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IL PANE E LE ROSE - classe capitale e partito
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Sulla situazione politica successiva al 7 ottobre 2023

(9 Febbraio 2024)

Contro la guerra e il nazionalismo

Gli eventi internazionali degli ultimi mesi, in particolar modo con il riaccendersi del conflitto in Palestina, hanno costituito il terreno principale sul quale si è sviluppato il più recente lavoro dei compagni del Laboratorio internazionalista. Abbiamo pertanto deciso di utilizzare lo strumento dell’autointervista per fissare alcuni punti di riflessione su quanto fatto in questo periodo, sviluppando così un primo bilancio.

Avete inquadrato il concatenarsi degli eventi a partire dal 7 ottobre come la manifestazione del progressivo maturare della crisi capitalista verso la prospettiva della guerra imperialista generalizzata. Volete approfondire questo aspetto?

Crediamo che a nessuno sfugga che la crisi del capitalismo stia raggiungendo, se non lo ha già superato, un punto di non ritorno. Vogliamo dire che dallo studio della storia del capitalismo mondiale e delle sue caratteristiche emerge un andamento ciclico caratterizzato da alcune fasi che si ripetono nel tempo: espansione, crisi, guerra, ricostruzione, espansione, etc. Ecco, dai dati a nostra disposizione ci sembra che il passaggio dalla crisi verso la guerra generalizzata, nella sua irreversibilità, sia o già stato imboccato oppure è molto prossimo. Al di là delle determinazioni economico-materiali il cambiamento di clima è evidente anche al livello mass-mediatico con la propaganda di guerra martellante, i continui richiami alla inevitabilità della guerra, la rinnovata rincorsa agli armamenti – anche in termini di aumento delle spese militari nei bilanci statali redatti dai diversi Governi. La considerazione sulla crisi e il “cambiamento di fase” che ne consegue, verso la corsa alla guerra getta una luce differente sui differenti scenari di guerra che si aprono davanti ai nostri occhi. Ucraina, Africa sub sahariana, Palestina e Medio Oriente, Yemen, Taiwan… (per citarne solo alcuni dei più importanti) devono essere letti in maniera “unitaria”, in rapporto alla fase e dentro la dimensione di sviluppo progressivo che gli è propria. Nei fatti si tratta di tante linee di faglia della medesima recrudescenza economica-bellica. In ognuna di esse agiscono, incancreniti ed acuiti, tutti gli elementi del contrasto fra interessi imperialisti e delle politiche anti-operaie propri della crisi odierna.

Facendo un passo indietro, nel trentennio 1990-2020, con il venir meno del blocco sovietico le medesime aree sono state oggetto di continua destabilizzazione. L’inasprirsi della crisi globale apertasi nel 2008 e aggravatasi nel 2020 ha fatto sì che quei territori diventassero i teatri principali dello scontro interimperialista nella competizione: per la penetrazione economica, per il controllo delle risorse energetiche e strategiche, per l’affermazione politica delle forze afferenti a questa o quella potenza imperialista di riferimento, maggiore o minore che fosse. Dentro questo scenario ogni nuovo conflitto che si apre, come quelli già in corso, costituiscono un salto in avanti ed esprimono in sé il concretizzarsi materiale della tendenza alla guerra generalizzata. L’ampiezza e profondità del loro dispiegarsi riflette esattamente il livello di attrito e confronto-scontro raggiunto fra i diversi paesi e blocchi imperialisti. Il nesso crisi-guerra si fa sempre più stringente. Lo scontro economico tra le grandi potenze si sposta via via sempre un po’ di più sul piano militare. L’economia di guerra spinge a nuove forme la ristrutturazione capitalista e a nuovi costi di lacrime e sangue per il proletariato (tagli alla spesa pubblica, sanità ed educazione in primis, contenimento salariale, inflazione, ma anche inasprimento del controllo e della repressione di ogni forma di dissenso). Il militarismo diviene sempre più elemento costitutivo delle politiche nazionali tanto per il peso sempre maggiore che assume nel PIL, quanto nelle relazioni sociali con l’aumento del controllo militare dei territori, quanto nella propaganda nazionalista che dipinge ogni Paese come “potenza pronta a protiettarsi” nell’arena dello scontro interimperialista che va montando.

