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resoconto dell'iniziativa con gli operai della Zanon a Udine

(3 Dicembre 2002)

Sono gli operai che in Argentina autogestiscono le fabbriche dopo che la crisi economica ha creato milioni di disoccupati. La fabbrica di ceramiche Zanon è la più grande di queste. Da tredici mesi è occupata.

Dall'inizio di quest'anno in Argentina hanno chiuso circa 1700 fabbriche, lasciando senza lavoro 700mila persone.
In questa triste classifica, che è solo un piccolo indicatore della crisi economica che angustia il grande paese sudamericano dove vivono moltissimi discendenti di emigranti friulani e italiani, non trova posto una fabbrica che dà lavoro a 300 operai e un centinaio di tecnici e impiegati e che secondo le intenzioni dei titolari (la famiglia italiana Zanon) doveva chiudere nel novembre del 2001.
Si tratta della Fabbrica di ceramiche Zanon, di Nequen, in Patagonia, la più importante azienda del sud dell'Argentina in questo settore, fondata con ampie sovvenzioni pubbliche durante il regime dei generali negli anni settanta (si narra che ad inaugurarla fu il famigerato generale Jorge Videla in persona).
La storia di questa fabbrica nell'ultimo anno ha fatto il giro del mondo, ma in Argentina ha ispirato iniziative di lotta civile di lavoratori e disoccupati uniti nel difendere il lavoro, nel reclamare il diritto ad averne uno, nel contestare le politiche neo-liberiste degli ultimi governi, a cui viene imputato il disastro in corso.

In difesa del lavoro

Cosa hanno fatto i lavoratori della Zanon di così importante? Hanno messo in pratica uno slogan che da sempre è al centro delle lotte sindacali in tutto il mondo (almeno in quella parte del pianeta dove queste lotte sono ammesse o tollerate): difendere il posto di lavoro a tutti i costi.
Da tredici mesi questa fabbrica continua a produrre grazie alla strenua resistenza dei lavoratori, che l'hanno occupata dopo una lunga mobilitazione iniziata due anni prima.
Il 27 novembre dello scorso anno la proprietà, dopo essere stata condannata da un giudice per la serrata dell'allacciamento del gas che di fatto impediva la produzione, ha inviato a tutti e 380 i dipendenti (300 operai, il resto personale amministrativo) la lettera di licenziamento, inoltrando contestualmente alle autorità la richiesta di messa in liquidazione.
Questa azione non ha fatto altro che rafforzare negli operai e nelle loro famiglie la convinzione che l'unico modo per garantirsi uno stipendio era prendere direttamente in mano la gestione della fabbrica.
Grazie ad una catena di solidarietà che ha coinvolto la città e progressivamente si è allargata in tutto il paese, l'autogestione è stata avviata.
Oggi la fabbrica, che occupa uno spazio di 74mila metri quadri, funziona al 20 per cento della produzione rispetto a quando era gestita dalla famiglia Zanon, ma ciononostante riesce a garantire uno stipendio di 800 pesos ad ognuno di lavoratori (lo stesso per tutti).

In questi giorni due rappresentanti degli operai della Zanon e del sindacato dei lavoratori ceramisti Soecn (Sindicato de Obreros y ceramistas) sono in Italia per presentare la situazione della fabbrica e del movimento di lotta popolare che è sorto attorno alla difesa della sua produzione.
L'obiettivo è quello di allargare la catena di solidarietà a livello internazionale e, nel contempo, di fare conoscere la crisi argentina direttamente dalla voce dei lavoratori.
Per una volta, le immagini della tv, così sfuggenti e approssimative, e le dichiarazioni di ministri e funzionari di governo, così formali e prudenti, possono essere messe a confronto con chi vive in prima persona le conseguenze di una crisi economica senza precedenti.
Nestor Navarrete (operaio) e Mariano Pedrero (avvocato) su invito dell'Associazione Vientos del sur hanno partecipato ad un affollato incontro presso la sede della Cgil di Udine.

Lotta lunga e dura

"Quando abbiamo cominciato la lotta - dice Nestor Navarrete, un viso che richiama nei tratti le radici indio, con indosso la camicia color cachi che è la divisa dei lavoratori - sapevamo che sarebbe stata dura e lunga, ma non pensavamo così tanto.
Ciò che volevamo era solo mantenere il nostro lavoro, senza rivendicazioni politiche.
Quello che stiamo facendo conta su tre "pilastri": il fondo di sciopero, che ci ha permesso di pagare gli stipendi per i primi due mesi; la solidarietà della popolazione, che ha ostacolato i tentativi di bloccare l'autogestione fatti dal padrone; e l'organizzazione, che ci consente di fare funzionare bene la fabbrica.
La solidarietà è stata un fattore fondamentale, perché se la nostra lotta fosse rimasta chiusa dentro la fabbrica non sarebbe durata a lungo.
Quello che abbiamo fatto e stiamo cercando di portare avanti, resistendo alle minacce e agli attacchi anche violenti di gente pagata dalla proprietà non è altro che riconsegnare la fabbrica al popolo, visto che era stata costruita con 23 milioni di dollari donati dallo Stato alla famiglia Zanon e altre sovvenzioni sono state dopo.
Abbiamo dimostrato che è una fabbrica che produce e dà redditi e che noi operai possiamo mandarla avanti anche da soli".

