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Risorgete Partigiani greci

Risorgete Partigiani greci

(25 Febbraio 2012) Enzo Apicella

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    (Capitale e lavoro)

    Il nuovo ccnl poste è un passo avanti nella gestione autoritaria dell’azienda

    Fatto con il benestare e la collaborazione fattiva dei sindacati firmatari

    (31 Agosto 2007)

    Il capitalismo, anche nella sua fase di senescenza - qual è quella che attualmente sta attraversando -, continua ad essere feroce e aggressivo. Come un vecchio arteriosclerotico, è sempre più privo di lucidità e violento. Più la crescita dei profitti diventa problematica (a causa delle contraddizioni interne del sistema economico) e più le classi dominanti stringono il torchio che schiaccia le classi lavoratrici. Così facendo, spesso, l’aumento dei profitti raggiunge livelli da record. Lo sfruttamento e la sopraffazione sembrano essere per le classi dominanti un pozzo senza fondo a cui attingono senza soste.

    Anche il nuovo contratto di lavoro di Poste Italiane, nel suo piccolo (relativamente non tanto piccolo), si pone in tale ottica. Il contratto inizia con una “Dichiarazione programmatica congiunta”, dalla quale si deduce abbastanza facilmente che “le Parti” hanno tra l’altro il proposito di creare una coalizione o un cartello di imprese postali, al fine di eliminare i rischi della concorrenza e della competizione, le quali com’è noto hanno il potere di complicare la vita di chi dirige le imprese e di rallentare la crescita dei profitti. L’idea tanto sbandierata della “costruzione di un contratto di settore” (un Ccnl unico per tutti i dipendenti delle imprese che operano nei servizi postali, appartenenti e non al Gruppo Poste Italiane) va evidentemente in tale direzione. Nella Dichiarazione programmatica quest’obiettivo è ripetuto ben due volte. La prima volta al punto IV:

    “Alla luce delle nuove prospettive di scenario [...] le Parti ritengono il presente contratto propedeutico all’adozione di un sistema unificato di regole normative ed economiche che consenta di giungere [...] alla costruzione di un contratto di settore che riguardi le imprese che operano nel mercato postale [...]”.

    E la seconda volta al punto VI:

    “[...] le Parti auspicano che, nelle opportune sedi confederali, siano avviati i lavori per la realizzazione del contratto di settore a decorrere dal 2010 [...]”.

    Un contratto di settore è sicuramente uno dei presupposti fondamentali per la formazione di un cartello di imprese postali.

    Ci sono poi dei passaggi nella predetta Dichiarazione programmatica dai quali traspare una duplice intenzione di Poste Italiane, peraltro contraddittoria: creare un cartello e avere il predominio nel mercato interno. Al punto I si legge:

    “L’evoluzione strutturale in atto nel sistema postale italiano ed europeo [...] lo sviluppo della concorrenza ed i mutamenti che caratterizzano i mercati di riferimento richiedono, alle imprese che operano nel settore, azioni di riposizionamento strategico che si realizzano anche attraverso la ridefinizione delle aree di affari e delle relative condizioni di lavoro nonché attraverso la definizione di nuove regole per il settore.”

    Al punto II:

    “[...] le Parti intendono valorizzare il ruolo dell’attuale CCNL [...] stimolando la ricerca e la creazione di nuove opportunità anche attraverso possibili sinergie [...] finalizzate a mantenere e consolidare la leadership nel mercato interno.”

    Al punto IV:

    “Alla luce delle nuove prospettive di scenario [...] le Parti ritengono il presente contratto propedeutico all’adozione di un sistema unificato di regole normative ed economiche [...]” al quale faranno riferimento “le imprese che operano nel mercato postale, in tutte le sue attuali articolazioni e possibili evoluzioni di carattere tecnologico e commerciale, con particolare riguardo allo sviluppo del portafoglio prodotti e dei canali distributivi.”

