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Per un ’77 “in mano” ai movimenti

(31 Maggio 2007)

Occorre sempre analizzare il modo in cui, sui mass media, si affrontano le ricorrenze. L’approccio usato nei mesi scorsi nei confronti del movimento del ’77, ci informa della preoccupazione, nei piani alti della società, riguardo ad una, seppur intermittente, ritrovata capacità da parte dei movimenti sociali di svolgere un ruolo attivo nella vita del paese.

Ma entriamo nel merito. Si potrebbe iniziare col dire che la cultura ufficiale rivela ancora una volta la sua profonda incapacità di confrontarsi con questi temi senza ricorrere alle solite distorsioni. Il movimento del ’77 continua, perlopiù, ad essere letto come l’inizio della fase più cupa dei cosiddetti anni di piombo, quella che precede il rapimento Moro, in una ricostruzione che tende a vedere nelle Brigate Rosse l’agente cui ricondurre tutto il significato degli anni Settanta. È il modo con cui lorsignori, a partire dalla sconfitta inferta a quel ciclo di lotte, cercano di esorcizzare il passato, rubricandolo sotto la dicitura “terrorismo di sinistra”, così da farlo risultare totalmente incomprensibile a quanti vorrebbero accostarvisi con occhio critico. Non meraviglia, quindi, il livello decisamente scadente di alcune pubblicazioni edite in occasione del “trentennale”. Tra i contributi che si muovono in quest’ottica, quello del giovane (ma poco promettente) giornalista de La Repubblica Concetto Vecchio: Ali di piombo. Ma altrettanto allarmante appare la tendenza, già rilevata da Marco Melotti (C’è un fantasma che s’aggira per l’Italia , apparso in rete il 14.2.07), legata al “recupero” di un ’77 declinato in chiave individualistico/liberista, prodromo degli anni ’80 ed in quanto tale prima espressione di un nuovo modello valoriale che si fa strada sul tramonto dell’ideologia comunista. Proprio su questa scia si colloca il lavoro di Stefano Cappellini (Rose e pistole). Per la firma di punta de Il Riformista quel movimento avrebbe espresso una richiesta di adattamento ad una società capitalistica in evoluzione e quindi in grado di valorizzare creatività e “competenze ad alto valore aggiunto”. Dunque si trattava di cogliere le presunte opportunità legate ad un nuovo ciclo di accumulazione del capitale, segnato da un approfondimento della sussunzione reale del lavoro e, di conseguenza, dall’intensificazione dei livelli di sfruttamento. Di più, dal ’77 sarebbe partito, in anticipo sui tempi, un “elogio della flessibilità” che la sinistra storica e le istituzioni della prima Repubblica avrebbero avuto il torto di non comprendere. In questo scritto l’esito della storia finisce col diventare il suo incipit e le ragioni dei soggetti che hanno lottato vengono completamente mistificate. Ci si muove cavalcando le conseguenze di quel mostruoso meccanismo attraverso il quale il capitale è riuscito ad assorbire le reazioni operaie di fronte alla realtà produttiva, ribaltandole di segno, riuscendo a deformare il concetto e la pratica del “rifiuto del lavoro” per fargli assumere le sembianze della precarietà che conosciamo oggi. Ora, è possibile rispondere a Cappellini sottoscrivendo le giuste osservazioni di Sergio Cararo: “Quel movimento voleva sostanzialmente impedire le cose che sono avvenute in questi anni e sotto molti aspetti è riuscito a ritardarle di almeno un decennio” (La paura fa ‘77, su Contropiano, numero 1 anno 2007).

Ma il libro che ha avuto maggiore eco sui media è opera della blasonata Lucia Annunziata (1977. L’ultima foto di famiglia) che si è prodotta in una operazione reducistico/autobiografica. Peraltro, riducendo quell’anno a mero riflesso delle sue esperienze personali, Lucia Annunziata è riuscita con minori difficoltà a ricondurre la ricchezza di un movimento alla miseria degli odierni conflitti interni alla sinistra istituzionale.

Per chiudere questa breve rassegna bibliografica, facciamo riferimento ad un libro uscito nel mese di maggio: Avevo vent’anni. Storia di un collettivo 1977-2007, di Enrico Franceschini. Il noto corrispondente estero de La Repubblica va a scovare diversi membri del collettivo di Giurisprudenza di Bologna, di cui ha fatto parte. Nell’affrontare coralmente il “come eravamo” e il “come siamo diventati”, non emerge altro che quella celebrazione della normalità borghese che è tanto cara al quotidiano per cui lavora Franceschini.

