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Quanti “aiuti” all’Ucraina per prolungare all’infinito la guerra contro la Russia!

(8 Febbraio 2024)

Ucraina protesta

Mancava solo lei, una delle belve più sanguinarie del complesso militare-industriale statunitense, Victoria Nuland, ma puntuale è arrivata sabato 4 febbraio a Kiev, luogo di precedenti delitti. Ciò che ha detto andando via dall’Ucraina non lascia spazio alle interpretazioni: “me ne vado con maggiore certezza che, con il rafforzamento della difesa ucraina, Putin avrà delle belle sorprese sul campo di battaglia e l’Ucraina avrà un successo molto serio quest’anno”. Il suo ultimo dono agli ucraini, da quel che ci è dato sapere, sarebbero delle nuove bombe (di precisione) di piccolo diametro a lungo raggio, appena testate negli Stati Uniti.

La guerra tra NATO e Russia in Ucraina, è certo al cento per cento ormai, continua. E continua sul tracciato degli ultimi mesi: bombardamenti ucraini-NATO direttamente sui civili del Donbass (mercati, stazioni di autobus e simili), bombardamenti sempre più in profondità sul suolo russo. A sua volta Mosca prende di mira in misura crescente le strutture industriali e le città dell’Ucraina, arrivando di quando in quando, con Medvedev, che non è uno scappato di casa bensì il vice-Putin, a ventilare apertamente la “soluzione finale” del nucleare (in parallelo con analoghe sortite di ministri israeliani contro i palestinesi – o si tratterebbe, in questo caso, di un nucleare buono, perché “anti-nazista”?).

La disfatta dell’offensiva di primavera ucraina è pressoché completa. Invece che “liberare” i territori occupati dall’esercito russo e addirittura la Crimea, è servita solo ad alzare verso il cielo la montagna di cadaveri ucraini dati in pasto ai comandi della Nato e dell’Unione europea. In campo economico il Financial Times di ieri registrava un’altra disfatta occidentale: quella delle sanzioni, dal momento che l’economia russa dimostra “una straordinaria stabilità”, e crescerà nel 2024 più di ogni economia del G-7. Quindi? Per gli strateghi della guerra alla Russia, la risposta non può essere altra che prolungare la guerra in Ucraina e intensificare gli attacchi sul territorio russo per raggiungere l’obiettivo fin qui fallito: logorare la Russia, facendole pagare un altissimo prezzo per la sua decisione di prendersi il Donbass. Ed è quanto ha “svelato” qualche giorno fa la Washington Post già nel titolo di un suo pezzo: “I piani di guerra degli Stati Uniti per l’Ucraina non prevedono più la riconquista del territorio perduto”. Cosa prevedono, invece? La “sicurezza a lungo termine e il sostegno economico” all’Ucraina per provare “una risolutezza duratura nei confronti del presidente russo Vladimir Putin”. In sostanza si sta pianificando un altro decennio di guerra non essendo la Russia, al momento, logorata.

