">
il pane e le rose

Font:

Posizione: Home > Archivio notizie > Capitale e lavoro    (Visualizza la Mappa del sito )

Madrid - Roma

Madrid - Roma

(30 Settembre 2012) Enzo Apicella
A Madrid assedio del Parlamento, a Roma assedio dei negozi Apple

Tutte le vignette di Enzo Apicella

costruiamo un arete redazionale per il pane e le rose Libera TV

SITI WEB
(Capitale e lavoro)

Sinistra, torna il virus della caccia al traditore

dal Corriere della Sera del 17 maggio 2003

(18 Maggio 2003)

«Trotzkji si vendette allo stranieeero / ma il piccon con lui non fu leggeeero», cantavano nel ’68 i marxisti-stalinisti sulle note di «Pensiero» dei Pooh. Era solo una rima becero-goliardica, la intonavano tra i tormentoni pecorecci tipo «Osteria numero uno!» e non avrebbe meritato attenzione se non fosse stata uno di quei piccoli indizi dai quali capisci in che tempi vivi. Neanche Marco Ferrando, un professore savonese della minoranza rifondarola, va preso troppo sul serio: è un trotzkjista-surfista che alla caduta di Prodi accusò Cossutta di fare «gli interessi della borghesia» e spiegò poi il ballottaggio Chirac-Le Pen come una scelta «tra la peste e il colera». La sua invettiva contro Cofferati, reo di essersi schierato contro il referendum sull’articolo 18, è però qualcosa di più dell’anatema di un isolato intellettuale irriducibile. E riassume brutalmente un’idea che serpeggia davvero nella sinistra più dura.

Quella del tradimento. Accusa che nel passato lontano e recente ha causato un sacco di guai. L’ha detto Fausto Bertinotti: «Sergio tradisce la sua gente». Lo hanno ripetuto certi militanti delusi, come Alessandro Rossi, nelle e-mail al sito di Aprile : «Come sindacalista Fiom-Cgil mi sento tradito». Lo ha suggerito, con una formula retorica scivolosetta, Cesare Salvi: «Temo che milioni di persone possano sentirsi tradite da Cofferati, e spero che non sia così». Marco Ferrando ha fatto un passo in più. Spiegando a Luca Telese che il Cinese va a tutti gli effetti considerato «in senso puramente etimologico» come un «traditore» che ha messo «a rischio una vittoria possibile per l’estensione dei diritti, a tutto vantaggio di un governo reazionario». Dunque «un oggettivo alleato della Confindustria e di Silvio Berlusconi».

Che l’ex segretario della Cgil abbia o meno ragione nella sua scelta di dire che non andrà a votare ma senza fare propaganda per l’astensione è del tutto ininfluente. Può anche avere tutti i torti lui. Certo è che questa caccia ai «traditori» di sinistra, dopo le contestazioni ai leader sindacali rei di aver firmato col governo il Patto per l’Italia, dopo i fischi e gli insulti e infine le minacce a Savino Pezzotta, comincia a diventare negli ultimi tempi un po’ troppo frequente. E dovrebbe preoccupare prima di tutto quanti, proprio a sinistra, hanno la testa sul collo.

E’ vero: l’accusa di tradimento, a dispetto di quanto disse un giorno Franco Marini e cioè che «in politica il tradimento non esiste», è stata scagliata spesso negli ultimi anni in Italia. Da tutti. Fini è stato dipinto da Rauti come «peggio di Badoglio, che almeno aveva tradito nel momento della sconfitta». Bossi seppellito da Berlusconi dopo il «ribaltone» sotto una grandinata di «Giuda, truffatore, traditore dalla doppia, tripla, quadrupla personalità». Bertinotti additato da Franceschini come l’uomo che aveva «tradito, uscendo dal governo, quei lavoratori e quelle famiglie in difficoltà che a parole, ma solo a parole, dice di voler difendere». Tremonti contestato nel ’94 al grido di «traditore» dagli elettori del Patto Segni che lo avevano eletto.

E così via. Fino all’accusa corale del Polo a Oscar Luigi Scalfaro, pubblicamente bollato da Sgarbi come «una scorreggia fritta» in una manifestazione in piazza Montecitorio (a proposito del rispetto per le istituzioni preteso martedì a Bari da Berlusconi), di avere tradito la volontà «del popolo sovrano».

Ultima puntata, quella dell’altro giorno in cui Giuliano Ferrara ha investito Martelli, il quale gli aveva scritto rivendicando una presunta raccomandazione, con una vagonata di insulti: «Bugiardo malmostoso, traditore della recente storia italiana, viscido serpente con la pelle rifatta e nemmeno a sonagli. Non si metta mai più sulla mia strada perché lo torco con le mie mani». Fin qui, però, siamo dentro quel mondo di tradimenti e scazzottate e gelosie in qualche modo parenti delle corna.

Nel mondo del socialismo reale no, lì il tradimento era davvero un’altra cosa. Basti ricordare il peso avuto nell’immaginario collettivo comunista anche italiano de La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky di Lenin. O la Piccola enciclopedia del Socialismo e del Comunismo prodotta dalle Edizioni Calendario del Popolo che alla voce Lev Davidovic Bronstein scriveva «uomo politico russo menscevico passato poi al al bolscevismo e, successivamente, al tradimento della rivoluzione». O il divieto a Botteghe Oscure, ai tempi di Secchia, di usare fazzoletti di carta perché i guardiani dell’ortodossia non volevano sporcarsi rovistando di notte nei cestini in cerca di prove contro eventuali traditori. O i corsi alla scuola del Pci delle Frattocchie raccontati anni dopo da Maria Antonietta Macciocchi: «Alla "kista", la maieutica dell’autocritica non socratica, seguiva poi un secondo atto, il più duro da sopportarsi. Era la volta degli allievi a interrogare la protagonista dell’autocritica con le domande più acrimoniose o folli, tipo "hai mai avuto amanti?", "hai mai tradito il partito?"». Altri tempi, ovvio. Ma certe ferite, riacutizzate da troppe rivendicazioni degli anni di piombo piene di burocratica ferocia contro poveretti assassinati come «traditori della classe operaia», sanguinano ancora. Come sanguina il ricordo recente di Massimo D’Antona, giustiziato da un commando brigatista dopo una folle «sentenza» basata esattamente su quel maledetto stereotipo. E quello recentissimo di Marco Biagi, che prima di essere ucciso aveva confidato agli amici quanto lo straziasse il dolore di essere considerato «un traditore».

Fu proprio Sergio Cofferati, allora, a essere additato come uno dei protagonisti di quel giudizio così sbrigativo e sprezzante che, nei giudizi di qualche commentatore, si era involontariamente prestato a una lettura criminale da parte dei terroristi. Lui negò, spiegò, respinse ogni veleno accanitamente. Senza immaginare che un giorno quella parola brutta sarebbe stata appiccicata anche a lui. Lì si va a finire: nella logica del «tradimento» può sempre capitare che qualcuno, un giorno o l’altro, individui il traditore in te. Per carità: nessuno dubita che le infelicissime sortite di Ferrando e degli altri incauti censori siano state solo delle sbracate forzature polemiche. Ma non sarebbe il caso, dopo quanto è successo negli anni, di abolire per sempre certe parole?

di GIAN ANTONIO STELLA (Corriere della Sera)

Fonte

Condividi questo articolo su Facebook

Condividi

 

Notizie sullo stesso argomento

Ultime notizie del dossier «Articolo 18 per tutti»

5883