Certo, non è difficile mettere in luce i profondi limiti delle pubblicazioni “ufficiali” sul ‘77, ma non va dimenticato il modo in cui in luoghi di elaborazione più vicini ai movimento, si discute del ‘77. Vale la pena richiamare quelle interpretazioni che pongono l’accento sulla rivoluzione dei linguaggi e della comunicazione, aspetto certamente presente e per giunta praticato al di fuori di sterili vezzi estetici, finalizzato com’era alla rottura del “ciclo informativo istituzionale produttore di consenso ideologico”. Il punto che non convince è la scissione di questo piano “innovativo” dal resto, laddove non è certo qui che si esaurisce la pratica dissacrante del ’77. Al contrario, separare queste sperimentazioni dalla rottura politica operata dal movimento stesso, riduce la portata di uno sforzo critico volto al superamento delle vecchie tare politico/linguistiche, risolvendolo in un vuoto esercizio stilistico spogliato di qualsivoglia contenuto. È certamente vero che questo “scossone” in campo linguistico ed il nuovo modo di utilizzare i “media” da parte del movimento, sono stati anch’essi riadoperati in ben altri contesti negli anni successivi, ma ciò non è di per sé un buon motivo a sostegno di un ’77 linguistico/culturale separato da quello politico. Tale operazione comporta una significativa rimozione del suo tratto meno esplorato e, allo stesso tempo più temuto, quel rifiuto radicale della politica intesa in senso tradizionale, attuato per giunta con modalità spontaneiste sostanzialmente inedite.

E siamo giunti ad un punto cruciale. Da quanto scritto sinora, si può dire che tutto - o quasi - sia stato “recuperato”, eppure di quell’anno sembra non essere rimasta traccia, il ’77 continua a rimanere senza spiegazione. Diego Giachetti, in un suo scritto incentrato sulle differenze costitutive tra il movimento del ’68 e quello del ’77, (La storia non si ripete: il ’77 non fu un nuovo ‘68, Erre, numero 22, feb-mar 07) sottolinea la mancanza di eredità di quest’ultimo, quasi a dire che quella rivendicazione di rottura profonda con l’esistente, incarnato allora dalla politica dei sacrifici, sia rimasta staccata dalla storia e quindi non possa essere raccolta e rielaborata dai movimenti attuali. Ora, chi non condivide una lettura siffatta deve impegnarsi a ripensare quell’anno muovendo da un approccio radicalmente alternativo a quelli sin qui messi in luce. E’ nostra intenzione riconsiderare il ’77 a partire da alcuni punti chiave, dai richiami teorici alla “durezza” che ne ha contrassegnato l’agire.

La fase apertasi col biennio 1968/69 vide il moltiplicarsi di collettivi, gruppi politici presenti su scala nazionale o locale, esperienze di intervento in fabbrica autonome dal sindacato, sulla scia di un conflitto capitale/lavoro in cui per la prima volta si era verificato un serio cambiamento nei rapporti di forza tra le classi. Ma già a metà degli anni ’70 alcuni modi di fare politica erano saltati, in conseguenza dell’implosione dei “gruppi”, parzialmente approdati a scelte elettoralistiche, e dell’esplosione del femminismo. Ciò, a ben vedere, non coincide col totale ripudio di un certo patrimonio teorico/politico da parte delle esperienze che finirono col rafforzarsi in quella fase: i circoli del proletariato giovanile e l’area dell’autonomia diffusa ed organizzata. Ma in quel periodo iniziarono a circolare testi legati ad un marxismo lontano da ogni ortodossia. Analizzando poi i contenuti dei fogli di fabbrica, studenteschi e di quartiere, alcuni dei quali raccolti in antologie pubblicate proprio a cavallo del ’77 (cfr.

Martignoni, Morandini, Il diritto all’odio, 1977), ci si rende inoltre conto di quanto sia improponibile la favola di un ’77 impolitico ed irrazionale. Piuttosto vi è una varietà di temi nuovi che fanno il loro ingresso, sotto il peso incalzante di una condizione che peggiora da ogni punto di vista. Il mutamento del contesto politico/economico in cui il movimento del ’77 si formò ed esplose, il passaggio dal miracolo degli anni ’60 (poggiante sulla manodopera a basso costo, la catena fordista/taylorista, i beni di consumo durevoli) alla crisi degli anni ’70, ebbe profonde ripercussioni nella formazione di una nuova soggettività, deprivata di ogni speranza nel futuro.

