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La guerra è una malattia

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(6 Marzo 2011) Enzo Apicella

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    Libano, ancora una volta profughi

    I combattimenti a Nahr al-Bared hanno spinto migliaia di palestinesi nel campo di Beddawi

    (17 Settembre 2007)

    Una parte di Hamra Street, nel centro di Beirut, è chiusa al traffico. C’è una parata militare per festeggiare la vittoria dell’esercito libanese sulle milizie integraliste di Fatah al-Islam, assediate nel campo profughi palestinese di Nahr al-Bared. Gli ultimi arresti sono avvenuti qualche giorno fa. Il totale delle perdite per l’esercito governativo è stato di 163 uomini. Il campo ora è chiuso e circondato dai soldati.

    Stretta militare. La delegazione italiana formata da parlamentari europei, giornalisti e rappresentanti delle Ong, giunta in Libano per commemorare le vittime della strage di Sabra e Chatila, dopo aver ottenuto dalla municipalità di Beddawi il permesso di poter entrare nel campo, si è dovuta fermare allo stop imposto dai soldati. Un giornalista del Manifesto e un ragazzo con la telecamera sono stati anche “caldamente” invitati a non fare riprese o scattare fotografie. Il campo, dal promontorio che si incontra subito dopo aver lasciato Beddawi, non lontano da Tripoli, appare, specie nel settore a sudest, un ammasso di macerie. Le case rimaste in piedi sono sventrate o ridotte a degli scheletri. Impressionante è il contrasto tra l’azzurro del mare all’orizzonte e i grigi edifici diroccati. Il campo di Nahr al-Bared, posto alla foce del fiume Nahr Abu Ali, che ospitava 40mila profughi palestinesi, era considerato uno dei più floridi, forse avvantaggiato dalla posizione che poteva garantire comunque traffici leciti ed illeciti via mare e con la vicina Siria. Poi, il 20 maggio scorso, all’improvviso, di notte, lo scoppio delle prime bombe e i colpi dell’artiglieria hanno segnato l’inizio degli scontri tra l’esercito libanese e i miliziani di Fatah al-Islam. “Siamo dovuti scappare in pigiama, senza nemmeno il tempo di prendere l’essenziale – spiega una donna che ora vive in un garage nel vicino campo di Beddawi insieme alla famiglia – non sappiamo niente delle nostre case, non sappiamo se potremo ritornare, viviamo così”. Apre la tenda per farci vedere i materassi per terra, l’uno accanto all’altro. Tiene in mano un libro di studio per i bambini: “Ora inizia la scuola, ma tutto quello che abbiamo sono questi quaderni che ci ha dato l’Unrwa (l'Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi nel Vicino Oriente)”.

    Vivere ai margini. L’emergenza in questo campo è scattata non appena hanno cominciato ad arrivare i profughi in fuga da Nahr al-Bared: ai 12mila abitanti del campo si sono aggiunti almeno altri 15mila rifugiati. Si sono aperte tutte le case e le strutture disponibili per accoglierli: scuole, moschee, garage…tutto, pur di offrire un tetto. La vita del campo è stata stravolta: percorrendo le strette vie impolverate sotto il sole impietoso risulta evidente la mancanza di spazio vitale, in una scuola hanno trovato rifugio centinaia di persone, stanno stipati nelle classi. Il problema dell’impossibilità per i ragazzi di riprendere la scuola, viene posta tra le emergenze prioritarie di Majed Ghemraweh, sindaco della municipalità di Beddawi: “Inizialmente il governo aveva garantito la ripresa regolare delle lezioni con turni pomeridiani nelle scuole di Tripoli – ha detto durante l’incontro con la delegazione italiana Ghemraweh – noi abbiamo chiesto prefabbricati dove poter fare lezione. L’importante è che alla fine venga fatto qualcosa e che i nostri ragazzi, seppur nell’emergenza, possano almeno riprendere le scuola”.
    Ma ora la domanda che corre sulla bocca di tutti è: Quando ritorneremo nelle nostre case? La gente è esasperata dalla situazione: un popolo, quello palestinese che sembra destinato all’esodo: “Abbiamo perduto la terra in Palestina sessant’anni fa e tutto quello che avevamo era nel campo”, sospira Ahmad Hassan, uno di loro. “Noi non abbiamo conflitti né con l’esercito libanese né con il popolo libanese”, aggiunge un uomo di quarant’anni con il viso segnato dal lavoro nei campi, che è poi anche l’unico che viene praticamente concesso agli abitanti dei campi profughi visto che in teoria possono lasciare il campo quando vogliono, ma nella pratica sono costretti a controlli draconiani, specie dopo i fatti di Nahr al-Bared. Negli ultimi sessant’anni, in Libano, i palestinesi sono stati relegati ai margini della società . Sono soggetti a leggi discriminatorie. I loro movimenti sono limitati, gli viene proibito di possedere o ereditare una qualsivoglia proprietà e gli viene impedito di svolgere 72 professioni. La maggior parte dei giovani palestinesi sono disoccupati, e quelli abbastanza fortunati da trovare un lavoro possono solo fare i barbieri, gli autisti di taxi, o gli operai edili.

