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Rifondazione. Sotto le spillette, la crisi

(15 Luglio 2007)

A qualche spettatore non è sfuggito un particolare davvero divertente: il 26 giugno, in un'apparizione televisiva su La7, il ministro Ferrero, di Rifondazione Comunista, che ha contribuito a rifinanziare l'intervento militare italiano in Afganistan e ad aumentare del 14% le spese militari, esibiva sulla giacca una spilla con il fucile spezzato, da decenni simbolo dei nonviolenti e degli antimilitaristi.

Scontate le ironie, ricordando anche la spilletta arcobaleno dei pacifisti, ostentata da Bertinotti in occasione della sfilata militare del 2 giugno 2006. In realtà, la partecipazione a questo governo, per il partito della Rifondazione Comunista sta costando davvero cara, con rilevanti perdite di voti, conflitti interni, scissioni ed emorragia di militanti, sempre più in crisi per una complessiva perdita d'identità, tanto che sono in molti a parlare di una crisi ormai irreversibile, specialmente dopo la débacle politica del 9 giugno in occasione della manifestazione contro la venuta di Bush.

In effetti, se in sedici anni di vita, la fortuna politica di Rifondazione Comunista è in gran parte derivata dalla sua partecipazione ai "movimenti", oggi questa passata sintonia può dirsi annullata a causa della scelta istituzionale e governista, compiuta dalla direzione bertinottiana del partito in antitesi con le opposizioni sociali. In particolare, due appaiono le contraddizioni salienti.

La prima, ovviamente è quella attorno al nodo della guerra. Infatti, un partito che nel 2001, di fronte all'aggressione statunitense contro l'Afganistan, aveva portato avanti la sua totale contrarietà "senza se e senza ma", si è ritrovato a dover votare per ben due volte a favore della partecipazione italiana a questa guerra. E se questa responsabilità era criticabile sul piano della tattica politica, è risultata ancor meno accettabile su quello etico, dato che proprio Rifondazione Comunista era stata protagonista di un processo di revisione ideologica che aveva messo la non-violenza al centro della prassi comunista.

In secondo luogo, riprendendo alcuni elementi dell'elaborazione neo-zapatista (ricordate il tanto declamato incontro tra Marcos e Bertinotti?), il Prc sembrava alludere ad un superamento della classica impostazione marxista-leninista della conquista del potere; invece, tale discorso è apparso funzionale a liquidare ogni prospettiva di tipo rivoluzionario, avvalorando piuttosto una rivisitazione "radicale" di un riformismo comunque compatibile col dominio del capitale. Interessante notare a riguardo, da un punto di vista semantico, il prevalente utilizzo nei documenti, nelle elaborazioni e nella propaganda del partito, del termine "neoliberismo" al posto o come sinonimo di "capitalismo".

Anche nel recente discorso pronunciato all'assemblea nazionale della Sinistra Europea, Bertinotti è tornato a riaffermare tale percorso, sostenendo: "abbiamo ascoltato con umiltà, quando l'esperienza e il movimento ce lo ponevano, padri di culture diverse come quelle della nonviolenza, che io continuo a pensare essere una delle chiavi di volta delle nuove sinistre in Europa. Come un'idea di critica del potere, di partecipazione, di rifiuto della delega e anche di correzione dei nostri linguaggi e delle nostre culture da cui andrebbero espunte in partenza gli elementi di offesa e di violenza" (Liberazione, 20.06.07).

Ma, aldilà delle alte riflessioni, è sotto gli occhi di tutti che questi intenti sono clamorosamente negati dalla realtà di un partito che continua da sinistra a sostenere, anche con responsabilità ministeriali, un governo bellicista che impone ulteriori sacrifici ai lavoratori dipendenti, continua a tenere aperto l'orrore rappresentato dai centri di detenzione per immigrati irregolari e, in totale sudditanza verso le gerarchie vaticane, non ha il coraggio di offrire neanche mezzo diritto civile o mezza libertà in più.

Da qui, la disperata necessità dei quadri dirigenti di utilizzare, oltre alle spillette, parole e immagini appartenenti ad una radicalità da tempo ripudiata e quotidianamente dimenticata; basti citare Giovanni Russo Spena, capogruppo al senato del Prc, che è tornato a collocare il suo partito "nella cultura di un comunismo libertario, definitivamente affrancato dall'eredità, grande e terribile, del Novecento" (Liberazione, 20.06.07).

Parole queste che, per essere minimamente credibili, in coerenza vedrebbero almeno l'abbandono degli incarichi di governo e delle poltrone parlamentari attualmente occupate da Russo Spena e compagni, dato che il comunismo libertario non passa da questa strada, ma si sviluppa nell'azione diretta e nell'autorganizzazione sociale.

Anche un altro parlamentare del Prc ora dimissionario, Salvatore Cannavò, della componente di Sinistra Critica in rotta col partito, appare scoprire imprevisti approdi antiautoritari, al punto da richiamarsi alla Prima Internazionale e alla "rivoluzione sociale", nel tentativo di rilanciare una sinistra alternativa e movimentista (Il manifesto, 15.04.06).

E pensare che, fino a ieri, per certa sinistra l'anarchismo era demodé.

Anti
Umanità Nova, n.24 dell'8 luglio 2007, anno 87

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