Eravamo stati facili profeti nel sostenere – un anno e mezzo fa – che “la guerra in Ucraina è destinata a durare perché né la NATO né la Russia possono accettare una sconfitta”. Sono arrivate negli scorsi giorni una molteplicità di conferme che la NATO non intende in nessun modo accettare la sconfitta fin qui patita sul campo (patita dai soldati ucraini). C’è anzitutto l’intesa decennale di cooperazione militare tra Ucraina e Regno Unito, solennizzata dalla visita di Sunak a Kiev e illustrata dalla ammonizione che il comandante in capo dell’esercito, generale Sanders, ha rivolto ai cittadini britannici, soprattutto giovani: Il paese deve reclutare e addestrare un esercito di cittadini pronti alla battaglia [in caso di guerra di terra contro la Russia]. L’Ucraina dimostra brutalmente che gli eserciti regolari iniziano le guerre, ma sono poi gli eserciti dei cittadini che le vincono.”. Chiaro. C’è poi lo sblocco di 50 miliardi di “aiuti aggiuntivi” dell’Unione europea all’Ucraina, sempre nell’ottica di un’“assistenza a lungo termine” e la solenne promessa di Borrell: accrescendo la sua produzione del 40% in un anno, la UE consegnerà in dono a Kiev, nel 2024, 1.155.000 proiettili di artiglieria. E ancora: la preparazione di un accordo bilaterale tra Francia e Ucraina su base decennale. Quindi, la decisione della Svezia di introdurre, mentre si avvicina a grandi passi alla NATO, una forma di servizio militare nazionale (non professionale), decisione lodata dal generale Sanders con questa motivazione: “Bisogna adottare delle misure preparatorie per consentire di mettere le nostre società sul piede di guerra. Tale azione non è semplicemente auspicabile, ma essenziale”. Dichiarazioni altrettanto belliciste sono venute dal ministro della difesa tedesco Pistorius e da alti ufficiali olandesi in riferimento a una “possibile guerra” contro la Russia. La Polonia è forse più avanti di tutti in questa mobilitazione, se è vero che sta intensificando al massimo nei suoi impianti industriali la produzione di esplosivi, fucili, cannoni e veicoli corazzati per il trasporto truppe con l’obiettivo del raddoppio in due anni. E per intanto il 22 gennaio è partita Steadfast Defender, la più imponente esercitazione militare della NATO dal 1988: 90.000 uomini, 50 navi militari, 80 aerei, 1.100 veicoli da combattimento, 32 paesi coinvolti, per “adottare nuove manovre di contrasto ad un ipotetico attacco da parte della Russia a uno dei paesi” membri della NATO – l’esercitazione arriverà fino ai confini della Russia. Il Regno Unito del dopo-Brexit, primatista nelle provocazioni anti-russe, si è spinto oltre, invitando i paesi della NATO a partecipare direttamente al conflitto in Ucraina – in modo aperto, ufficiale, si capisce, perché la NATO è dentro questa guerra fin dai suoi inizi. Londra ha avanzato la proposta di portare in Ucraina quanto prima grossi contingenti della NATO da schierare ai confini della Polonia e della Romania per “liberare” forze ucraine da scaraventare al fronte. I loro grandi protettori di oltre Oceano hanno pensato bene di premiarli per la loro devozione alla causa che fu un tempo del nazismo tedesco, dislocando nella contea di Suffolk nuove, potenti bombe nucleari (tre volte più potenti di quelle sganciate democraticamente su Hiroshima e Nagasaki) da destinare al nemico russo.

Il governo Meloni è parte integrante di questo vorticoso insieme di manovre di guerra al classico modo italiano: affermare e al tempo stesso negare. Per cui Crosetto può affermare categoricamente che “sarebbe un errore drammatico fare un passo indietro” nel sostegno militare totale all’Ucraina, e può al contempo, negando l’evidenza, spergiurare che “non c’è un governo che sostiene la guerra, il governo fa di tutto per cercare la pace”. Ed è proprio per questo, la ricerca della pace, che Meloni & Co. abbiano svolto un ruolo di primo piano nel convincere il governo ungherese a dare il via libera ai 50 miliardi aggiuntivi di “aiuti” all’Ucraina, che sono essenziali per impedirne il crollo e prolungare a tempo indefinito la guerra. Patetici i tromboni “rosso”-bruni, in genere ammiratori di Orban, che accusano Meloni & Co. di servilismo verso gli Stati Uniti e l’Unione europea: l’esecutivo delle destre serve gli interessi del capitalismo made in Italy che, al momento, sono tutelati dentro l’Alleanza atlantica. Punto.