    Al punto V infine “le Parti” auspicano contemporaneamente sia la liberalizzazione che la regolamentazione del settore e attribuiscono un ruolo di primo piano, in quest’opera di conciliazione tra la botte piena e la moglie ubriaca, al tavolo di concertazione istituito presso una cosiddetta “Autorità di regolamentazione”. Eravamo abituati a prestigiatori che tiravano fuori dal cappello (lo stesso cappello da cui escono fuori conigli e colombe) ora il liberismo ora lo statalismo secondo le circostanze e secondo l’ideologia più a loro conveniente in quel momento. Ma non li avevamo mai visti applicare insieme le due opposte concezioni in un passo di poche righe. Il testo è il seguente:

    “Le Parti reputano inoltre che il settore postale presenta caratteristiche peculiari, cui deve essere attribuito il giusto rilievo nella ricerca di una complessiva regolamentazione, compatibile con le esigenze dei lavoratori e delle imprese che vi operano.”

    “Ritengono pertanto indispensabile valorizzare, nell’arco di vigenza del presente contratto, il ruolo del tavolo di concertazione già avviato presso l’Autorità di regolamentazione al fine di definire un quadro normativo di riferimento teso sia a favorire la liberalizzazione del settore, che a garantirne il recepimento da parte di tutti gli operatori.”

    E intanto l’Autorità Antitrust il 3 agosto 2007 ha avviato un’istruttoria nei confronti di Poste Italiane, che proseguirà fino al 31 maggio 2008, per abuso di posizione dominante nei mercati dei servizi liberalizzati e di quelli di prossima liberalizzazione.

    Alla Dichiarazione programmatica congiunta segue la Premessa, nella quale viene richiamato più volte il Protocollo d’Intesa del 23 luglio 1993, testo sacro dei fautori della concertazione. Quella concertazione che altro non è se non il completo assoggettamento dei rappresentanti dei lavoratori (e purtroppo, di conseguenza, anche dei lavoratori stessi) al volere dei padroni. Già nelle prime righe della Premessa si legge che “Le Parti stipulanti confermano i principi e gli indirizzi contenuti nei Protocolli d’Intesa del 23 luglio 1993 e del 22 dicembre 1998, e riaffermano il ruolo centrale della concertazione attraverso la quale concretizzare, fermi restando i diversi ruoli e le rispettive responsabilità, l’impegno ad assicurare l’attuazione piena e tempestiva degli obiettivi di sviluppo di cui alla Dichiarazione Programmatica.”

    Segue una serie di concetti definiti “valori fondanti”, condivisi senza battere ciglio da coloro che dovrebbero rappresentare i lavoratori. Si tratta in sostanza di una serie di genuflessioni - poco dignitose per chi dovrebbe difendere gl’interessi della parte più debole - all’Azienda e ai suoi dirigenti, al “Sistema Paese”, allo sviluppo, agli obiettivi di crescita ecc.; in poche parole un omaggio al profitto e un solenne riconoscimento dei privilegi di chi comanda. Nella Premessa i sindacati firmatari s’impegnano, in sostanza e in parole povere, a far accettare ai propri iscritti qualsiasi condizione peggiorativa e a stroncare sul nascere e addirittura a prevenire eventuali conflitti o azioni di lotta spontanee o guidate da agitatori che non condividano i “valori supremi”. L’Azienda vuole avere carta bianca nella gestione del personale e i sindacati non devono mettere i bastoni tra le ruote. L’Azienda s’impegna a tenere informate le Oo.ss. firmatarie di qualsiasi decisione e ciò deve bastare. Questo e non altro è il significato di concetti come:

    “la consapevolezza che il perseguimento degli obiettivi di crescita dell’Azienda siano garantiti da un sistema di Relazioni Industriali orientato alla prevenzione ed al superamento dei possibili motivi di conflitto, assumendo il consenso e la partecipazione quali obiettivi qualificanti da perseguire ai diversi livelli”;

    “una gestione moderna e flessibile dei rapporti di lavoro”;

    “la crescita ed il miglioramento della qualità dei rapporti tra le parti”;

    “un modello di crescita che coniughi la tutela dell’occupazione con il relativo sviluppo sostenibile”;

    “le Parti auspicano che tale dibattito [il dibattito sulle possibili linee di evoluzione del sistema delle Relazioni Industriali. In un linguaggio non mistificante, tale dibattito non è altro che la ricerca del modo più idoneo per legare sempre più i sindacati firmatari al supremo interesse dell’Azienda e del profitto e lasciare sempre più mano libera ai dirigenti, nda] tenga conto delle istanze di rinnovamento che interessano il mondo produttivo”.