Sul piano generale tutto questo pone almeno tre ordini di questioni: il primo riferito all’individuazione esatta, dal un punto di vista proletario, dei reali interessi che si muovono in questa spirale di crisi-guerra-sacrifici-controllo all’interno degli specifici conflitti in atto; il secondo è che le forme della guerra imperialista odierna coinvolgono in maniera brutale sempre più ampie fette di un’umanità da intendere esclusivamente come carne da macello, elemento di denuncia della brutalità del fronte avversario se morti propri, “danni collaterali” da far pesare sul fronte avverso se nemici. Il terzo è che i vecchi strumenti politici che hanno caratterizzato i differenti movimenti “di sinistra” e “terzomondisti” degli ultimi 80 anni sono ormai solo ciarpame del quale è urgente liberarsi. Il ragionare in termini di “popoli in lotta”, “anti-americanismo”, “difesa degli spazi democratici”, “colonizzatore e colonizzato” etc. o peggio ancora in termini “romantico-sentimentali” struggendosi per “il tragico destino di un popolo glorioso”, per “i popoli liberi” (non si sa bene da che e da chi visto che non si chiama mai in causa la radice del problema e cioè il capitalismo), è stato fallimentare per tutto l’arco storico precedente e non permette di capire quello che sta realmente accadendo sotto i nostri occhi, oggi. Viviamo la crisi del capitalismo maturo, stravecchio, un sistema morente reso sempre più aggressivo e arrogante dalla sua senescenza e penetrazione capillare in ogni angolo del mondo, saturandolo. Il tutto unito ad un livello tecnologico incredibile che nella messa in opera della guerra stessa trova la sua massima espressione, ossia la sua nefasta ricaduta sulla vita di miliardi di persone. È da questo e solo da questo punto di vista che possiamo capire qualcosa di quello che sta succedendo in Palestina.

Scendendo nel concreto del conflitto odierno israelo-palestinese, tutto questo che cosa vuole dire?

Pensiamo che questo conflitto sia la massima espressione che assume oggi la tendenza della crisi del capitale verso la guerra. Si tratta di un momento, per quanto estremamente drammatico in termini di vite umane e in particolare di civili, del processo di riassetto, penetrazione e scontro tra le diverse forze imperialiste che insistono nell’area medio orientale. Area che storicamente ha rappresentato uno dei “ventri molli” della geopolitica mondiale, dove storicamente si sono incrociate e rovesciate molteplici questioni e contraddizioni mai risolte e – detto per inciso – irrisolvibili fermo restando il capitalismo. Il 7 ottobre è stato il modo in cui la nuova fase della crisi e del conflitto interimperialista si sono palesate nell’area. A nostro avviso la “questione nazionale palestinese” (questione rimasta volutamente irrisolta nella precedente spartizione imperialista dell’area, post IIGM) ha costituito nel tempo un fattore endemico di crisi regionale e ha per questo legato strettamente le sue diverse fasi, le sue vicende, le sue tragedie, le sue prospettive, al ruolo che dalla fine della IIGM le è stato assegnato: quello di variabile dipendente dalle trasformazioni degli assetti imperialisti mondiali da parte degli attori che in quell’area hanno in questo arco di tempo svolto un ruolo, segnando la vita dell’area medio-orientale. La ripetuta ridefinizione degli equilibri di potere ha dato vita alle guerre arabo-israeliane e agli accordi successivi, il crollo dell’imperialismo sovietico ha determinato un differente ruolo svolto dagli USA nelle guerre mediorientali ed è stato accompagnato dal configurarsi degli interessi imperialisti di potenze regionali quali l’Iran e l’Arabia Saudita. Un incontro scontro che si è ripetuto nel tempo, in una continua ridefinizione degli equilibri nell’area. Questo ruolo del Medio Oriente quale terreno di definizione degli equilibri imperialisti nell’area oggi risulta ancor più evidente.

