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Viterbo: nel Giorno del Ricordo ci si è scordati di tutto

(17 Febbraio 2007)

Siamo sconcertati dal tenore delle celebrazioni dell'appena trascorso Giorno del Ricordo, sconcertati dalla follia che ha preso l'Italia intera coinvolgendo anche le alte cariche della sinistra che non hanno lesinato ad unirsi al coro strumentale "anti-antifascista" (come si usa dire oggi) della destra. Sconcertati dalle reazioni suscitate dalle fondatissime accuse del presidente croato Stjepan Mesic (e anche di larghi strati dell'opinione pubblica croata e slovena, nonché degli italiani della Dieta Democratica Istriana), il quale ha semplicemente ricordato al suo omologo italiano di aver omesso che le foibe titine furono la reazione alla politica di sterminio attuata nei Balcani dal nazifascismo.

Innanzitutto va sottolineato che il Giorno del Ricordo, istituito con la legge n° 92 del 30 marzo 2004, proprio mentre sono al governo gli ex MSI (partito erede dell'esperienza fascista) è la risposta alla Giornata della Memoria del 27 gennaio, nata per ricordare i sei milioni di ebrei sterminati dal nazismo in alleanza con l'Italia fascista. È quindi frutto dell'ormai purtroppo consolidato mercimonio della memoria storica, espletato non da storici e ricercatori ma da politici avvezzi perlopiù a criteri di lottizzazione, ai quali rispondono anche laddove si tratta di questioni delicate e complesse come quella del confine orientale italiano, sulla quale - a quanto pare - sanno poco o nulla.

Per contestualizzare, occorre innanzitutto far presente che il fascismo non divenne razzista e xenofobo a causa delle cattive compagnie ma lo fu sin dalla sua fondazione. Difatti, se nel resto del paese lo squadrismo nero aveva come obiettivo le sedi operaie e le sezioni dei partiti proletari, a ridosso dei confini orientali si rivolgeva anche contro le istituzioni culturali slave, con le stesse modalità che conosciamo per le Camere del Lavoro: devastazione degli interni e rogo delle suppellettili e del materiale cartaceo in strada, ai quali si accompagnava il pestaggio di quei cittadini che non volevano o non sapevano parlare italiano. Pulizia etnica e annichilimento delle minoranze slave, ma anche germanofone (le uniche due relativamente consistenti nel paese), furono fra i principali obiettivi del progetto mussoliniano. Per verificare ciò basta dare un'occhiata ai fascicoli degli antifascisti nel Casellario Politico Centrale (pubblicati dall'ANPPIA), per notare il numero impressionante di cognomi, soprattutto slavi, di condannati od inquisiti dal Tribunale Speciale per aver parlato la lingua madre o per aver inneggiato all'indipendenza della propria terra.

Durante tutto il ventennio, il regime prese provvedimenti rigorosissimi in questo senso con: obbligatorietà dell'italiano, italianizzazione dei cognomi e deportazione di massa. Non lo si vuole ricordare, ma il nostro paese è stato disseminato da campi di concentramento destinati alle popolazioni slave e, in genere, a quelle colonizzate.

Questa politica trova il suo apice nell'invasione dei Balcani, frutto dell'opportunismo fascista: si voleva entrare in guerra al fianco della Germania di Hitler, tenendo contemporaneamente una porta aperta alle potenze dell'Intesa, in vista d'una possibile funzione mediatrice; e per questo veniva ingaggiata una guerra parallela su fronti alternativi a quelli tedeschi. Quando, 10 giugno 1940, la dichiarazione di guerra viene inoltrata agli ambasciatori, non vi sono risorse e armamenti sufficienti per sostenere un conflitto, e si pensa quindi alle "deboli" nazioni vicine come il regno di Jugoslavia che, proprio come era successo per l'Albania, avrebbero capitolato senza batter ciglio. Le cose andranno diversamente: il Regio Esercito dimostrerà ben presto le sue crepe, chiamando i tedeschi sul fronte balcanico.

