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I costi della politica

(9 Luglio 2007)

La polemica estiva sui costi della politica si accompagna a quella, sviluppatasi qualche settimana fa, sull'antipolitica.

Sono usciti libri molto interessanti (come “La Casta”, che è seguito al libro bianco di Villone e Salvi apparso qualche mese fa), sono stati scritti saggi ed articoli: agli occhi di tutti la macchina della politica (partiti e istituzioni assieme) ormai pesa sul bilancio pubblico complessivo in maniera insopportabile.

Si sono verificate reazioni, ed il governo ha approntato un disegno di legge tendente alla riduzione del fenomeno, a partire dagli Enti Locali: diminuzione della retribuzioni degli eletti ( o nominati), minor numero di consiglieri eleggibili, abolizione delle circoscrizioni, ecc.

Un disegno di legge che pare avere poca fortuna, anche all'interno dello stesso Consiglio dei Ministri, e che ha suscitato reazioni indignate da parte degli esponenti degli Enti Locali che accusano il Governo di volerli colpire, quale “anello più debole della catena”: sotto questo aspetto appare, per certi versi, sorprendente l'analisi di Sandro Medici, giornalista di lungo corso del Manifesto e presidente del X Municipio di Roma (Cinecittà) che interpreta l'intenzione del governo come quella di colpire i cosiddetti “governi di prossimità”, nella loro possibilità di essere soggetti di “interpretazione dei cambiamenti sociali”.

Nel ragionamento di Medici, uno dei più impegnati sostenitori delle logiche “partecipative” (bilancio sociale e quant'altro) nella gestione delle istituzioni, si ravvede un vero e proprio salto di qualità nel considerare il “Municipio” (in altre situazioni la circoscrizione) già come un livello provvisto di una propria autonoma situazione di “governabilità” e non come il primo soggetto di rappresentanza dei cittadini: un dibattito antico, sul quale varrà la pena di ritornare in seguito.

Ma torniamo al “nocciolo duro” della questione dei costi della politica.

L'idea di un finanziamento pubblico della politica nacque, nella seconda metà dell'800, con il passaggio dal “notabilato” ai grandi partiti di massa, frutto della rivoluzione industriale, con il nobile intento di permettere ai rappresentanti di tutti i ceti sociali di essere eletti, di far parte delle istituzioni: in Italia, i primi a muoversi su questo terreno furono i radicali ( con una proposta di legge di Felice Cavallotti, nel 1881), ma fu un cammino arduo e difficile da percorrere.

Nei primi anni del '900, quando i socialisti raccolsero una significativa rappresentanza parlamentare, il problema si pose con grande evidenza: erano i tempi del deputato – contadino Abbo, di Imperia, che disponeva soltanto del “permanente” ferroviario e non avendo in tasca i soldi per pagarsi una pensione, dormiva sulla carrozza del treno notturno Roma – Firenze, facendo avanti e indrè.

Soltanto dopo la Liberazione il problema si risolse a livello parlamentare: negli Enti Locali si dovette attendere a lungo.

Fu stabilito un minimo compenso per i Sindaci delle Città più grandi (si pensi che, ancora a cavallo degli anni'80, i Sindaci del PCI vedevano la loro magra indennità integrata dal partito fino ad arrivare alla “mitica” cifra del livello V super dei metalmeccanici, che rappresentava il tetto massimo della retribuzione per i funzionari del partito).

In realtà fu la corruzione a smuovere la macchina del finanziamento pubblico della politica: la prima legge sul finanziamento dei partiti , infatti, fu motivata dallo scandalo dei “petroli” (quello scovato dai “pretori d'assalto” Brusco, Almerighi e Sansa a Genova).

La Malfa padre, nume ispiratore di quella prima legge, sostenne che, una volta finanziati pubblicamente, i partiti non avrebbero avuto bisogno di finanziarsi per vie traverse.

Mai come in quella occasione la “Cassandra” della politica italiana ebbe torto!