L’attacco delle forze palestinesi capeggiate da Hamas del 7 ottobre è ancorato ad una gretta propaganda nazionalistia sostenuta da una visione religiosamente integralista, ma è sopratutto figlio delle difficili condizioni imposte e di una debolezza complessiva del disegno nazional-palestinese, debolezza originata ancor prima che dal divario militare, dalle trasformazioni in atto negli equilibri nell’area (vedi p.es. accordi di Abramo) e dal relativo scontro fra i diversi attori regionali per il controllo della stessa. A muovere i fili, come sempre, sono gli interessi delle grandi centrali imperialiste, in lotta acerrima tra loro e per le quali i proletari di Gaza sono solamente una pedina da sacrificare, nient’altro. Israele da par suo non ribadisce semplicemente il proprio ruolo di garante dell’imperialismo occidentale, USA in testa, nella regione, ma affronta in questa guerra un quadro generale in profondo mutamento che assomma sempre più contrasti e conflitti aperti e sul quale va a ritagliarsi i propri specifici interessi di paese imperialista. La guerra è un fattore ai per esportare all’esterno le proprie contraddizioni interne, sia per affermare il ruolo di Israele come paese centrale nei processi economici e politici della regione e nei rapporti con gli altri paesi, nonché nel ruolo di controllo in proprio di risorse energetiche e delle vie strategiche. Affrontare questa serie di problemi richiede ad Israele di affrontare il livello dello scontro che le viene imposto dalla sua condizione oggettiva. La retorica nazionalista israeliana copre a malapena la natura imperialista della sua azione. Le modalità di guerra messe in campo, con i massacri della popolazione civile palestinese, sono sia il frutto del confronto bellico sul campo, prodotto obiettivo di una guerra assimetrica, sia la materiallizzazione della soluzione imperialista alla “questione palestinese” nelle due prospettive di vittoria di Israele o dell’Iran (e di tutto ciò che sta dietro i due). I semi velenosi di questo conflitto sono stati gettati parecchio tempo fa.

Il 7 ottobre quindi catalizza, innesca, misura e alza al massimo grado queste tensioni più generali. Il progressivo schierarsi di tutti i principali attori imperialisti che agiscono nell’area, grandi e piccoli, dimostra l’esattezza di questa visione. Il nazionalismo che viene agitato per giustificare la guerra è solo lo strumento ideologico attraverso il quale si alimenta la mobilitazione in favore di un fronte, ma non è minimamente in grado – né per sua natura ha interesse – di collocare e comprendere gli elementi reali dello scontro in atto. Il piano reale è sempre quello espresso dagli interessi dei diversi strati di una borghesia palestinese corrotta e accattona (i cui due rappresentanti politici principali sono Fatah e Hamas) che dentro l’involucro nazionalista ha sempre cercato il proprio spazio di “esistenza” (sostegno economico) e legittimazione. Questa abietta classe dirigente ha sempre finito di “avere a cuore la causa del proprio popolo” per svendere e sacrificare le vite dei proletari palestinesi al fine di perseguire i propri gretti interessi e piccole posizioni di vantaggio. La “questione nazionale palestinese” è così divenuta la corda al collo degli stessi palestinesi e ne ha castrato l’altrimenti notevole potenziale di lotta espresso nel corso del tempo. Questa meschina parabola del nazionalismo palestinese è dimostrata anche dalle ripetute debacle delle organizzazioni dirigenti palestinesi, rimaste schiacciate dalla loro stessa logica e dalle condizioni avverse sempre più stringenti, ritrovandosi ad oscillare fra il compromesso e la violenza contro civili inermi, rei soltanto di essere nati in territorio di Israele. Ripetiamo. Oggi ancor più di ieri, la “questione palestinese” intesa come destino della popolazione non interessa a nessuna delle forze politiche palestinesi in campo e ha un senso (illusorio) solo dentro quelli che sono i diversi progetti dei diversi attori e dei diversi schieramenti imperialisti che si giocano la partita nell’area: è un elemento accessorio e subordinato a questo scontro più complessivo, nella prospettiva di creare una nazione nella quale perseguire i propri affari. Ripetiamo: della popolazione non importa a nessuno se non come massa di manovra e carne da cannone.

Questa impostazione è accusata di astrattismo, di essere sganciata dalle determinazioni storiche e concrete che spingono alla lotta molti palestinesi. Cosa rispondete?

No, non esuliamo dal contesto concreto. Innanzitutto è sempre necessario agitare le parole d’ordine corrette, il punto di vista di classe in ogni dove, altrimenti in nome delle “situazioni concrete”, delle “contingenze” alle quali sacrificare la lotta del proletariato si finisce per diventare alfieri di battaglie che esulano dagli interessi storici della classe e che, come abbiamo constatato nei decenni, non portano a nulla. È poi materialmente che constatiamo quanto abbiamo detto. L’involucro nazionalista, al di là del vestito che si è messo nel tempo, dal passato laicismo socialisteggiante degli anni 60-70 del secolo scorso che dietro la formula del “panarabismo” in realtà definiva l’affermarsi delle borghesie statuali arabe e della loro collocazione internazionale – non senza repentini cambi di casacche -, fino all’odierno islamismo radicale che ne ha preso il posto nel suo voler rappresentare gli interessi generali del mondo musulmano, per propria natura e scopi si è dimostrato totalmente incapace – se non acerrimo nemico – dell’unica prospettiva in grado di contrastare l’iniziativa imperialista da qualsiasi parte potesse provenire: la costruzione dell’unita di intenti fra tutti gli sfruttati dell’area verso lo sbocco politico di una rivoluzione socialista regionale al cui interno ricollocare e risolverei problemi particolari delle varie nazionalità. La parabola del FPLP dal nazionalismo socialisteggiante al nazionalismo puro e semplice ne è uno degli esempi più lampanti. Le manovre imperialiste e il nazionalismo di risulta sono state invece le uniche opzioni reali che hanno dettato i tempi e gli eventi della regione, fino al macello odierno. E anche in questo caso il nazionalismo non porterà alla soluzione dei problemi dei palestinesi che vengono invece usati come agnelli sacrificali. Ancora una volta la soluzione imperialista si imporrà come la sola legittimata, all’altezza della brutalità della guerra di sterminio e degli obiettivi conseguenti, particolari e generali. Come sempre è stato.