Hitler considerava gli slavi come facenti parte di una razza inferiore, appena un gradino sopra gli ebrei, affetta dal germe del comunismo: una popolazione da schiavizzare a vantaggio della grandezza germanica. Dello stesso parere l'ispiratore del fuhrer, Mussolini, che consigliava ai soldati italiani in Jugoslavia di dimenticarsi di essere padri di famiglia. Da queste concezioni nasce l'appellativo di "slavo-comunista", e per la sottomissione degli "slavo-comunisti" era lecito qualsiasi espediente, anche il più riprovevole. Difatti l'occupazione della Jugoslavia da parte dei "tedesco-nazisti" (per usare un linguaggio consono) e degli "italo-fascisti", con l'ausilio degli "slavo-collaborazionisti", è stata contrassegnata dal terrore, dalle deportazioni di massa, dai campi di concentramento ove venivano internati ed eliminati ebrei, zingari, serbi e antifascisti, nonché dalla devastazione di villaggi, con conseguenti incendi, saccheggi e inaudite violenze contro i civili. Si distinguono in particolare i reparti delle camicie nere dell'esercito italiano, in un paese aggredito che non aveva mosso guerra o minacce contro alcuno.

Con diverse sfumature, combattono al fianco degli occupanti gli ustascia croati, più fedeli al Vaticano che all'Italia, impegnati nella cattolicizzazione dei Balcani, per la quale effettuano le macabre conversioni di massa: cristiano-ortodossi prigionieri vengono fatti inginocchiare e obbligati al battesimo, pena la morte. Queste operazioni trovano la benedizione di Stepinac, arcivescovo di Zagabria, proclamato beato come martire della cristianità (!) da Giovanni Paolo II nel giubileo 2000, perché finita la guerra verrà condannato dai tribunali jugoslavi a 19 anni di lavori forzati. Oltre agli ustascia ci sono anche le SS locali che rispondono direttamente ad Hitler, come quelle bosniache (note come SS mussulmane) e altre forze minori. I Cetnik, i monarco-nazionalisti serbi, giocano invece un ruolo ambiguo: sostengono il regno di Jugoslavia che vogliono "serbizzare" ma nello stesso tempo, poiché visceralmente anticomunisti, contro il comunismo finiranno per schierarsi. Tutte queste milizie collaborazioniste intendevano utilizzare l'occupazione al fine di sottomettere le etnie vicine o fare pulizia al loro interno. Dall'altra parte della barricata la Resistenza dell'EPLJ (Esercito Popolare di Liberazione Jugoslavo), capeggiato dal maresciallo Tito. È un esercito aconfessionale e multietnico che ha lo scopo di riunire tutte le popolazioni slave del sud (letteralmente: jugoslave) contro l'invasore fascista. È una resistenza massiccia e determinata che avanza inesorabilmente da sud verso nord. Per quanto riguarda gli italiani fatti prigionieri, la prassi in genere è questa: coi soldati semplici viene fatta opera di persuasione con la richiesta di entrare nella Resistenza, mentre non c'è scampo per le camicie nere, malmenate e anche uccise. Dopo l'armistizio dell'8 settembre '43 molti soldati del Regio Esercito si uniscono alla Resistenza jugoslava; in molti entrano proprio nell'EPLJ, accolti a braccia aperte come fratelli.

Questo conflitto è caratterizzato per l'utilizzo delle foibe (o foive), cavità carsiche naturali che le popolazioni del posto hanno utilizzato da sempre come discariche e che nella seconda guerra mondiale vengono adoperate per buttarvi materiale bellico, carcasse di animali, cadaveri dei bombardamenti alleati e tedeschi uccisi (onde evitare diffusioni di epidemie e rappresaglie) ecc. Ma il loro utilizzo a fini di genocidio viene inaugurato dal fronte nazifascista per eliminare gli "slavo-comunisti".