La legge fu sottoposta, nel 1978, a referendum e nonostante il massiccio schieramento parlamentare a favore ( tutti i partiti, salvo PR, PLI e PdUP) si salvò a stento nel computo del voto popolare (questo in tempi in cui i partiti prevalevano nettamente, nell'orientamento politico dell'opinione pubblica su altri soggetti: si trattò del primo, inequivocabile, segnale di crisi del sistema dei partiti).

Da allora è storia nota: i costi della politica (dal finanziamento dei partiti in parlamento, alla creazione degli “assistenti particolari” per deputati e senatori, alla retribuzione dei Sindaci, Assessori, Presidenti, all'occupazione del potere da parte dei partiti negli enti di secondo grado, nelle aziende pubbliche e para – pubbliche, nella commistione tra pubblico e privato – un particolare privato- nelle operazioni di presunta pubblicizzazione dei grandi soggetti economici di servizio, e via, via) sono lievitati, nel modo oggi documentato con tanta dovizia di particolari, in contemporanea con la crescita della corruzione politica (ricordiamo Tangentopoli?) e la trasformazione del sistema politico, rappresentata soprattutto dal mutamento di ruolo, funzione, ragione sociale dei partiti.

Dalla caduta dei partiti di massa (dovuta, in Italia, a ragioni diverse di natura internazionale ed interna) al prevalere del potere dei mezzi di comunicazione di massa, al soggiacere della politica nei riguardi dell'economia ( a livello locale, il fenomeno poi presenta aspetti di vera e propria sudditanza dei rappresentanti istituzionali rispetto ai gruppi economici speculativi), alla riduzione del rapporto interno alle istituzioni rappresentative al concetto di governabilità (qui ritorno all'annotazione di Sandro Medici riportata all'inizio) fino ai partiti ridotti, dal punto di vista della loro composizione interna, alla presenza di eletti o dipendenti degli eletti (veri e propri “professionisti” della politica dipendenti dalla continuità della propria funzione istituzionale o para -istituzionale) o nominati o dipendenti dei nominati, che ormai compongono la gran parte degli organismi dirigenti esecutivi, abbiamo il quadro di questa vera e propria “mutazione genetica”, sulla quale vale la pena di riflettere.

Riflettere non tanto in termini di generica protesta della “società civile”, ma in termini davvero di analisi politica, a partire dal rapporto tra rappresentanza e governabilità.

La rappresentanza appare, ormai un concetto desueto, essendo qualificata quale “ancilla” della governabilità.

Ecco: se la rappresentanza non torna ad essere il fulcro della vita politica, se non si intende l'universalità (e di conseguenza la tendenziale gratuità, nel senso di “servizio”) di questo concetto, allora potranno essere presi tutti i provvedimenti legislativi possibili (personalmente, avremmo cominciato dagli staff di deputati, senatori, consiglieri regionali, assessori: un sottobosco da estirpare. Ma si tratta soltanto di una annotazione a margine), ma non si sarà arrivati al “cuore” della questione.

Il punto d'attacco vero di questo discorso sono i partiti (non a caso tutto questo meccanismo di spinta in avanti è nato dalla corruzione politica promossa dai partiti, cui si rispose pensando di finanziarli pubblicamente: è un dato sul quale ritorno, a rischio di essere noioso, ma mi pare il punto di partenza fondamentale): soltanto se il regime di vita interno ai partiti si sposterà dal potere di nomina, al ritorno ad una realtà di dibattito politico legato alle ragioni di rappresentanza sociale dei soggetti, allora questo discorso potrà essere affrontato efficacemente: in caso diverso si potranno proporre tutte le riduzioni probabili e possibili nelle indennità, nei gettoni di presenza, nelle prebende varie e nel numero degli eleggibili nei vari consigli, ma non si sarà affrontato il problema che spunterà, in altra forma, da qualche altra parte, a corrompere il residuo di democrazia in cui ci troviamo.

Savona, li 8 Luglio 2007

Franco Astengo

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