    Una vera e propria perla conclude la Premessa. “le Parti” desiderano avere ancora una volta l’appoggio delle istituzioni per promuovere la tanto agognata evoluzione delle Relazioni Industriali, specialmente nelle aziende di servizi. I padroni (e i sindacalisti loro sostenitori) sono degli strani camaleonti: in questo caso sono dei convinti e strenui statalisti. Quando invece si pone la questione di come tutelare i diritti dei lavoratori e l’occupazione, allora sono ultraliberisti. La Premessa si chiude con il seguente proposito:

    “[...le Parti] concordano sull’utilità di promuovere iniziative volte a sensibilizzare gli attori istituzionali e sociali sui temi dell’evoluzione del sistema di Relazioni Industriali con particolare riferimento al mondo delle aziende di servizi.”

    La successiva sezione del contratto entra nel vivo della questione e stabilisce con precisione scientifica come attuare concretamente “gli ideali” esposti nella Dichiarazione e nella Premessa. Ideali tra i quali figurano – come abbiamo visto - la realizzazione di una gestione sempre più autoritaria dell’Azienda, un maggior assoggettamento dei sindacati al volere e ai capricci della dirigenza, l’appoggio ancor più incondizionato del governo - magari attraverso opportune normative – ad ogni delirio di onnipotenza che la mente diabolica di persone dalle ambizioni ipertrofiche riesca a partorire. Il capitolo s’intitola infatti “Disciplina del sistema di relazioni industriali”. “Le Parti” ribadiscono innanzitutto la necessità di stabilire delle regole, al fine di mantenere sempre più facilmente sotto il giogo i lavoratori, di immolarli anche senza il loro consenso al valore supremo dell’efficienza e della “competitività internazionale”, cioè di sacrificarli sull’altare del profitto e di consacrarli alla difesa e all’incremento dei privilegi di una ristretta minoranza. Questo è il significato delle seguenti parole d’ordine contenute nell’art.1:

    “[..] un insieme organico ed articolato di regole certe e condivise, fattivamente orientato alla prevenzione e al superamento dei possibili motivi di conflitto [...]”;

    “[...] assumere il consenso quale obiettivo ed elemento qualificante da perseguire ai diversi livelli [...]”

    “un sistema complessivo di Relazioni Industriali [...] che si articoli attraverso specifici momenti di informazione, consultazione, contrattazione e partecipazione.”;

    “[...] la diffusione sempre più ampia e generalizzata degli obiettivi d’impresa, riguardanti in particolare i mutamenti e l’evoluzione dei nuovi contesti di mercato e del lavoro, in una logica di efficienza e competitività internazionale.”


    Nella parte successiva del capitolo, vengono definite rigorosamente le regole per lo svolgimento delle trattative tra l’Azienda e le Organizzazioni Sindacali stipulanti. Più volte è richiamato l’Accordo del 23 luglio 1993, vera pietra miliare nel cammino verso la realizzazione di una coalizione tra governo, padronato e sindacati concertativi, volto a ridurre all’impotenza, al completo asservimento e ad ingannare con accuratezza scientifica la classe lavoratrice. In quell’accordo le parti stipulanti, con vantaggi reciproci, si unirono in un abbraccio osceno e si fusero in un’unica entità indistinta.

    Grande rilievo è dato alla contrattazione di secondo livello, perché evidentemente quest’ultima consente, da parte del fronte comune formato da Azienda e sindacati stipulanti, un controllo più capillare sulle situazioni che possono incidere sugli interessi primari dell’Azienda stessa. Si legge infatti all’art.2:

    “Le Parti stipulanti, nel confermare la centralità della contrattazione di secondo livello, [...] s’impegnano affinché le richieste nella sede di contrattazione di secondo livello [...] siano conformi ai rinvii stabiliti a livello nazionale.”