Il modo di pensare il cambiamento sociale si misurò con l’esigenza di trovare nuove risposte al tentativo di far pagare il prezzo della crisi alla classe operaia, già colpita su un piano materiale dall’inflazione a due cifre, ed al nuovo proletariato giovanile. La tensione verso un marxismo capace di rifondare anche i termini dell’azione pratica, non poté non appartenere ad un soggetto che aveva dinanzi a sé lo spettro dell’austerità e del lavoro nero e che vedeva i propri bisogni e desideri in contrasto irriducibile rispetto alla linea del compromesso storico. È in questo frangente che il pensiero della scuola di Budapest fa breccia, sebbene a livello di vulgata, presso alcuni strati di giovani politicizzati nei quartieri-ghetto delle metropoli. La teoria dei bisogni radicali di Agnes Heller sarà se non un fondamento quantomeno un appoggio teorico per gran parte del movimento del ’77 e per l’attività dei circoli del proletariato giovanile. Si intravide nel discorso della filosofa ungherese, basato su una attenta ricognizione dei testi marxiani, interpretati in una chiave umanistica, una base critica da contrapporre alle richieste di compatibilità del sistema. I bisogni radicali, infatti, sono prodotti dalla società capitalistica e dal livello di sviluppo delle forze produttive che essa comporta, ma non possono essere soddisfatti se non con la fuoriuscita dall’ordine socio-economico vigente, chiamando in causa direttamente il comunismo. Un comunismo che non ha nulla a che spartire con l’egualitarismo livellatore dei paesi dell’est, successivamente definito dalla scuola di Budapest come “dittatura sui bisogni, fondata su una pianificazione che definisce gli obiettivi economici a prescindere dai “bisogni umani ricchi” di marxiana definizione.

Un marxismo critico, dunque, da contrapporre non solo alla politica dei sacrifici, ma anche al suo fondamento culturale: quel lavorismo che ha sempre distinto il PCI ed il sindacato, non privo di legami con l’ideologia che legittimava l’economia pianificata dei paesi dell’est. Ma contrapponendosi culturalmente al PCI, si delineava una frattura, più o meno esplicita, anche con le dissidenze marxiste-leniniste, ormai ridotte a piccoli gruppi di ceto politico. Già a cavallo degli anni Sessanta e Settanta fecero il loro ingresso in Italia tematiche care alle correnti libertarie, in principio legate a piccole realtà attive a Milano e Genova (Ludd-consigli proletari), poi diffusesi nei primi anni ’70 a Torino (dove si formerà l’Organizzazione consiliare, riconosciutasi nella pubblicazione del giornale Acheronte e poi di Comontismo). Ma è in pieno ’77 che circola una rivista uscita in due numeri nel 1976, il cui compito dichiarato è quello di riproporre testi del pensiero consiliare ed eretico inediti in Italia: si tratta di “Marxiana”, curata da Enzo Modugno. La rivista, che raccoglie una tiratura di 6.000 copie per ogni numero solo nella prima edizione (cfr. “Una sparatoria tranquilla. Per una storia orale del’77”, 1997, intervista ad Enzo Modugno), rivendica a pieno titolo l’appartenenza ad un filone, quello dell’”altro movimento operaio”, rimosso dall’ortodossia e fino ad allora quasi sconosciuto ai militanti, nonostante la ventata di novità originata dal dispiegarsi del ’68 quasi un decennio prima. Magari in questo ritardo può aver avuto un peso il fatto che il PCI, nel ‘68 aveva comunque saputo muoversi in modo diverso. Collocato com’era all’opposizione, fornì in un certo senso “copertura” al movimento e riuscì a sviluppare, a certi livelli, un dialogo chiaramente teso alla cooptazione. Ora, la riproposizione dei testi di Anton Pannekoek e di Paul Mattick e la scoperta dell’innovativa ricerca - sul rapporto tra capitale e scienza - di Alfred Sohn Rethel, avvenivano in concomitanza con un agire autonomo divenuto patrimonio di un movimento non più inquadrabile né dentro il ciclo della rappresentanza istituzionale, né dentro i livelli estranianti di militanza offerti dalle formazioni extraparlamentari degli anni ’70. È naturale che in un contesto di superamento, nella prassi, delle forme organizzative tradizionali, si riscoprissero le tematiche del consiliarismo e dell’antiautoritarimo, facendo riemergere ipotesi di organizzazione degli sfruttati basate sul principio dell’autoemancipazione e lontane da quel Che fare? leniniano che era assunto a riferimento indiscutibile dal grosso dei “gruppi”. Sia ben chiaro, non si intende dare al movimento del ’77 una veste teorica generale nella quale costringere ogni singolo gruppo o collettivo. Ciò che si vuole sottolineare è che il solo fatto che questi testi circolassero va considerato non privo di rilevanza, specie se si tiene presente che, in altre fasi storiche, il pensiero libertario è sempre rimasto offuscato da formule politiche tradizionali. A ben vedere, mettere in evidenza il riemergere di certe correnti eretiche, può essere un buon argomento rispetto a chi vede nel ’77 un movimento completamente privo di riferimenti marxisti. Certo, non si può disconoscere il fatto che il ’77 si distingue dal ’68 anche per i modi “rozzi”, poco colti, con cui manifesta il suo disagio nei confronti della politica e della società. Ma si tratta di una caratteristica riconoscibile soprattutto nella messa in pratica di una serie di comportamenti radicali che ne rivelano il tratto autenticamente antisistemico, nella proposizione genuina di una condotta irrecuperabile in qualsiasi ottica di riassestamento produttivo, di fuoriuscita capitalistica dalla crisi. Non è un caso se, aldilà della autorappresentazione “tozza e dura” che per alcuni aspetti s’incontrava con un bolscevismo di ritorno, l’ala romana dell’autonomia, esprimeva in tutto e per tutto, sul piano dei comportamenti, uno spontaneismo che, per alcuni dei suoi aderenti, richiamerebbe una radice spartachista.