E l’Ucraina? cosa ne è dell’Ucraina? L’Ucraina è un corpo straziato, se non proprio agonizzante. Nonostante abbia ricevuto in un anno e mezzo 233 miliardi di dollari di “aiuti esteri” – aiuti a suicidarsi -, una cifra record, superiore al suo pil del 2021, il bilancio militare di due anni di guerra è disastroso. Ha perso il 20% del suo territorio. Le minuscole aree riconquistate all’esercito russo sono inabitabili. I soldati morti e feriti ormai arrivano ad un milione. Secondo il Sunday Times, che cita come fonte la ong Globsec, circa il 30% dei soldati in prima linea soffre di disturbi mentali acuti, una situazione drammatica riconosciuta dallo stesso Ministero della sanità ucraino secondo il quale, una volta conclusa la guerra, avranno bisogno di cure per i traumi psicologici subiti da 3 a 4 milioni di persone, sia militari che civili, circa un decimo della popolazione. La banda Zelensky incontra crescenti difficoltà a reclutare. Il reclutamento avviene, ormai, nella forma di sequestro a mano armata degli uomini per strada, sempre più rari peraltro, timorosi di essere sequestrati e pronti alla fuga se avvertono il rischio cattura. La disperazione dei comandi militari è arrivata al punto che il comandante della 118^ Brigata di difesa territoriale Anatoly Stuzhenzo ha fatto la seguente proposta: “Non sei sceso dall’auto? [quando i commissari militari te lo hanno intimato]. Allora ti sparano alle ginocchia. Deve essere così, altrimenti non vinceremo. Mentre stiamo giocando alla democrazia [la legge marziale non è stata formalmente approvata, anche se vige di fatto – n.], presto raggiungeremo uno stato tale che i cittadini iniziano a prendere a calci noi militari” (anche in questo caso ci viene in mente un ministro israeliano, il “pacifista” Rabin, che propose di spezzare le ginocchia e le mani dei palestinesi che partecipavano alla prima Intifada). Ecco perché Zelensky e soci hanno messo nel mirino gli ucraini emigrati all’estero, e hanno cominciato a fare pressione sui governi europei per “agevolarne” il rimpatrio.

L’enormità delle perdite subite, il fallimento dell’offensiva, l’impasse del reclutamento e con ogni probabilità la furibonda contesa per arraffare gli “aiuti” esteri, hanno portato allo scontro Zelensky-Zaluzhny. Non è chiaro quali siano le divergenze di strategia militare tra le due cosche; è evidente però che si stanno accoltellando, forse perché sono al servizio di poteri esterni differenti che altrettanto furiosamente si contendono le commesse militari e le ricchezze dell’Ucraina in svendita. Mentre da due anni i proletari, i figli delle famiglie contadine, la gente priva di protezioni e di mezzi per corrompere i reclutatori, crepano a frotte ogni giorno sul lungo fronte delle operazioni belliche, l’economia va a rotoli. Secondo un rapporto della Banca mondiale l’Ucraina ha di fatto perso il 60% della sua produzione metallurgica, dislocata in larga misura nei territori ora sotto controllo russo, una voce storica delle sue esportazioni. A detta del Financial Times solo un terzo delle imprese delle regioni meridionali e orientali, le zone dei più accesi combattimenti, sono rimaste ai livelli produttivi di anteguerra. Ma anche nell’ovest del paese, rimasto finora quasi immune dal conflitto, c’è stato un forte calo dei profitti (-40%) e degli occupati (-20%) rispetto al 2021. Per l’insieme delle imprese tuttora in attività esistono problemi di approvvigionamento energetico, di connessione a internet, di interruzione delle forniture e, soprattutto, di personale reclutato dall’esercito e dalle milizie territoriali o fuggito all’estero. Il 20% delle grandi imprese dichiara di avere dovuto ridurre la produzione per carenza di addetti; l’indebitamento è salito vertiginosamente (il 50% delle imprese ritiene di essere a rischio fallimento); gli investimenti sono crollati del 76%. E se tutto ciò non bastasse, è arrivata la mobilitazione degli agricoltori polacchi, gli amiconi storici, che si stanno preparando a bloccare per un intero mese tutti i valichi di frontiera con l’Ucraina per impedire a qualsiasi prodotto agricolo ucraino di entrare in Polonia. L’accusa ai loro concorrenti ucraini è di esportare le loro merci a prezzi troppo bassi. Allarmati dalle montanti proteste degli agricoltori, l’Unione europea potrebbe decidere di sospendere almeno in via temporanea (“emergenza”) le forniture di prodotti agricoli ucraini che ora entrano nei mercati europei senza pagare dazio. Tra i pochi a cavarsela niente male in questo disastro sono i parlamentari: da una maliziosa inchiesta risulta infatti che nel primo anno di guerra un terzo dei componenti della Rada ha acquistato una casa o un’automobile di lusso, per lo più Lexus e Mercedes Benz, con un massimo di attivismo dei membri del partito al potere (Sluga naroda, i “Servi del popolo”). E per fortuna (ossia: per propri interessi) che la Russia continua a rispettare la fornitura di gas all’Ucraina, altrimenti sarebbe la catastrofe economico-sociale completa.

