldi in Italia», Rivista Militare Italiana, Roma 1907, p 16. La figlia Clelia, nata nel ’67 da Francesca Armosino, ricorda di non aver mai visto il padre senza la camicia rossa.

Il Monitore Romano, Roma 8 giugno 1949.

Per il percorso di molti degli uomini che si imbarcano sulla “Speranza”, cfr: S. Candido, Italiani dell’Uruguay ed uruguayani alla difesa di Roma, Torino 1971.

G. Garibaldi, definitiva p. 170.

M. Vanker, Un país modelo - Batlle y Ordoñez, Montevideo 1980.

N.A. Barrios Pintos, «Garibaldi en la Tierra purpurea», Garibaldi, Año 1, n. 1, Montevideo 1986, p. 12.

L. Fabbri, «La herencia de Garibaldi en el Plata», Garibaldi, Año 4, n. 4, Montevideo 1989, p. 74-85.

«Asociación Italia Libre» e «Comité italo-americano de educación democratica», Garibaldi heroe de los dos mundos, Montevideo marzo 1943.

S. Pereda (senza altra indicazione sulla fonte originale), Los italianos en la nueva Troya, Estado Mayor del Ejercito, Montevideo 1976.

articolo pubblicato nel 1998 in Latinoamerica n. 68

Gennaro Carotenuto
http://www.gennarocarotenuto.it

Fonte

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