Ed è allora su questo piano che va spostata l’attenzione, per cogliere una delle principali caratteristiche del movimento del ’77, il suo esplodere in forme estranee alla cultura ufficiale del movimento operaio e alla cultura borghese della legalità. Nell’approcciare il “lato cattivo” del ’77 è però opportuno ricollegarsi al conflitto di classe dispiegatosi negli anni precedenti. Noi lo faremo soffermandoci sulla vicenda romana, anche per il suo carattere fortemente esemplificativo.

Sarebbe ingenuo credere che lo scontro frontale con PCI e sindacato, l’impennata degli atti di sabotaggio, l’irruzione sulla scena del conflitto sociale di un soggetto proveniente anche dalle periferie della città, siano caratteristiche improvvise di quell’anno, al di fuori di ogni continuità con quanto si era prodotto sino ad allora in termini di opposizione politico/sociale.

L’avamposto del movimento va ritrovato nelle attività di quartiere che si organizzano a partire dai primi anni ’70. Senza di esse appare impossibile comprendere il ’77 romano. Persino la sua “fuga in avanti”, errore che oggi viene riconosciuto in modo unanime da parte di tutti i protagonisti di allora, diventa inspiegabile se non lo si rapporta al livello crescente di autonomia raggiunto dai soggetti sociali nel vivo delle lotte territoriali e nei luoghi di lavoro.