Anche in questo caso ci pare di poter ripetere quanto sostenuto nel nostro libro La guerra in Ucraina e l’internazionalismo proletario: “la borghesia ucraina, in particolare il nazionalismo in affitto di Zelensky, ha la colpa imperdonabile di avere messo il territorio ucraino a disposizione dei piani di guerra della NATO gettando la propria popolazione nell’abisso di una guerra sanguinosa e distruttiva nell’interesse dei soprastanti occidentali e di un pugno di profittatori ucraini – e di avere esercitato una violenta vessazione armata sulla popolazione del Donbass con molte migliaia di morti”. E da quel po’ che si riesce a sapere, la delusione di massa, e anche la rabbia, nei confronti del governo Zelensky e delle sue proclamazioni di vittoria nella guerra, è molto cresciuta negli ultimi tempi, con in prima fila le donne che cercano in tutti i modi di ostacolare il reclutamento dei propri mariti, fratelli, padri, e reclamano il ritorno dal fronte, come promesso da Zelensky, di quanti vi sono rimasti per un anno intero scampando in via di eccezione alla morte.

L’establishment della Russia non può che godere di tutto questo. Noi no. Perché è fin troppo chiaro che se questo disastro non produrrà una sollevazione di massa contro il governo di Kiev e la NATO, la guerra non solo continuerà, ma si intensificherà sul suolo russo. E perché ci è altrettanto chiaro dall’inizio che le ragioni per cui la Russia ha deciso di invadere l’Ucraina non hanno nulla a che vedere con l’obiettivo di de-nazificare l’Ucraina (a mezzo Wagner? Ma dai!), o con la “minaccia esistenziale” abilmente sventolata da Putin per gli allocchi. Sono ragioni che, dovrebbero vederlo anche i ciechi, affondano nella crisi sempre più profonda del dominio statunitense-occidentale nel mondo, e nella aspirazione, più volte ripetuta da Putin (ammiratore della “Russia millenaria”), cogliere l’occasione favorevole di questa crisi per riportare la Russia alla potenza passata quando Mosca era la capitale di un impero che univa russi, bielorussi e ucraini, e un’infinità di altre popolazioni (una “prigione di popoli”, secondo Lenin). Non un ritorno all’indietro, evidentemente impossibile, ma un passo in avanti della Russia nella divisione internazionale del lavoro (rispetto al funesto decennio di Eltsin) e nella rispartizione delle ricchezze del mondo, e della prima tra queste ricchezze: la forza-lavoro viva.