    La procedura per lo svolgimento delle trattative è stata studiata in modo tale da far prevalere la volontà dell’Azienda. I negoziati hanno una durata prestabilita. Non sono ammesse iniziative di lotta durante i negoziati stessi. Nel caso in cui non venga raggiunto un accordo (ipotesi poco probabile, visto che finora i sindacati stipulanti hanno sempre firmato tutto, senza battere ciglio e senza badare alle conseguenze negative per i lavoratori), l’Azienda può ugualmente mettere in atto le proprie decisioni. Ad esempio, in caso di “riorganizzazione e/o ristrutturazione e/o trasformazione aziendale” con conseguenti “processi di mobilità collettiva”, l’art.2 del contratto prevede che:

    “L’Azienda fornirà alle OO.SS. nazionali stipulanti il presente CCNL, una informazione preventiva, con indicazione contestuale della data dell’avvio del confronto [...].Detto confronto negoziale si esaurirà entro e non oltre i 12 giorni lavorativi, comprensivi del sabato, successivi alla data fissata dall’Azienda per il primo incontro, durante i quali l’Azienda non darà luogo all’attuazione dei progetti previsti e le OO.SS. si asterranno da ogni azione diretta.” Se il predetto confronto non avrà esito positivo “le Parti assumeranno le proprie autonome determinazioni [...].”

    Sembra poco probabile che un negoziato non abbia un esito positivo, ma qualora tale ipotesi si verificasse, è prevedibile che i sindacati firmatari non faranno nulla di determinante per fermare l’Azienda prima che essa metta in atto le proprie decisioni.

    Il contratto prevede procedure analoghe per tutti i temi che siano oggetto di negoziati e per tutti i livelli di contrattazione. Sembra che i rappresentanti aziendali abbiano solo il dovere di informare le Oo.ss. firmatarie riguardo ai progetti che l’Azienda ha intenzione di attuare, dopodiché i progetti stessi devono essere realizzati senza che alcuno ne ostacoli l’esecuzione. S’intuisce che i dirigenti non tollerano che le proprie decisioni siano messe in discussione. Una volta fornita l’informazione in modo chiaro e completo essi si sentono sollevati da qualsiasi responsabilità sia di ordine giuridico che morale. Si sentono in regola persino sul piano umano. Poi, magari, i sindacalisti non trasferiscono tempestivamente tutta questa informazione ai loro iscritti. Gliene parlano soltanto a cose fatte. Finora è avvenuto così ed è presumibile che le volpi di turno non perderanno il vizio. A proposito dell’informazione, all’art.5 si legge:

    “In relazione a quanto previsto all’art.1 del presente CCNL le Parti, nell’assumere il consenso quale obiettivo ed elemento qualificante da perseguire a diversi livelli [consenso è un modo eufemistico per dire assoggettamento al volere di chi pretende di comandare, nda], convengono di adottare un sistema di informazione e consultazione con lo scopo di arricchire in ambito non negoziale i comuni contenuti di conoscenza.”. L’art.5 prosegue illustrando in dettaglio gli argomenti, le modalità, i tempi e i destinatari di tale informativa. Nell’espletamento di questi procedimenti gli stipulanti il contratto hanno introdotto il meccanismo del silenzio – assenso, sempre più di moda in questi ultimi tempi:

    “[...] La conclusione di detto procedimento si intende altresì positivamente realizzata in assenza della richiesta di cui sopra [la richiesta di consultazione che i sindacati possono presentare all’Azienda entro 5 giorni dal ricevimento dell’informativa, nda]”.

    Una altra parola d’ordine (oltre a “costruzione di un contratto di settore”, “regolamentazione”, “leadership”, “sviluppo”, “concertazione”, “regole certe e condivise”, “consenso”, “informazione”, “qualità del lavoro”, ecc., ecc.) lanciata congiuntamente dal gatto e dalla volpe della situazione (Azienda e Oo.ss. stipulanti) è “partecipazione”. Come al solito con una parola dal significato apparentemente positivo, si vogliono mascherare intenzioni tutt’altro che benefiche. “Partecipazione” significa, sempre in un linguaggio non mistificante, spingere i lavoratori a condividere valori che non li riguardano, farli prendere parte alla difesa di interessi che non sono loro propri. Gli oppressori vogliono che i lavoratori partecipino alla costruzione delle proprie catene. Vogliono assoggettarli al proprio volere con la persuasione, oltre che con la forza, perché quest’ultima, com’è noto, in molte circostanze non dà buoni risultati. È proprio questo il significato velato dell’art.6:

    “[...] le Parti stipulanti assumono la partecipazione [...] quale metodo per il miglioramento complessivo della qualità del lavoro e del clima interno, nonché per la condivisione degli obiettivi di sviluppo dell’Azienda e di prevenzione del conflitto.”