Il ’77 viene stigmatizzato come un movimento violento, ma l’esercizio di questa violenza quasi mai viene collegato alla materialità del conflitto, finendo col diventare una condizione imposta al movimento da una parte dall’attività repressiva dello Stato, dall’altra dalle frange più radicali che non si sottraggono a questa spirale mortale. Anche per questa via, i soggetti sociali vengono tagliati fuori dalla ricostruzione storica, cosicché la stessa ipotesi della cosiddetta “illegalità di massa” cessa di appartenere ai soggetti e alla loro azione per farsi strumento di questa o quella organizzazione. La questione è dirimente, dal momento in cui alcune pratiche divenute ormai assodate nel ’77 vedono la loro apparizione nelle lotte condotte all’interno dei territori, ed è proprio in base ad esse che il movimento si ricompone, trovando la sua fisionomia. A meno di voler confinare la violenza soltanto nello scontro di piazza, è indiscutibile che un certo grado di violenza, o meglio, di “uso della forza”, viene sperimentato con livelli crescenti nelle lotte che si aprono nel 1972-73. In questa fase si intrecciano una serie di fattori che rendono possibile ed efficace il radicamento dei comitati di quartiere, in alternativa alle proposte del PCI e del sindacato (il decentramento amministrativo da una parte, i consigli di zona dall’altra, la cui ipotesi ricompositiva, capace di fondere conflitto in fabbrica e nel sociale, caldeggiata dall’Flm, viene bocciata da confederazioni e partito). Come già avvenuto nelle lotte operaie, anche nei territori si fa largo la “pratica dell’obiettivo”. Quando le tute blu sentono la pesantezza del ritmo di lavoro impresso dalla velocità della catena, autoriducono tempi e ritmi della produzione con il salto della scocca: praticano, insomma, direttamente l’obiettivo che intendono raggiungere. Così avviene nei quartieri popolari, sul fronte della casa, dei servizi, della salute, del carovita. Facciamo alcuni esempi. Nel 1972, a Montecucco (quartiere Portuense) prende il via l’autoriduzione delle bollette della luce. All’ Enel giungono le bollette con la dicitura “paghiamo 8 Kwh come pagano i padroni”. La lotta si diffonde rapidamente a Monte Sacro, Tiburtino, Magliana, Trullo, Garbatella, Ostia, San Basilio, Monteverde, Primavalle, Castelli Romani, dove nascono comitati di autoriduzione che, pian piano, allargano la lotta anche alle altre tariffe pubbliche (gas, telefono, acqua). A Primavalle nasce il progetto “controllo operaio sul territorio”, che si qualifica come “lotta contro l’uso capitalistico del territorio” e che ha l’intento di “pesare sulla direzione degli investimenti, con la lotta di massa, verso i servizi sociali (casa, scuola, sanità, ecc.), rifiutando allo stesso tempo di pagare questi servizi secondo il valore di mercato imposto dai padroni per realizzare i loro guadagni, ma stabilendone i prezzi secondo le possibilità del salario CON DECISIONE AUTONOMA DEI LAVORATORI” (Cordones, foglio a cura del comitato di lotta per la casa Primavalle, dicembre 1973). Alla Magliana si autoriducono i fitti fino al 75%, si occupano le case, si organizzano i picchetti antisfratto, si raccolgono informazioni e materiale sull’edificazione del quartiere giungendo a far incriminare quei politici e quei costruttori responsabili di aver costruito l’intera zona in modo illecito. Ovunque si teorizza la fuoriuscita del bene casa dalle leggi di mercato per farlo divenire un servizio sociale garantito a tutti. L’inverno 1973-74 vede impegnato a Roma un movimento di occupazioni di case vastissimo: in nome del “fitto proletario al 10% del salario” vengono “presi” circa 3.000 alloggi privati, più alcune palazzine popolari. L’epilogo di questa lotta sarà la rivolta di San Basilio del settembre 1974, quando la morte del giovane Ceruso porterà la rabbia dell’intero quartiere ad esplodere in forme armate contro la presenza della polizia. A Valmelaina-Tufello si compiono le prime spese proletarie, prima svuotando i camion della Centrale del latte con relativa distribuzione del prodotto nelle strade del quartiere (Latte gratis al Tufello, “Il Messaggero”, 28 luglio 1974), poi con azioni nei supermercati, cui prendono parte centinaia di famiglie. Ogni lotta presuppone un certo grado di autogoverno del territorio, ogni lotta quindi, oltre ad essere praticata, viene anche difesa e rilanciata.

In modo continuativo e a livello di massa, i vari organismi territoriali presenti nei quartieri periferici della capitale varcano puntualmente le soglie della “legalità”, sottraendo allo Stato il monopolio dell’uso della forza, contendendo, a tratti, lo stesso controllo del territorio alle forze di polizia. Ciò accade in vari punti della città anche quando si stringono le maglie della repressione: non è raro assistere a vere e proprie battaglie campali per sottrarre all’arresto militanti dalla riconosciuta attività o semplici riottosi di quartiere, un livello di scontro che diventa quotidiano nelle zone in cui l’attività organizzativa si intreccia ad una ribellione preesistente nei confronti di ogni forma di autorità, specie quella visibile della forza pubblica.

È in questo intreccio tra raggiungimento di livelli di autonomia sempre più alti della lotta sui bisogni e capacità di autogoverno dei territori che va costruendosi la linea del “contropotere”, differente ed antitetica rispetto alle opzioni armatiste allora in campo, che concentrano la loro prassi nella definizione di uno scontro militare ingaggiato da corpi selezionati e separati. La pratica del “contropotere” è esercitata costantemente dentro lo scontro di classe, riassume l’andamento generale di questo scontro, produce egemonia sociale da parte della classe stessa a livello locale. Questo dualismo di poteri è un portato delle lotte che precedono il ’77: senza di esso il ’77 a Roma non è dato, almeno nella dimensione di massa che conosciamo. Il radicamento territoriale, forse, inizia a perdere quota proprio in coincidenza con l’elevarsi dello scontro politico a livello nazionale. C’è un ritardo (riconosciuto da molti militanti di allora) nell’intraprendere una seria attività di contrasto alla diffusione dell’eroina nei quartieri, la solidarietà che lega militanti e sottoproletari al proprio quartiere è minata dalla difficoltà crescente di unificarne i bisogni. Non è questa la sede per analizzare le ragioni della sconfitta. Il problema che si vuole affrontare è un altro: uno dei lasciti del ’77 sta proprio nella massificazione di questi comportamenti, estranei ad ogni forma di mediazione, in cui anche l’uso della forza coincide con la reale capacità di spostare gli equilibri in campo, fuori da ogni istanza “separata”.

