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(Call center e lotta di classe)

Call center ( e non solo!!! ) e coscienza di classe

(30 Agosto 2007)

Non credo che esista un luogo sociale più attendibile, dal punto di vista dell’analisi politica, e più interessante di un call center.

Un call center è un luogo in cui, generalmente, convergono i rappresentanti – e più spesso le rappresentanti – di varie classi sociali, improvvisamente livellate dalla condivisione di una stessa condizione che è quella del precario.

La moltitudine di donne sulla trentina, spesso laureate, con famiglia benestante alle spalle, più o meno dotate di prole e di matrimonio fallito, è compensata dalla valanga di ragazzine ventenni, a volte senza diploma e senza altra esperienza lavorativa, con alle spalle esperienze di disagio familiare e scolastico. A volte, oltre a queste ricorrenti classi umane femminili, in un call center si può incontrare la cinquantenne, autonoma e risoluta, proveniente da esperienze lavorative pluriennali presso quelle aziende private che, da qualche anno a questa parte, stanno cercando di risanare le proprie finanze effettuando tagli del personale e ridimensionamenti.

Il call center, che dovrebbe essere oggi il luogo più a sinistra possibile in cui convergono le varie categorie di disoccupati, licenziati, precari, arrangiati e, se vogliamo, diseredati di vario tipo, è invece, generalmente, un luogo piramidale, affollato di donne (e a volte uomini) che credono nell’individualismo, nella produzione, nella vendita a tutti i costi, nei “numeri”, che si regge su una struttura di tipo verticale e sulla competizione – molto ben riuscita - tra pari e in cui, quando si prova a rivendicare i tipici diritti inalienabili dei lavoratori, ci si sente rispondere, a ragione (eh! Sì, proprio così: a ragione!) picche. Perché un operatore telefonico è burocraticamente assimilabile ad un lavoratore autonomo. Eppure, sebbene il contratto a progetto, il tipico contratto da telefonista, implichi l’autoregolamentazione e, sostanzialmente, un comportamento da “libero professionista” che deve mirare a tutelare al meglio il proprio personale equilibrio di costi (in termini di tempo impiegato) e benefici (in termini di guadagno), ciò che si richiede all’operatore è il bene dell’azienda, la produzione a tutti i costi, orari di lavoro fissi, in una parola: dipendenza. La fedeltà a questi regolamenti interni e non scritti è ottenuta tramite l’invenzione di quel meraviglioso ultimo ritrovato della psicologia dello sfruttamento consenziente delle risorse umane, che si chiama premio di produzione o “incentivo”.

Eppure, l’azienda non ha alternative.

Da parte dell’azienda si tratta, in realtà, di richieste normalissime, perché l’utilizzo del contratto a progetto non rispecchia, come dovrebbe essere in teoria, la necessità di avere personale flessibile, autoregolamentato ed autonomo per il buon esito di un progetto comune concordato tra azienda e operatore, ma l’impossibilità di assumere in altro modo gli operatori, pena il tracollo dell’azienda stessa.

Il ricatto che, implicitamente, ogni operatore telefonico subisce all’atto della sottoscrizione del contratto, accettando di risultare sulla carta un libero professionista – e quindi di non avere tutele, o avere tutele parziali da parte dell’azienda in cambio di una totale autonomia e flessibilità di modalità, orari e possibilità di conciliare eventuali altre attività – per un lavoro di dipendenza, che, se non fosse per questo contratto anomalo e compromettente, nemmeno esisterebbe.

Nella pratica, ciò che rende il lavoro dell’operatore telefonico un rapporto di dipendenza nei confronti dell’azienda è legato al vincolo della “postazione”.

Se il contratto prevede che le telefonate siano fatte dall’ufficio, dovrebbe evidenziarsi in modo matematico che, se un’azienda ha 60 postazioni telefoniche e 120 collaboratori, i 120 collaboratori devono necessariamente avere degli orari, per potersi garantire la possibilità di lavorare in maniera continuativa e portare avanti il progetto. Nel caso in cui il collaboratore perda un giorno di lavoro, gli sarà molto difficile poterlo recuperare facendo gli “straordinari liberi”, come un qualsiasi libero professionista fa abitualmente, a propria discrezione, perché troverà la postazione occupata. Nel caso in cui il collaboratore perda un giorno o più giorni di lavoro per malattia, motivi familiari, incidenti, imprevisti e varie, perde, quindi, anche uno o più giorni di retribuzione che non avrà modo di autorisarcirsi.

