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(3 Agosto 2011) Enzo Apicella

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Le ragioni di un NO convinto all’intesa dello scorso 23 luglio

(19 Settembre 2007)

L’intesa raggiunta lo scorso 23 luglio:

è avvenuta senza la mobilitazione delle lavoratrici e dei lavoratori, in una situazione di scarsa informazione, di confusione e senza alcuna consultazione sulle richieste sindacali,

dà qualche piccolo risultato nel presente per una piccola parte del mondo del lavoro, mentre prepara danni per il futuro di tutte e tutti.

Le ragioni di un NO convinto all’intesa

No perché dopo i pesanti costi della finanziaria, non è ancora cambiato l’andamento di fondo della politica economica, per cui i sacrifici continuano a farli le lavoratrici, i lavoratori, i pensionati, i giovani. L’aumento della pressione fiscale è insopportabile prima di tutto per chi si vede trattenuto fino all’ultimo centesimo in busta paga. Non un solo centesimo viene dalla speculazione finanziaria, dai ricchi, dal privilegio della politica e della burocrazia, dall’evasione fiscale e contributiva. La grande industria, le banche, le assicurazioni, fruiscono della riduzione delle tasse. La scuola, i servizi pubblici e sociali continuano a peggiorare e sempre più famiglie sono strangolate dall’aumento dei mutui.

No perché alcuni parziali risultati di una parte del mondo del lavoro sono pagati con il peggioramento delle condizioni di tutte e tutti gli altri. Per i precari, i giovani, le donne non ci sono tutele in più, anzi a volte si peggiora.

No perché la positiva, anche se parziale, rivalutazione di tre milioni di pensioni basse è interamente pagata dall’aumento dei contributi dei lavoratori dipendenti e dei precari. Su 4 miliardi all’anno di aumento dei contributi solo poco più di 1 viene restituito ai pensionati. Su 7 miliardi in più di tasse pagate dal lavoro dipendente (il tesoretto), poco più di 1 torna ai disoccupati e ai poveri. Che fine ha fatto la richiesta di separare la previdenza dall’assistenza? Dove sono finiti i nostri soldi?

No perché viene confermato lo scalone previsto dalla legge “Maroni”. È vero che una parte dei lavoratori all’inizio potrà andare in pensione a 58-59 anni, ma poi l’età pensionabile salirà e a partire dal 2013 (un anno prima di quanto prevedeva lo scalone) tutti dovranno andare in pensione a 62 anni. E’ un grave danno, confermato dal fatto che ora il governo vuol mandare in prepensionamento una parte dei dipendenti pubblici. Come hanno fatto la Fiat e tante altre aziende. Si è troppo vecchi per lavorare ma troppo giovani per andare in pensione. Viene anche peggiorata la pensione di vecchiaia per le donne e per gli uomini. Verranno messe finestre che prima non c’erano. Così le donne andranno in pensione dopo i 60 anni e gli uomini anche oltre i 65. Questo per pagare il parziale aiuto per chi ha quarant’anni di contributi. Tutto si fa con i soldi delle lavoratrici e dei lavoratori. Così nel 2011 aumenteranno ancora i contributi a carico dei lavoratori dipendenti e, ancora prima, quelli per i precari.

No perché è stata introdotta, a partire dal 2010, la revisione automatica dei coefficienti di calcolo delle pensioni. Questa misura colpisce proprio le pensioni dei più giovani, che a partire dal 2010 ogni tre anni verranno riviste al ribasso. Già è previsto un taglio del 6-8%. La riforma Dini prevedeva revisioni non automatiche ogni 10 anni. Dal 1996 al 2016 ci sarebbero state 2 revisioni. Con il nuovo sistema di calcolo automatico entro lo stesso tempo ci saranno 3 revisioni al ribasso delle pensioni. I giovani hanno diritto a una vera pensione pubblica. E il Tfr nei fondi pensione non risolve certo il problema, visto il crollo delle Borse.

No perché le misure a sostegno della competitività favoriscono la flessibilità e l’incertezza dei salari e l’aumento dell’orario di lavoro. La detassazione sui salari riguarda solo la parte totalmente variabile del premio di risultato, invece che gli aumenti certi e per tutti dei contratti nazionali. La riduzione dei contributi sullo straordinario danneggia l’Inps e favorisce l’aumento dell’orario di lavoro ai danni della salute e dell’occupazione.

No perché la nuova disciplina dei lavori particolarmente usuranti è una beffa. Solo 5.000 lavoratori all’anno in 10 anni potranno usufruire di uno sconto sull’aumento dell’età pensionistica (vuol dire che alla fine nessuno potrà andare in pensione prima dei 58-59 anni di età). Con le attuali condizioni di lavoro, gli infortuni, le malattie professionali, il numero di 5.000 persone all’anno ufficialmente usurate è ridicolo.

No perché l’accordo conferma e persino peggiora le leggi sulla precarietà del lavoro (Legge 30 e tutte le altre). Viene consolidata la pratica di rinnovare all’infinito i contratti precari, costringendo le lavoratrici e i lavoratori, soprattutto i più giovani, per anni e anni in una condizione di incertezza e ricatto permanente. Basterà una firma sindacale per prorogare i contratti a termine oltre i 36 mesi. Non ci sono limiti all’uso del lavoro interinale e dei contratti a progetto. Le nuove aziende potranno avviare il lavoro con tutti i dipendenti precari. Nulla si fa per gli appalti e i subappalti, attraverso i quali le grandi aziende, pubbliche e private, aggirano i diritti dei lavoratori.

No perché i miglioramenti per l’indennità di disoccupazione, sono comunque pagati dal mondo del lavoro e comunque insufficienti a coprire la precarietà diffusa tra i giovani. Non è certo solo con i prestiti agevolati o i riscatti delle lauree che si affronta la situazione di salari precari e da fame. Inoltre, la prevista riforma degli ammortizzatori sociali annuncia un peggioramento dei diritti per i lavoratori in cassa integrazione, che rischiano di vedersi equiparati a quelli in mobilità. E’ inoltre sbagliato che gli enti bilaterali tra imprese e sindacati gestiscano parte del mercato del lavoro.

Chi ha dei dubbi consulti il testo integrale dell’accordo: il No sarà ancor più convinto

Rete28Aprile nella Cgil
www.rete28aprile.it

Fonte

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