Oggi, sebbene in tutt’altro contesto, siamo alla presenza di nuovi movimenti sociali, potenzialmente in grado di rompere gli equilibri dati, ma facciamo i conti con un piano ideologico per cui perfino un innocuo slogan fuori dal coro è accompagnato da prese di distanze, scomuniche, richieste di abiura, pena la fuoriuscita dalla “comunità politica”. Le regole del conflitto sembrano essere stabilite fuori dal movimento. Per questo il ’77 continua ad essere “cattivo” e irrecuperabile, a meno che non si proceda ad un suo smembramento, separando i “buoni” dai “cattivi”, gli “autonomi” dai creativi”, i linguaggi dalla prassi, le teorie dai comportamenti. Per questo il ’77 viene descritto come irrazionale e, per il suo netto rifiuto della mediazione, mette ancora paura.

A trent’anni di distanza, una battaglia per preservare la memoria scomoda del ’77 non è ancora avviata. Il gioco delle compatibilità si è fatto così rigido e pericoloso che alcune componenti del movimento non riconoscono questo compito come prioritario. Il ’77 sembra aver perso attualità prima ancora di averla acquisita, tanto lontano può apparire il suo rapporto con le vicende odierne. Eppure così non è, perfino rispetto alla questione posta con maggior insistenza in questo scritto, l’uso della forza in una lotta sui bisogni. Pensiamo alle possibilità che si possono aprire dalla messa in campo di iniziative come quella del novembre 2004. Di fronte alle azioni compiute al supermercato Panorama e alla libreria Feltrinelli si è registrata una unanime condanna da parte dei media, così come dei partiti. Si è trattato solo di repressione? Non è forse il caso di pensare ad una strategia preventiva adottata affinché comportamenti come quelli del 6 novembre siano subito messi sotto accusa, criminalizzati e isolati per via di una loro probabile comprensione immediata da parte dei soggetti sociali in difficoltà con l’attuale costo della vita? Recuperare gli aspetti “meno presentabili” del ’77 può essere un mezzo attraverso cui far maturare, su un piano più consapevole, la solidarietà nei confronti di chi oggi è impegnato in una lotta sui bisogni, nel tentativo di generalizzarla. A dirci con chiarezza che quella stagione politica è ancora attuale, tra l’altro, ci ha pensato, nei mesi scorsi, la stampa nostrana, con l’atteggiamento tipico di chi corre ai ripari prima che sia troppo tardi. Per esempio, Adriano Sofri, ripercorrendo le fasi degli scontri del 12 marzo ’77 a Roma, ha caldeggiato la costituzione di movimenti “educati alla non violenza” (Quando nei cortei spuntò la P38, “La Repubblica”, 19 gennaio 2007). Dal canto suo, Pierluigi Battista ha espresso il timore di una rinnovata escalation di violenza in stile settantasettino, assegnando ai partiti della sinistra radicale il compito di tenere a bada le spinte più radicali emerse dalle lotte contro le grandi opere e le basi militari, così da “canalizzare nell’ambito della protesta democratica e non violenta un mondo vulnerabile ai richiami dell’estremismo eversivo” (Vicenza e violenza, “Corriere delle Sera”, 8 febbraio 2007). Nel reagire a queste prese di posizione non intendiamo svolgere un’apologia dell’azione violenta fine a se stessa. Il nostro problema è quello di ri-consegnare nelle mani del movimento una pratica orizzontale in grado di fuoriuscire dalla subordinazione all’ideologia dell’avversario, in modo che a riconoscere gli effetti e le valenze di ogni iniziativa di lotta siano i suoi protagonisti e non i suoi censori.

Roma, 31 maggio 2007

Corrispondenze Metropolitane – collettivo di controinformazione e d’inchiesta

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