Quando la guerra finisce, e l'Italia - è bene ricordarlo - è un paese aggressore sconfitto, sono tanti gli odii accumulati: come si può oggi pretendere che quella tragedia passasse invano? Così le popolazioni inferocite da ciò che avevano subito o visto, non esitano a ricorrere anche alla giustizia sommaria, rivolgendosi prevalentemente contro fascisti, nazisti, collaborazionisti slavi (e questo smentisce l'ipotesi della pulizia etnica) ed ex "tutori dell'ordine" come carabinieri e secondini, ma anche persone innocenti, che finiscono gettati nelle cavità carsiche. Vengono per questi, come in ogni guerra (le guerre, in linea di massima, bisognerebbe non farle!), istituiti anche campi di concentramento, ove si vive in condizioni terribili, le stesse che si vivono all'esterno, in un territorio dove gli occupanti avevano distrutto tutte le infrastrutture. Finiscono per essere uccisi anche dei "partigiani" perché in alcuni casi settori monarchici e conservatori della Resistenza italiana che operavano al confine orientale, finirono per unirsi in funzione antislava alla X MAS e alle SS tedesche. È stato questo un aspetto che ha fortemente segnato, ad es., il CLN triestino; ed è per questo che anche in alcuni "siti partigiani" su internet si può incappare in contenuti che non hanno nulla da invidiare al revisionismo strumentale "anti-antifascista".

Si era inoltre formata in Istria e Dalmazia una borghesia, più o meno possidente, di italiani favoriti dalla pulizia etnica che venivano espropriati dalla socializzazione del nuovo governo jugoslavo e costretti all'esilio: questi vengono accolti in Italia con tutti gli onori, con lo status di profughi politici, senza che venisse mai loro imposta alcuna forma di silenzio od oblio, cosa che oggi si vuol far credere.

Passato il conflitto le organizzazioni neofasciste che operano a ridosso del confine orientale iniziano una campagna antislava, finalizzata alla "liberazione degli italiani dal giogo titino": una battaglia a dir poco ridicola, poiché gli italiani che vivono nella federazione jugoslava si vedono, al pari di tutte le altre componenti etniche, riconosciuti tutti i diritti linguistici e culturali. I guai per loro inizieranno con la dissoluzione della Jugoslavia. Parimenti a ciò vengono diffuse pubblicazioni nelle quali si sparano cifre a dir poco fantasiose sulle "migliaia di italiani infoibati, con la sola colpa di essere tali, dagli slavo-comunisti".

Attenzione: non si tratta di inoppugnabile documentazione storiografica ma di libelli vergati da scrittori o giornalisti politicamente orientati che si basano su voci e sul sentito dire, quando non sulla propaganda nazifascista del periodo bellico. È stato così per decenni.

La questione foibe viene recuperata durante l'ondata anticomunista degli anni '90, a seguito dello sdoganamento degli ex missini. Nessuno finora ha saputo fornire dati certi sul numero degli infoibati dalla Resistenza, né - cosa tutt'altro che trascurabile - sulla loro identità. Si è arrivati quindi all'istituzione del Giorno del Ricordo: alla "foiba" di Basovizza (in realtà una miniera abbandonata) che fa da contraltare ad Auschwitz.

Si aggiunga a ciò che i criminali "italo-fascisti" non sono stati mai processati nel nostro paese per le loro responsabilità nell'occupazione dei Balcani, sulla quale ha sempre gravato una cappa di censura che si estende a tutte le altre avventure coloniali sabaude e fasciste: è ormai celebre il caso di Fascist Legacy, il film a riguardo prodotto dalla BBC nel 1989, subito acquistato dalla RAI e non ancora trasmesso. Si aggiunga in fine che i processi sulle foibe se ne svolsero, in un'ottantina, subito dopo la guerra con relative condanne.

Avremmo voluto che durante le celebrazioni del 10 febbraio venisse fatto almeno un cenno anche su d'una soltanto delle questioni qui sopra elencate, ma sia a livello nazionale che locale, così non è stato.

Partito della Rifondazione Comunista, Circolo di Viterbo
Comitato Provinciale ANPI di Viterbo

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