La situazione militare, economica e politica della Russia – a due anni dall’invasione – è incomparabilmente migliore di quella ucraina. Ma ci sono stati negli ultimi mesi almeno tre segnali che non tutto procede nel migliore dei modi possibili. Primo: ad un anno dalla decisione di arruolare anche i condannati per reati gravi, il Cremlino ha deciso di intensificare il reclutamento di stranieri. Come? Un decreto presidenziale del 4 gennaio promette – esattamente allo stesso modo degli arcinemici di Washington con il miraggio della ‘carta verde’ agli immigrati Latinos – un accesso ultra-privilegiato alla cittadinanza russa per chi si arruola: è sufficiente un contratto di un solo anno nell’esercito, non c’è neppure bisogno di conoscere lingua e storia della Russia. E il beneficio si estende ai coniugi, ai figli e ai genitori delle reclute. A stare ad una testimonianza diretta dalla Russia, sembra che esista una variante specifica per gli immigrati caucasici leggermente meno volontaria: vieni fermato per un controllo sul tuo permesso di soggiorno, il poliziotto identifica una qualche irregolarità (anzitutto se è scaduto), e ti arresta. Dopo l’arresto, ti viene prospettata una buona opportunità di “lavoro”, di certo meglio remunerata del tuo attuale impiego, e che addirittura ti dà la possibilità di risolvere una volta per tutte la questione della tua regolarità. Insomma, una sorta di legione straniera… spintanea. Secondo: il ritorno a Mosca, qualche giorno fa, di sia pur piccole manifestazioni di mogli dei soldati mobilitati al fronte. Terzo: la protesta di centinaia di dimostranti nella piccola città baschira di Baymak, nata in risposta alla condanna a 4 anni di reclusione di un attivista locale, Fail Alsymov, per avere denunciato quale “pulizia etnica mascherata” l’arruolamento della popolazione baschira come carne da cannone per la guerra in Ucraina (cos’altro è?). Era dal settembre 2022 che non si vedeva una protesta così partecipata e calda. Da anni lì la popolazione si batte contro l’apertura di nuove miniere e cave, denunciando la devastazione ambientale come forme di incuria di Mosca verso un territorio abitato da una “minoranza etnica”. La polizia ha risposto con cariche e arresti. Si tratta di una spia del malcontento che sale nelle zone periferiche della federazione (Baschiria, Buriazia, Daghestan, Cecenia), le più colpite dalla cosiddetta mobilitazione parziale, che presenta un’enorme sproporzione tra il numero di caduti e feriti sul fronte ucraino provenienti dalle minoranze nazionali rispetto a quelli delle aree intorno alle metropoli Mosca e San Pietroburgo.

Torneremo quanto prima su questi e altri segnali di incrinatura se non di scollamento, tra i governanti di Mosca e la massa proletaria. In ogni caso la prosecuzione della guerra e la sua espansione sul territorio russo, per noi certe entrambe, richiederanno un pedaggio di sangue e di sacrifici ai lavoratori e alle lavoratrici della Russia assai maggiori di quello pagato finora. E li porteranno a vedere in modo più lucido la reale natura di questa guerra.

Per noi qui che siamo sempre meno lontani dal fronte ucraino, la consegna imperativa è di riprendere la mobilitazione contro la guerra tra NATO e Russia in Ucraina. A cominciare dalla denuncia del ruolo bellicista del “nostro” governo e del “nostro” apparato militare e diplomatico in quel conflitto, come in Palestina, nel mar Rosso, in Medio Oriente, nei Balcani… Serviranno anche a questo le giornate di sciopero e di lotta del 23 e 24 febbraio, a preparare le quali stiamo lavorando intensamente, in Italia e in collaborazione con forze anti-capitaliste in tanti altri paesi.

P. S. – La Polonia si è offerta di ‘aiutare’ Kiev nella deportazione degli ucraini in età militare dai paesi dell’Unione europea. Lo ha fatto attraverso le parole dell’ex comandante delle forze di terra, generale Waldemar Skrzypczak: “Questa dovrebbe essere un’iniziativa dei governi di Varsavia, Parigi, Praga e ovunque si trovino. Questi governi dovrebbero aiutare Kiev a deportare in patria gli ucraini in età militare”.

P. P. S. – Nel disegno di legge sulla mobilitazione appena approvato dal Gabinetto dei Ministri dell’Ucraina, le sezioni chiave sono rimaste invariate, salvo l’abbassamento dell’età del reclutamento da 27 a 25 anni. Sono confermate le sanzioni previste per coloro i quali evadono la leva: tra esse il sequestro dei conti bancari e dei valori depositati presso le banche, il divieto di viaggi all’estero, il ritiro della patente. Il periodo minimo di servizio di leva è di tre anni (salvo, naturalmente, i rampolli della classe dominante, opportunamente emigrati all’estero o messi con altri stratagemmi al riparo dalla fastidiosa incombenza di essere spinti verso la morte in giovane età). In base a questo nuovo disegno di legge ogni qualvolta un cittadino ucraino all’estero si rivolge alle autorità consolari dovrà presentare i documenti relativi alla registrazione militare.

Il pungolo rosso

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