Diciamo di più: oggi più di ieri, come affermavamo sopra, l’avanzare della guerra imperialista come tratto caratteristico della fase pone la questione in termini che devono essere compresi per la loro relativa “novità”: l’epoca delle questioni e delle rivoluzioni nazionali è tramontata da un pezzo, non si tratta più di favorire il diffondersi del capitalismo e della democrazia attraverso la rivoluzione borghese nei paesi meno sviluppati. No, oggi il capitalismo domina ovunque incontrastato, il mondo attuale è costituito da rapporti di interdipendenza fitti come non mai in cui sono gli interessi di mercato a dominare su tutto, per questo la questione nazionale non ha più senso di essere posta in nessun angolo del mondo. Questo è quello che va compreso se si vuole stare al passo coi tempi. Lenin scriveva il suo “Diritto all’autodecisione” più di un secolo fa. In questo arco di tempo il capitalismo è progredito, è penetrato in ogni angolo del pianeta. La condizione che poneva Lenin allora: “favoriamo le lotte delle borghesie nazionali per favorire lo svilupparsi del capitalismo e della democrazia, premesse alla rivoluzione comunista” non ha più nessuna ragione di essere. Per questo ad ogni latitudine e in ogni paese bisogna spogliarsi dell’identità nazionale, per costruire legami sulla base dei reciproci interessi di classe sfruttata e contro i reali interessi che muovono le guerre. Ciò significa essere non solo contro le guerre, ma indicare la necessità/possibilità di lottare contro il sistema che le genera, contro il capitalismo. Sappiamo benissimo come lo “stato di guerra permanente” segni oggi i rapporti di classe all’interno di ogni formazione economico-sociale nazionale e come porti a vedere la soluzione dei problemi nel nazionalismo, nell’orientare verso l’esterno la ricerca della “causa del male”: gli immigrati, i russi, gli ucraini, gli ebrei, gli arabi, i sionisti… e questo soprattutto quando in gioco ci sono “corposi” interessi borghesi. Noi dobbiamo rigettare tutta questa merda e dire che l’unica soluzione è l’unità degli sfruttati di ogni nazionalità, cercando al contempo di demistificare l’inganno patriottico.

Quali le basi e le condizioni per una prospettiva di classe che voi indicate?

Sappiamo che il nazionalismo guerrafondaio, o comunque vestito, è il principale ostacolo alla costruzione di una prospettiva di classe. Questo è quanto i rivoluzionari devono affermare, anche quando la situazione è particolarmente avversa e reazionaria, come in una guerra. La guerra imperialista è la massima espressione della natura e dell’essenza controrivoluzionaria del sistema di oppressione borghese comunque strutturato. Mentre si piegano milioni di proletari agli “obblighi” di subirne i costi di sangue, miseria e sofferenze inimmaginabili, al contempo, intorno gli si costruisce una gabbia di ferro e di fuoco per spezzare ed annientare ogni anelito di opposizione e libertà. Dietro le retoriche nazionaliste, ideologiche, del bene comune, questa è l’essenza della guerra imperialista.