    “In tale contesto, le Parti convengono di consolidare e sviluppare le attività dell’Osservatorio Paritetico Nazionale, dell’Ente Bilaterale per la formazione e la riqualificazione professionale, dei Comitati per le Pari Opportunità e degli Organismi Paritetici per la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro, allo scopo di favorire la costruzione di una consapevole partecipazione dei lavoratori ai processi di cambiamento in atto sia all’interno che all’esterno dell’Azienda, nel condiviso presupposto che l’integrazione e la collaborazione sviluppino i livelli di efficacia e di efficienza aziendali e determinino un miglioramento complessivo della qualità del lavoro.”.

    La parte successiva del predetto articolo è dedicata alla descrizione degli organismi citati nel secondo comma: Osservatorio Paritetico Nazionale, Ente Bilaterale per la formazione e riqualificazione professionale, Comitato nazionale e Comitati regionali per le pari opportunità, Organismi paritetici per la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro. Se tutti questi organismi non bastassero, l’Osservatorio Paritetico può deliberare: “[...] la costituzione di un apposito organismo che, [...], abbia il compito di monitorare lo stato di realizzazione ed avanzamento dei principali progetti di sviluppo.”.

    L’esistenza di tanti organismi e la possibilità di costituirne eventualmente altri, è una mania diffusa ovunque, ma in Italia assume le caratteristiche di un’epidemia. La loro effettiva utilità sarebbe tutta da dimostrare. In genere servono ad accontentare amici e raccomandati o a premiare i fedeli di un sindacato o di un partito. Nell’ambito più vasto delle aziende pubbliche, un posto in un consiglio di amministrazione è una specie di premio o soluzione alternativa per trombati. I politici e gli amministratori, quando la loro carriera è in declino, entrano a far parte del consiglio d’amministrazione di qualche ente o azienda pubblica come Enea, Consip, Cnel, Sviluppo Italia, Sogin e, perché no, Poste Italiane. Nel CdA di Poste Italiane ci sono 11 consiglieri, anche se ne basterebbero meno. Ci sono molti “ex”: un ex parlamentare, un ex deputato, un ex assessore, un ex sindaco, ecc.. Le fortune di questi “ex” erano finite, ma il partito a cui sono fedeli ha trovato per loro un posto dove non si sentano emarginati e continuino a percepire una buona busta paga. In Azienda, analogamente, vengono creati comitati, enti bilaterali e organismi paritetici vari, il cui scopo non dichiarato è probabilmente quello di regalare agli amici periodi retribuiti di attività ricreativa fuori dal luogo di lavoro. Un accenno a parte merita il Comitato per le Pari Opportunità. Non si vuole certo ironizzare sulla causa sacrosanta della parità dei diritti tra uomo e donna, ma l’istituzione del Comitato Nazionale e dei Comitati regionali per le Pari Opportunità alle Poste, dove la stragrande maggioranza del Personale è di sesso femminile, è veramente paradossale. È come se si istituisse un Comitato per la Ricerca Scientifica al CNR.

    All’articolo successivo (l’art.7) il ruolo delle R.S.U. è stato sminuito rispetto ai contratti precedenti. Non ce ne sarebbe stato bisogno, perché in molte strutture aziendali le R.S.U. non hanno svolto attività. Nella composizione delle Delegazioni Sindacali a livello regionale, non è fissato il numero massimo dei dirigenti sindacali territoriali delle Oo.ss. firmatarie del contratto, mentre è indicato quello dei dirigenti delle R.S.U.. Ad esempio:

    “per le Regioni: E. Romagna, Veneto, Sicilia, Toscana, Campania, Piemonte, Lazio, Lombardia, [la delegazione sindacale è costituita] dalle strutture territoriali delle Organizzazioni sindacali firmatarie del CCNL [non è specificato il numero massimo di dirigenti di tali strutture, nda], unitamente ad un numero massimo di 15 dirigenti delle R.S.U. eletti nella regione interessata, di cui almeno 6 eletti in rappresentanza delle OO.SS. stipulanti il presente CCNL ed i restanti individuati proporzionalmente ai risultati elettorali conseguiti a livello regionale da ciascuna Organizzazione;”.