    Vite spezzate. Saleh è seduto con i suoi amici sotto il manifesto di Arafat. Ha vent’anni, ma ne dimostra sì e no sedici. I suoi capelli all’estremità sono tinti di un colore tra il biondo e l’arancione. Ha una piccola mappa della Palestina appesa al collo. Viene dall’interno, dice, in riferimento alle parti della Palestina che divennero territorio israeliano nel 1948, da Jaffa per la precisione. Come la maggior parte dei giovani qui è disoccupato e ha abbandonato la scuola quando aveva 12 anni (il problema degli abbandoni scolastici è una delle emergenze all’interno dei campi profughi) per poi entrare nel gruppo marxista palestinese Fronte per la Liberazione della Palestina (Pflp). “Al mattino mi sveglio e poi me ne vado a zonzo con i miei amici- dice - è così noioso qui, incontro le stesse persone da tutta la vita, non abbiamo più niente da dirci, nulla da raccontare. Non esco dal campo, non mi piace sentirmi un pesce fuor d’acqua, poi ogni volta che veniamo fermati al check point i soldati libanesi ci guardano come se fossimo spazzatura”, racconta Saleh. “L’esercito libanese non ci lascia nemmeno avvicinare al campo - dice Mohammad Abderrahmane, 27 anni, che faceva l’operaio prima dei fatti di maggio - ci sono ancora delle case abitabili. L’esercito ha lasciato il campo il 2 settembre, ma ha chiesto ai rifugiati di pazientare per il tempo necessario a ripulire le rovine provocate dalle esplosioni e di stanare gli ultimi sopravvissuti di Fatah al –Islam”.
    L’operazione dovrebbe essersi conclusa, visti i festeggiamenti a Beirut. Il primo ministro, Fouad Sinora, in una riunione dei paesi donatori a favore della ricostruzione del campo svoltasi alla presenza degli ambasciatori dei paesi arabi e stranieri, nonché di rappresentanti dell’Onu e delle ong internazionali, si è impegnato a ricostruire il campo, specificando però che non è realistico ipotizzare un ritorno rapido dei rifugiati. In un comunicato stampa successivo è stato reso noto il costo totale dell’operazione di ricostruzione di Nahr el-Bared: 382 milioni di dollari che dovranno essere raccolti attraverso i fondi speciali della Banca Mondiale con l’aiuto dell’Unrwa, della commissione di dialogo libano-palestinese e di un numero di paesi donatori. Il direttore de l’Unrwa, Richard Cook, ha dichirato alla France Press che in ogni caso nessun rifugiato potrà rientrare nel campo prima di sei mesi. Molti dubbi serpeggiano tra i rifugiati e gli amministratori locali (che peraltro non hanno alcun potere rispetto alle decisioni centrali) circa la reale volontà governativa di ricostruzione, soprattutto perché sono mesi che la politica libanese è in situazione di stallo e, a breve, si dovrebbe aprire la campagna per le elezioni presidenziali in Libano, quantomai complicata, visto anche che il Governo attuale non ha nemmeno i numeri (i due terzi del Parlamento) per poter eleggere un Presidente della Repubblica. Ma l’inverno è alle porte. Ed è questo che interessa ai 40mila profughi palestinesi di Nahr al-Bared.

    Libano - Beddawi - 14.9.2007

    Milena Nebbia

    Fonte

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