Quindi si pone contemporaneamente sia il problema della condizione effettiva, materiale, in cui può svilupparsi una situazione positiva per le avanguardie, sia il problema del radicamento della propria azione. Tutti questi fattori non sono ovviamente predeterminabili a priori negli scenari di guerra. La condizione fattuale determina le scelte tattiche di chi sul campo si trova, di chi e punta a far vivere una prospettiva di classe rivoluzionaria ed internazionalista cercando al contempo di sfuggire alle pratiche di annientamento del nemico di classe per eccellenza, la propria borghesia in guerra. Il fatto di essere noi in un paese del centro imperialista in cui la guerra “materiale” appare lontana (anche se cominciano anche qui a sentirsi le ganasce della morsa) ci porta a dare un certo carattere all’intervento politico. Essere materialmente in guerra apre tutt’altri scenari. Oggi, pur con i molti limiti dati da questa differenza, possiamo indicare delle parole d’ordine generali che rimandano alla lotta alla guerra imperialista e all’unità internazionale degli sfruttati e cercare di coagulare attorno ad essi le migliori forze rivoluzionarie. La declinazione del “disfattismo rivoluzionario”, che si dà concretezza nelle forme e modi possibili, rimane il punto centrale dell’azione concreta. Questo è quello che abbiamo fatto qui, e che con la dovuta umiltà è nostro dovere rilanciare, tenendo in conto la diversità fra la nostra situazione e quella dei proletari palestinesi che vivono sotto gli effetti di una brutale guerra di sterminio. I problemi della vita e della morte, del pane e dell’acqua, del freddo e del fuoco, della precarietà di tutto pongono l’elemento di riflessione ulteriore a cui rispondere sul piano concreto. La realtà della guerra imperialista ci impone in maniera drammatica di far di nuovo scendere e misurare con la realtà le nostre parole d’ordine e indicazioni generali e tattiche. Questa è anche, per quanto in fase embrionale per la nostra coscienza di rivoluzionari della metropoli imperialista, la lezione che emerge dal ripresentarsi in forme violente e brutali dello spettro della guerra.

Contro la guerra imperialista e il sistema capitalista che la produce, contro ogni nazionalismo, per l’internazionalismo, contro l’economia di guerra, per l’internazionalismo. Pochi concetti che hanno definito la vostra presenza attiva e pubblica. Siete stati una delle poche formazioni internazionaliste, se non l’unica, a partecipare alle manifestazioni contro la guerra in Palestina. Ci spiegate questa scelta?


La guerra in Palestina, per come la vediamo e abbiamo cercato di spiegare, ha un significato che va molto al di là del dato contingente, e seppure occultati dietro la retorica nazionalista e/o imperialista, gli interessi proletari sono ben evidenti. Quindi il problema che ci siamo posti era, appunto, di far emergere questi dati e i reali interessi proletari. Sapevamo benissimo il contenuto e le espressioni che nella quasi totalità hanno caratterizzato questi eventi in senso nazionalista, ma nonostante ciò possiamo anche dire che possiamo mettere a bilancio una serie di esperienze su cui riflettere. In ogni caso per noi il problema post 7 ottobre è stato: qui siamo in presenza di un’accelerazione della corsa verso la guerra, che facciamo? La prima, ma non unica, risposta è stata: scriviamo dei volantini brevi e possibilmente efficaci e portiamoli in piazza, se c’è una guerra e ci sono delle piazze che si riempiono contro questa guerra, per quanto su di un piano di risoluzione illusorio, la voce internazionalista deve comunque essere presente: anche se in un rapporto di forza avverso, dobbiamo sforzarci di portare avanti la nostra agitazione, la propaganda dal punto di vista di classe, è questo che significa essere militanti di classe, capire come agire, anche nelle condizioni storiche sfavorevoli.

E com’è andata?

Come abbiamo visto le manifestazioni pro-palestina hanno avuto una larga eco nel mondo e anche qui da noi. Ci sono state iniziative e partecipazioni che non si vedevano da tempo per dei cortei politici. Ragionando in merito possiamo dire che ciò è stato l’effetto del convergere di diverse spinte spesso istintive, con comuni radici ma anche differenze. Dentro le mobilitazioni contro la guerra in Palestina si è manifestata sia la classica e storica posizione in favore dello stato palestinese, sia un istintivo scendere in piazza in “opposizione alle guerre” odierne, all’ennesima guerra scatenata dall’imperialismo occidentale, e al massacro di una popolazione inerme. Questi aspetti hanno trovato, con diversi gradi di coscienza, il loro punto di sintesi e composizione sulla base di quell’ “antimperialismo” che ha il suo cuore nella critica ai paesi del blocco occidentale in cui Israele è inserita. Qui parliamo sommariamente del livello di coscienza medio espresso che ovviamente ha al suo interno anche altri elementi, quali lo sdegno, la rabbia, etc. contro ciò che sta succedendo a Gaza, così come una opposizione (non sempre evidente a dire il vero) alle politiche del Governo in merito. Il classico blocco “campista” (ossia i filo-nazionalisti) che comunque ha un suo bacino di riferimento su tali questioni si è così trovato affiancato anche da elementi di piccola-borghesia democratica e da spezzoni più politicizzati.