L'organizzazione interna adottata dagli operai è articolata in 5 settori con altrettanti coordinatori e la gestione del tutto è fondata su criteri assolutamente democratici.
Comunismo? Forse per pudore, nessuno, né tra gli operai né tra i sostenitori, usa questo termine per definire la realtà.
E' un fatto, tuttavia, che quanto sta avvenendo alla Zanon mette in discussione la fiducia nei criteri di gestione della produzione capitalista che sembravano ormai aver conquistato ogni angolo del globo (facendo anche molti danni, come la situazione argentina dimostra).
I problemi, ovviamente, sono numerosi, ed è lo stesso Navarrete a sintetizzarli.

I problemi ci sono

"Abbiamo avuto presto problemi con i fornitori e con i clienti, che erano stati minacciati dal padrone se avessero avuto rapporti con noi, ma siamo andati avanti lo stesso.
Non possiamo portare fuori il prodotto, così i clienti vengono direttamente in fabbrica.
Abbiamo stretto un accordo con l'università per garantire l'assistenza tecnica alla fabbrica.
Gestendola in prima persona abbiamo capito anche quanto la fabbrica potrebbe essere più utile alla comunità se avesse una gestione pubblica.
Per esempio, senza togliere uno stipendio, abbiamo deciso di donare dei pavimenti all'ospedale per completare degli spazi che non li avevano.
Quando abbiamo visto che nella produzione le cose funzionavano abbiamo dato 8 posti di lavoro a operai disoccupati, che attraverso il loro movimento in tutti questi mesi ci hanno sostenuto molto.
Infine, abbiamo trovato anche la solidarietà degli indios mapuche, che ci hanno permesso di servirci di alcune cave presenti sui loro territori per avere materia prima".

Mondo lontano?

Il racconto dell'operaio apre una finestra su di un mondo che sembra lontanissimo dalla nostra realtà.
A guardare i fatti, tuttavia, l'Argentina si trova nella situazione attuale dopo aver applicato alla lettera i "suggerimenti" in materia di politica economia che le venivano dagli esperti della Banca Mondiale e dal Fondo Monetario internazionale.
Il neo-liberismo, una parola che spesso suona come uno slogan, qui ha esplicitato tutto il suo micidiale potenziale, portando alla chiusura di fabbriche e attività e, infine, al blocco dei conti bancari di tutti i cittadini.
Lo stesso potrebbe accadere anche altrove, visto che sono numerosi i governi che abbracciano senza condizioni l'idea liberista e cercano di applicarla come un verbo inconfutabile.
E' su questa linea la riflessione di Mariano Pedrero, giovane avvocato che - camicia da operaio e piglio deciso - è pienamente dentro la lotta per l'autogestione della Zanon.

"La lotta della Zanon - dice - è stata di esempio per altre situazioni in Argentina e ora sta nascendo un coordinamento delle fabbriche occupate a livello nazionale.
Un aspetto importante di questa lotta è che ha messo assieme gli operai e i disoccupati, che per i sindacati tradizionali non esistevano.
A Nequen è nato un sindacato di lavoratori e dei disoccupati (questi ultimi sono circa due milioni e mezzo in Argentina, attualmente).
L'obiettivo della fabbrica non è fare profitto ma creare ricchezza per la comunità, così se la produzione cresce si possono prendere più persone a lavorare".

Un futuro

Uno degli obiettivi che la fabbrica autogestita deve realizzare nell'immediato futuro è quello di avviare una produzione di imballaggi, cioè delle scatole che servono per vendere le piastrelle.
L'idea è quelle di creare ex-novo un'attività mettendo al lavoro i tanti disoccupati e i familiari degli operai.
Su di un altro fronte, quello della materia prima, la soluzione è arrivata inattesa grazie alla solidarietà degli indios Mapuche, che in passato erano stati più volte "derubati" delle loro risorse proprio dalla titolari della fabbrica Zanon.
Per ricambiare l'apertura dei Mapuche, gli operai hanno deciso di creare una nuova linea di piastrelle che adotta nomi in lingua Mapuche.
Fino all'anno scorso tutte le piastrelle che uscivano dalla Zanon avevano nomi italiani, perché così piaceva al padrone.

Cosa riserverà il futuro alla fabbrica autogestita e alle molte altre che ne stanno seguendo l'esempio nel resto dell'Argentina? Nel grande paese dei gauchos e del tango nessuno ha forse tempo di chiederselo: ciò che conta è agire adesso per sopravvivere.
Ma l'azione degli operai, delle loro famiglie, dei disoccupati e di tutti quelli che sono vicini a questa impresa straordinariamente umana, è destinata a segnare un solco dal quale sarà difficile per chiunque uscire.

di Max Mauro (Il Nuovo Friuli)

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