Inoltre, l’eventualità prevista implicitamente dal contratto, di portare avanti altri lavori ugualmente elastici, viene in concreto annullata dalla suddetta mancanza di flessibilità e di elasticità da parte dell’azienda e, nel caso in cui ci si assenti per vari giorni dalla propria postazione, si viene penalizzati, non soltanto a causa della mancata retribuzione della giornata, ma anche e soprattutto a causa del mancato raggiungimento dei cosiddetti “obiettivi” e dal mancato ottenimento dei premi produzione, massima finalità di ogni operatore coscienzioso, che non può certo campare con un fisso di 500 euro al mese o giù di lì.Ammesso e non concesso che ce l’abbia!

Infatti in molti call center non è neanche previsto un fisso.

E lo stesso discorso vale, oltre che per gli operatori di call center, per tutti quei lavoratori che attorno ai call center gravitano: intendo le figure dei Consulenti/ Agenti/Funzionari di Vendita, che svolgono la loro “attività” a progetto fuori dell’azienda, su appuntamenti presi dagli operatori telefonici, e quando gli appuntamenti non ci sono, per raggiungere l’obiettivo, guadagnarsi cioè i gettoni provvigionali ( ossia la “pagnotta” ), sono costretti ad andare in giro, porta a porta, a cercarsi nuovi clienti, senza un rimborso spese, senza un guadagno certo mensile, senza sapere se quel giorno guadagneranno, o avranno non solo non guadagnato ma addirittura rimesso soldi, e tempo!

Ma ogni mese si mangia, si devono pagare luce, gas, acqua. Se poi si ha famiglia, e figli, come si puo’ riuscire a pagare centinaia di euro in libri, o migliaia di euro per tasse universitarie? E, per i “vizi”, e con essi non intendo una “prostituta” in un bell’hotel romano, con feste annaffiate da champagne e polvere bianca, ma un cinema o una pizza, neanche a parlarne.

Il lavoratore precario, si trova dunque, a ben vedere, in una condizione notevolmente sfavorevole rispetto a quella che fu dei nostri avi proletari, ai quali borghesi e intellettuali si preoccuparono di definire un ruolo e diritti e doveri precisi che, nel mondo di oggi, non solo vengono negati dall’esterno, ma vengono a negarsi anche e soprattutto dall’interno, dovendo fare, più o meno coscientemente, i conti con la condizione finanziaria dell’azienda, con il suo fatturato annuo e con il businnes plan, in cui prevedere di raddoppiare le uscite con eventuali assunzioni a tempo determinato o indeterminato, anche solo per una parte degli operatori, comporterebbe il suicidio economico collettivo.

Da parte di chi amministra il paese, ci sarebbe bisogno di una riflessione politica a partire dal reale, che permetta di concepire contratti di lavoro più fedeli alla realtà e alla concreta condizione del lavoratore precario, che, nella maggior parte dei casi, non è flessibile per propria scelta e non ritrova mai, in questa flessibilità, gli stessi benefici di un lavoratore autonomo. Contratti che, dall’altra parte, tengano conto della concreta condizione delle aziende che garantiscono questo tipo di occupazione. Sebbene ne faremmo tutti volentieri a meno, queste aziende devono essere anch’esse tutelate, affinché chi non riesce ad inserirsi stabilmente nel mondo del lavoro, per sovraffollamento e cattiva gestione statale, regionale e provinciale di finanziamenti, incentivi e vaucer, abbia almeno questa pseudo-chance di sopravvivere alla giornata.

L’assurdo è che una categoria di veri e propri diseredati, sempre più vasta e variegata, continui a concepirsi non come “precariato”, ma in rapporto ad una condizione futura sognata, più che progettata e programmata, ed a comportarsi come se si fosse un po’ tutti ricchi, nobili e privilegiati, nell’antitetica esibizione di marchi, loghi e attuali simboli di un benessere appena sfiorato e sempre traballante.

E è questo che, più di ogni altra cosa, induce alla riflessione e a ripensare lo stesso concetto di sinistra che si trova a rappresentare (lontanamente e male) una moltitudine inconsapevole, che vive nella costante illusione di poter essere o diventare qualcos’altro e ragiona non in base alle proprie necessità reali, ma in base ai sogni che coltiva.

Se non esiste una base da rappresentare e tutelare, o meglio se la base non è cosciente della propria condizione di debolezza, quale dovrebbe mai essere oggi il compito di una sinistra, che voglia essere concretamente una sinistra?

Letizia Tassinari

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