Una critica che ci è spesso stata rivolta fondava la legittimità della lotta nazionale palestinese (e quindi degli eventi del 7 ottobre) sulla considerazione che allo stato delle cose non si può parlare di interessi di classe per i palestinesi non essendoci uno stato nazionale strutturato e quindi altrettanti rapporti di classe strutturati. Una variante di questo approccio è stata che non si potrebbe parlare di composizione proletaria per i palestinesi e che la borghesia palestinese non esisterebbe. Ambedue le posizioni danno priorità quindi alla lotta di liberazione nazionale. In altri casi si è collocata la questione palestinese in rapporto alla dinamica del “multipolarismo” vedendola come positiva nella prospettiva di costruire nuovi poli politici in opposizione ai progetti imperialisti occidentali. Anche qui, oltre ad una totale ignoranza del concetto di “imperialismo” ridotto ad una politica, si spende il nazionalismo quale ruota di scorta dell’imperialismo gonfiata con il sangue dei proletari. Nonostante ciò non abbiamo riscontrato ostracismo, quando vi era la possibilità siamo intervenuti e nel corso del tempo vi è stato un aumento dell’attenzione verso le nostre posizioni.

Riassumendo, i problemi maggiori che abbiamo riscontrato sono stati: 1) l’incapacità di comprendere come la questione nazionale palestinese non abbia una funzione progressiva dal punto di vista del capitalismo in quanto il capitalismo in quell’area si è affermato, nelle sue forme peculiari, da tempo; 2) l’incomprensione della natura dell’imperialismo in quanto si continua a riferirsi a questo concetto per indicare solo gli Usa e in subordine l’Europa e Israele e non si capisce che l’imperialismo è il modo di essere del capitalismo mondiale e che potenze globali come la Cina e la Russia o regionali come l’Iran e la Turchia partecipano a pieno titolo alla spartizione del mondo, sono a pieno titolo potenze imperialiste, più o meno grandi; 3) la difficoltà a svolgere un’analisi dei rapporti tra le classi e la difficoltà a comprendere che anche in Israele esiste un proletariato e in Palestina una borghesia e che la frattura di classe attraversa tutti i paesi del mondo – su questo tema abbiamo prodotto un dossier di riferimento; 4) l’illusione che Hamas e Fatah e l’Iran e i paesi arabi che finanziano il fronte palestinese della guerra abbiano in qualche modo a cuore la sorte della popolazione o vogliano far cessare il conflitto mentre questa guerra, con i sacrifici che implica, è solo una valvola che regola i rapporti tra le potenze nell’area; 5) posizioni che in estrema sintesi, prese da capo o da coda tengono ai margini, se non espellono totalmente dal proprio schema di pensiero e azione, la questione della lotta di classe e di una prospettiva indipendente della stessa.

Cosa ne tirate fuori da questo scorcio di attività?

Ora pensiamo che il nodo politico reale sia: quale spazio e quale peso reale per le posizioni internazionaliste? Possiamo dire con molto realismo che nei tempi di guerra la vita per gli internazionalisti si fa storicamente più difficile di quanto non lo fosse prima. Abbiamo già detto sinteticamente del “campismo” che assorbe quasi tutto nell’opposizione alla guerra imperialista (dove per imperialismo si intende erroneamente solo USA e Israele) e che, una volta abbandonati gli scampoli rivoluzionari, oggi è solo espressione di quelle logiche proprie al radical-riformismo che si proietta anche in questo campo. Dall’altro lato dobbiamo registrare come spezzoni più avanzati di strutture e compagni, di fronte ai nodi che la guerra ha posto, abbiano abbracciato posizioni “centriste” che di fatto al di là di una fraseologia di maniera internazionalista, sul terreno dello scontro reale hanno finito per sostenere una delle parti in campo. Se ciò per la guerra in Ucraina poteva apparire poco manifesto, con l’attuale guerra in Palestina si è palesato in maniera chiarissima. Quelli che ancora apparivano internazionalisti confusi all’indomani del 24 febbraio 2022 si sono rivelati come coerenti filo-nazionalisti dopo il 7 ottobre 2023.