    È evidente l’intento di far prevalere nelle Delegazioni Sindacali le organizzazioni che sappiano come arginare l’eventuale malcontento e la protesta dei lavoratori e impedire, qualora ce ne fosse bisogno, che gruppi “non allineati” spostino il confronto con l’Azienda su un piano non concertativo.

    Il capitolo successivo parla dei diritti sindacali. È da notare come in questo capitolo ci si preoccupi di far sì che l’assemblea si svolga in modo da evitare disagi alla clientela. Viene anche precisato che l’accesso dei dirigenti sindacali nei luoghi di lavoro non deve turbare lo svolgimento del lavoro stesso. Si legge infatti all’art.9:

    “Nel pieno esercizio e nella piena attuazione del diritto di assemblea, lo svolgimento della medesima sarà teso ad evitare disagio alla clientela [...]”.

    E più avanti allo stesso articolo:

    “Negli uffici che svolgono la propria attività a contatto con il pubblico, nel caso di assemblee per una durata superiore a due ore che interessino una pluralità di Uffici ovvero Uffici a maggior traffico verrà individuato un presidio utile ad evitare disagi alla clientela.”

    “[...] i dipendenti coinvolti nel presidio potranno partecipare ad altra assemblea indetta anche in altri uffici.”


    Inoltre, all’art.14:

    “I dirigenti delle R.S.U., nonché i dirigenti nazionali e territoriali delle Organizzazioni Sindacali stipulanti il presente CCNL potranno accedere, durante l’orario di lavoro, nei luoghi in cui si svolge l’attività lavorativa nell’ambito dell’Unità Produttiva, nel rispetto di modalità che non pregiudichino l’ordinario svolgimento del lavoro, avuto riguardo alle caratteristiche organizzative della Società stessa.”.

    L’Azienda e i sindacati che la spalleggiano si preoccupano dei disagi che le assemblee dei lavoratori potrebbero procurare alla clientela e manifestano anche una notevole apprensione per le “modalità” con cui i dirigenti sindacali potrebbero accedere ai luoghi dove si svolge l’attività lavorativa, perché ciò potrebbe pregiudicare “l’ordinario svolgimento del lavoro”. Se questi signori fossero coerenti, allora si preoccuperebbero anche del disagio procurato alla clientela dalle code interminabili e dalle attese lunghissime agli sportelli, dalle apparecchiature lente e spesso difettose, dalle procedure informatiche e manuali lunghe e contorte, dalle normative incoerenti, dai mezzi inadeguati alla mole e al tipo di lavoro, ecc.. Così come si dovrebbero preoccupare del pregiudizio recato dalle medesime cause all’ordinario svolgimento del lavoro. Ma costoro sono interessati soprattutto al proprio potere e ai propri privilegi e benefici economici. Per loro l’Azienda va bene - e tutto va bene -, quando i loro tre parametri preferiti (potere, privilegi e benefici economici) sono in crescita.

    Il successivo capitolo del contratto è dedicato alla disciplina del rapporto di lavoro. Dati i tempi che corrono, in questo capitolo è dato ampio spazio al lavoro a tempo determinato, cioè al lavoro precario. È un argomento che necessiterebbe di una trattazione a parte, più approfondita di quanto sia possibile nel presente articolo. Qui è sufficiente dire che il lavoro precario rientra in quel complesso di misure adottate dal padronato per compensare la tendenziale riduzione dei profitti, dovuta alle contraddizioni intime del sistema capitalistico. Luciano Gallino, Professore emerito di Sociologia all’Università di Torino, spiega molto bene il fenomeno del lavoro precario nel suo libro Italia in frantumi:

    “Ora accade che da diversi anni nella maggior parte delle regioni italiane due terzi, in media, di coloro che cercano un lavoro alle dipendenze di un’impresa o di un ente della pubblica amministrazione lo trovano soltanto se accettano un contratto che non soltanto è di durata determinata, ma è sovente di durata breve, da pochi giorni ad alcuni mesi. [...] Tranne una minoranza [...] nessuno gradisce i contratti di pochi mesi o meno. Ma viene loro spiegato che la globalizzazione, e le sfide alla competitività che da essa provengono, esigono lavoratori flessibili, nel senso che debbono sapersi adattare alle esigenze delle imprese e dei loro mercati. Questi sono diventati imprevedibili: dunque le imprese debbono essere poste in condizione di prevedere con certezza che se la domanda sale esse possono assumere lavoratori senza paventare di doverli poi tenere a lungo sul libro paga, mentre se la medesima scende sono autorizzate a mandarli a casa nel giro di giorni o settimane. È questa la preminente funzione economica dei contratti di durata determinata, [...]. Negli articoli qui raccolti ho ricordato alcuni dei costi che essa [la precarietà] impone agli individui e alle famiglie. [...]. Tra simili costi spicca la difficoltà di progettarsi una vita, perché un lavoro perennemente instabile non si addice a rapporti sociali stabili, né all’aver figli o al comprar casa. Ma anche la violazione di tutte le sicurezze che secondo la pur moderata Organizzazione sociale del Lavoro definiscono il lavoro decente, a cominciare dalla sicurezza dell’occupazione, del reddito, della formazione professionale. La prolungata permanenza dei figli in famiglia, ultimo baluardo della sicurezza, sin quasi alla mezza età. Nonché il rischio di ricevere una pensione miseranda, causa la forzata scarsità dei contributi che si sono versati a un ente previdenziale o a un fondo pensione.”

    Una novità di questo contratto – volta anch’essa a rendere i lavoratori più flessibili – è la possibilità che l’Azienda ha d’introdurre, nei casi in cui sussistano particolari esigenze “tecniche” o “organizzative”, un orario “multiperiodale”. Al lavoratore può essere chiesto di effettuare un orario che va da un massimo di 9 ore giornaliere e 42 settimanali ad un minimo di 4 ore giornaliere e 30 settimanali. La durata media dell’orario di lavoro effettuato dal lavoratore nell’arco di quattro mesi deve essere pari a quella prevista dall’art.31 del Ccnl (36 ore settimanali). Anche questa norma, insieme a tante altre vecchie e nuove, sta a significare che le esigenze dell’Azienda vengono messe al primo posto, mentre quelle dei lavoratori passano in second’ordine o addirittura non contano nulla.

    Altra novità di questo contratto: 2 dei giorni di ferie complessivamente spettanti sono stati trasformati in ore di permesso retribuito. Le ore di permesso non fruite entro l’anno saranno liquidate entro il mese di marzo dell’anno successivo. Finora la monetizzazione delle ferie – esclusi alcuni casi particolari - era vietata. Con questo artificio, invece, 2 giorni di ferie possono essere monetizzati.

    Il resto della parte normativa non presenta novità di rilievo rispetto ai precedenti contratti e ogni dipendente ne conosce più o meno in dettaglio il contenuto. La parte economica del Ccnl, poi, non ha bisogno di commenti, poiché le cifre parlano da sé. C’è da osservare comunque che per la prima volta la predetta parte economica ha una durata triennale, mentre in tutti i contratti precedenti era biennale. Anche il tanto citato Protocollo d’intesa del 23 luglio 1993 stabiliva che (parole testuali): “Il CCNL ha durata quadriennale per la materia normativa e biennale per la materia retributiva.”.

    A conclusione di quest’analisi si può affermare che i rapporti di forza tra capitale e lavoro sono già da molti anni sempre più sfavorevoli nei confronti del lavoro stesso. Il contenuto del nuovo contratto per i dipendenti di Poste Italiane è uno dei tanti segnali di tale disfatta. La ripresa della lotta per la difesa effettiva dei diritti della classe lavoratrice e per la sua emancipazione, può passare solamente attraverso la separazione dei lavoratori stessi da quei sindacati che li tengono imbrigliati agl’interessi del padronato. Negli anni futuri le sorti dei lavoratori potranno migliorare nella misura in cui rifiuteranno di farsi rappresentare dai predetti sindacati e si organizzeranno scegliendo altre strade.

    Alessandro Carresi

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    Commenti (1)

    trimestrale 2001

    tante persone anno vinto con l'articolo 25 sul contratto a tempo determinato con poste italiane. io o avuto il riggetto in appello c'e' sul mio contratto l'articolo 25 ;c'e' un secondo grado di appello?,tutti mi dicono che in cassazione o L'80%di perdita.o ci potrebbe essere una nuova graduatoria o comunque un accordo per inserirmi con qualche possibilita' di riuscita. grazie.

    (12 Aprile 2010)

    calabrese caterina

    calabrese_katia@libero.it

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