Gli appigli, le sfumature teoriche, politiche, di ragionamento sono molteplici e non ci interessa qui analizzarle, possiamo dire che ciò che alla fine conta è solo la disposizione concreta nello scontro reale sulla base degli interessi internazionali del proletariato. Altro non c’è. Ovviamente su tutte le espressioni della soggettività esistente grava la spinta delle politiche della borghesia imperialista che da par suo, per i suoi interessi generali, va ad incidere costantemente nel tessuto proletario e nelle condizioni di espressione del conflitto di classe stesso, facendo anche del proprio posizionamento nelle guerre in corso uno degli elementi fondanti per la ristrutturazione in senso autoritario e repressivo del proprio sistema. È in questo quadro che gli internazionalisti si trovano a navigare. Un quadro che di fatto assomma più difficoltà che possibilità. Ma proprio per questo, a nostro avviso, il terreno materiale della prassi diventa essenziale per misurare e verificare costantemente il proprio agire e cogliere i problemi che ne derivano e le soluzioni praticabili rispetto ai nodi da affrontare che la realtà solleva. In questo senso insieme ad altri compagni abbiamo lanciato la proposta di un incontro fra gli internazionalisti (vedi documento in coda).

Parlateci di questa iniziativa.

Chiaramente è stata una scelta politica messa in campo tenendo in conto due fattori. Il primo che la guerra ha spostato concretamente l’asse dei problemi e la condizione da affrontare anche per gli internazionalisti. Misurarsi con questa realtà è sia la condizione comune che anche, come abbiamo visto, il terreno politico di posizionamento e discriminante la collocazione degli internazionalisti. Il secondo fattore era la coscienza di misurarsi non solo con la condizione di estrema debolezza complessiva delle posizioni internazionaliste che vivono lo spazio politico odierno, ma anche di confrontarsi con forze fortemente frammentate e ognuna attestata metodologicamente sui propri percorsi politici ed organizzativi. A questi fattori si poteva approcciare in diverso modo e magari con diverse aspettative. Per quel che ci riguarda abbiamo affrontato il tutto con il massimo realismo possibile, senza idealismi di sorta, misurando ogni passaggio ed ogni proposta a ciò che era ed è concretamente realizzabile nella pratica.

La riunione degli internazionalisti tenuta ai primi di dicembre ha visto riferimenti di contenuto comuni nell’analizzare la situazione odierna e le discriminanti internazionaliste in merito. Come era altrettanto ovvio, scendendo dal piano di riconoscimento comune generale a quello della proposta l’atteggiamento si è differenziato. Sinceramente non ci aspettavamo niente di diverso. Non avevamo in programma né palingenesi unitariste, né attivistiche. Siamo partiti da una proposta concreta che era quella di misurarsi con la possibilità di costruire un comune manifesto internazionalista, lasciando aperta la possibilità di farne anche un assemblea/contraddittorio pubblico comune. I risultati raggiunti possono apparire poca cosa rispetto ai problemi da affrontare e se misurati sull’ordine delle necessità, ed effettivamente lo sono. Ma non solo si è riusciti a stabilire un primo momento di dibattito tra gli internazionalisti, ma si è anche riusciti a strutturare un piano di confronto e scambio con una sua continuità, una convergenza oggettiva e soggettiva nella difesa delle comuni posizioni internazionaliste dove la situazione lo richiede, un’attivazione di singoli compagni sul terreno internazionalista. Su un altro piano, quello pratico del manifesto, si è andati a stringere con tutti coloro che ci stavano, il testo è stato approvato e oltre 500 manifesti sono stati affissi per le strade della città, mentre per la fattibilità dell’assemblea le valutazioni sono state divergenti. Un piano sicuramente minimale, ma dove l’input principale è stato quello della agit-prop delle posizioni internazionaliste il più largo possibile. Anche in questo caso, senza confondere da parte nostra il momento del confronto politico, dell’organizzazione dell’attività e della sua messa in pratica, con processi politici di omogeneizzazione che non erano all’ordine del giorno e che richiedono criteri e passaggi del tutto diversi. L’esperienza dei contenitori non fa per noi, ma abbiamo interesse a fare esperienza per mettere a fuoco quelli che sono i problemi pratico-politici che solo dall’esperienza possono nascere.

Quali prospettive vedete per questo processo?


Si è trattato di un passaggio con contraddizioni a noi ben chiare. In linea generale pensiamo che un ruolo di peso delle posizioni internazionaliste nelle dinamiche dello scontro di classe possa darsi solo nella capacità di dare risposte nella prassi con un’adeguata strategia che risponda alle necessità del proletariato internazionale. Questo è un problema che attiene pienamente alla soggettività rivoluzionaria. Siamo convinti che richiamarsi alla ripresa del conflitto di classe e alla necessità del partito (che pur riconosciamo), in sé significhi poco come “risolutore” dei problemi dei rivoluzionari. Ulteriore nostra convinzione è che nella fase odierna a cui è giunto il capitalismo, le stesse condizioni di una ripresa dell’attività di classe nel confronto con il processo di guerra e controrivoluzionario a largo raggio, porterà ai rivoluzionari più problemi che soluzioni nel rispondere alla necessità di avviare concretamente e dare risposta ai problemi dell’alternativa al capitalismo. Sicuramente, come sempre è stato, lo sprofondare del capitalismo nelle sue contraddizioni imporrà alla classe e alle sue avanguardie politiche un salto e una rottura alla dimensione di attività dei rivoluzionari. Come vediamo in ciò non c’è nulla di lineare, anzi. La fase di estremo arretramento della nostra classe, il residuo peso politico delle posizioni rivoluzionarie sono elementi interni ad una fase che comunque evolve e pone all’ordine del giorno sempre nuovi nodi e problemi. Per questo come nostro principio costitutivo abbiamo posto al centro la questione dell’agire della soggettività rivoluzionaria in rapporto ad una prassi sviluppata nel tentativo di rispondere ai problemi che di volta in volta sono sul tappeto.

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INVITO AGLI INTERNAZIONALISTI PER UN’INIZIATIVA POLITICA COMUNE VOLTA A PROPAGANDARE I PRINCIPI DI CLASSE RISPETTO ALLA GUERRA.

Cari compagni,

sulla scorta di quanto sta avvenendo oggi in Israele-Palestina e, in particolare, considerando: 1) la gravità dell’inasprirsi del confronto bellico, con una strage di proletari che segna l’ulteriore passo avanti del capitalismo verso la guerra interimperialista generalizzata; 2) l’evidente debolezza e dispersione delle poche forze che si richiamano oggi all’internazionalismo; 3) la necessità di dare maggiore visibilità alle posizioni politiche sulla guerra di classe e rivoluzionarie.

Riteniamo di avere in comune con voi almeno i seguenti punti politici: 1) in Palestina – come in Ucraina, come nelle altre guerre – la questione è sempre di classe e mai di nazione; 2) nessun appoggio a nessuno dei fronti imperialisti sempre in campo nelle guerre nazionali; 3) non esiste via d’uscita alla crisi e alla guerra capitalista se non ci si colloca nella prospettiva del superamento rivoluzionario e di classe della società della guerra e dello sfruttamento: del capitalismo.

Vi proponiamo, pertanto, di realizzare assieme un primo incontro che abbia il carattere del confronto tra le posizioni internazionaliste presenti sul territorio romano e che questo avvenga sulla base di un obiettivo concreto e circoscritto da realizzare.

In pratica, un incontro volto a verificare l’esistenza o meno di un minimo di terreno politico comune tra noi internazionalisti tale per cui si possa dare vita ad almeno una concreta esperienza comune. In questo incontro: 1) ognuno esporrà sinteticamente le proprie visioni in merito ai problemi dell’opposizione internazionalista alla guerra e 2) al come poter rendere più forte la propaganda e l’attività internazionalista rispetto a questo ambito; per 3) focalizzare il tipo di lavoro fatto fin qui da ognuno e la natura e l’inquadramento dei problemi incontrati nello svolgimento di tale lavoro politico, affinché si possano avere ulteriori elementi di bilancio che vadano oltre le esperienze singole. Su queste basi 4) verificare l’esistenza o meno di un comune denominatore tale da poter dare vita a una iniziativa politica comune come, proponiamo, la produzione, diffusione e affissione di un manifesto murale che propagandi le parole d’ordine internazionaliste sulla guerra a firma p.es. “Gli internazionalisti”. Il manifesto potrebbe rilanciare una successiva assemblea pubblica nella quale i singoli e gruppi aderenti troveranno equo spazio per una propria presentazione dell’opposizione internazionalista alla guerra con seguente confronto.

Siamo certi di una risposta da parte vostra in senso positivo o negativo a questa proposta e, sulla base delle risposte ricevute, valuteremo insieme se e come realizzare concretamente la cosa. Se sei interessato/a conferma la tua adesione a chi ti ha inviato questo messaggio.


I compagni del Laboratorio Internazionalista e di Società Incivile dal cui confronto è nata la presente proposta.

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