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Terroristi

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(4 Gennaio 2011) Enzo Apicella
Dopo Pomigliano anche a Mirafiori il ricatto di Marchionne: o lavorare schiavi o non lavorare più

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Fiat esige la flessibilità schiavistica della forza-lavoro

Il parziale NO al diktat padronale salva solo la dignità operaia, ma ci vuole l’organizzazione di classe

(24 Settembre 2010)

Con il Gruppo Fiat ci troviamo di fronte a un nuovo snodo: alla riorganizzazione ultraflessibile e dispotica dello stabilimento Giambattista Vico di Pomigliano d’Arco e, da subito, del mercato del lavoro meridionale. Vediamo cosa bolle in pentola prima di valutare. Il 30 marzo 2010 in un incontro al Ministero dello Sviluppo Economico l’A.D., Marchionne, illustra alle Organizzazioni Sindacali un pianodiretto «a rafforzare la posizione strategica produttiva di automobili in Italia»con l’avvio della produzione della Panda presso lo stabilimento campano. E chiede di condividerne gli obbiettivi. Il pianoè denominato «Progetto Fabbrica Italia»e prevede il raddoppio della produzione di automobili in Italia entro il 2014, passando dalle 650 mila auto odierne a 1 milione e 400 mila con 270-280 mila Panda a Pomigliano; prevede inoltre l’esportazione nel 2014 di 1 milione di veicoli, nonché l’investimento di 20 dei 30 miliardi progettati per il mondo. Il pianoconsidera lo stabilimento di Pomigliano, in cui progetta di investire 700 milioni, il primo test per l’intera Fabbrica Italia. Il pianosi basa poi su due alternative: la A e la B. La prima ipotizza che il Gruppoproduca e venda, nel giro di 4 anni, 6 milioni di veicoli all’anno: 2,2 milioni alla Chrysler, 3,8 milioni alla Fiat Alfa e Lancia, di cui 1,5 milioni in Italia. La seconda non contiene né numeri né siti, è un’alternativa al buio, il cui esito è un ridimensionamento produttivo con la chiusura di uno o più stabilimenti. Quindi il Gruppo Fiat, mentre esige preventivamente dai lavoratori la massima flessibilità lavorativa e personale, non garantisce agli stessi nemmeno la sicurezza del posto di lavoro.

La robotizzazione della forza-lavoro

Anzi, per investire gli ostentati 700 milioni, esso manda a casa per due anni i lavoratori collocandoli in Cigs.
Lo staff manageriale punta a raggiungere l’obbiettivo produttivo attraverso la robotizzazionedel lavoratore.
Questa viene realizzata con l’applicazione combinata di due più recenti metodi di lavorazione: il «Wcm»(World class manifacturing) e l’«Ergo-Uas». I due metodi, o sistemi, servono rispettivamente a «ottimizzare i gesti»riducendone i movimenti al minimo e a trovare soluzioni ergonomiche più produttive cambiando la sequenza delle pause (da due di 20 minuti a tre di 10). Il Wcmè una versione europeizzata del toyotismo. La linea di montaggio scorre sulla postazione, dove viene ficcato l’operaio; il quale, a differenza di quanto avviene con la vecchia linea in cui attrezzi e pezzi da assemblare vengono riposti in spazi contigui, si ritrova attrezzi e componenti sulla stessa linea. E così è impostato a compiere operazioni standardizzate in tempi minimi senza alcuna connessione con le operazioni precedenti e con l’esperienza di queste operazioni. Il metodo si adatta poi a pennello al «just in time»(alla domanda individualizzata e alla riduzione al minimo delle scorte). L’attesa dei managers è che, cambiando il Wcmcon l’Ergo-Uas, la produttività salga di oltre il 50%. Quindi l’obbiettivo dell’investimento, e del riordino hi-tech, non è quello di dare lavoro ma di estrarre più plusvalore, di aumentare lo sfruttamento della forza-lavoro.

Il diktat della flessibilità schiavistica

Detto questo passiamo ad esaminare l’arroganza del comportamento Fiat nei confronti dei lavoratori di Pomigliano. Marchionne ha subordinato l’investimento all’accettazione preventiva da parte dei dipendenti delle sue imposizioni (18 turni settimanali in 6 giorni con riposi a scorrimento, 120 ore di straordinario obbligatorio, spostamento della pausa mensa a fine turno, riduzione delle pause, divieto di sciopero, rifiuto di pagare la malattia ritenuta anomala) escludendo, su queste pretese senza fondo, qualsiasi trattativa effettiva. Il 28 maggio, con aria insofferente, egli afferma che si è perso troppo tempo e che se si debbono fare gli investimenti questi debbono partire. L’8 giugno Marchionne consegna ai sindacati il testo del proprio diktat. L’11 Fim Uilm Fismic Ugl sottoscrivono il documento. La Fiom rimanda al comitato centrale; il quale, riunitosi il 14, non dà il proprio assenso rilevando che il testo cancella il contratto collettivo, supera le leggi di tutela del lavoro e compromette il diritto di sciopero. Da ultimo la Fiat impone il referendumai lavoratori.

Il testo del diktatsi compone di 14 articoli. In sintesi essi stabiliscono: a) 18 turni settimanali di 40 ore, distribuiti su sei giorni da lunedì a sabato; b) 120 ore di straordinario obbligatorio; c) pausa mensa a fine turno, utilizzabile per recuperi e straordinari; d) riposi settimanali a scorrimentoin giorni diversi e senza il distanziamento minimo di 11 ore; e) riduzione delle pause da 40 a 30 minuti (di 10 minuti ciascuna); f) attuazione di recuperi anche per fermate indipendenti; g) divieto di scioperi sui punti del diktat; h) sanzioni fino al licenziamento nei confronti di chi contravviene alle clausole del diktat; i) non retribuibilità della malattia se la media collettiva supera un limite ritenuto anomalo; l) mantenimento del reparto confino di Nola. L’investimento è quindi finalizzato a un supersfruttamento schiavistico. Il 15 giugno i firmatari del diktatintegrano il testo firmato l’8 aggiungendovi un altro punto. L’aggiunta prevede l’istituzione di una «Commissione paritetica di conciliazione»e stabilisce che il mancato rispetto degli impegni assunti dalle organizzazioni sindacali e le conseguenze che ne derivano vengano sottoposte, su richiesta di una sola delle parti, all’esame preventivo dell’organismo istituito.

Il 16 giugno, senza ancora avviare alcun meccanismo di investimento, Marchionne tira dalle viscere la stizzosa lagnanza che in Italia si «deve faticare per fare accettare il lavoro che si dà». E pretende che tutti i dipendenti appoggino il suo piano e lo suffraghino unanimemente nel referendumdel 22. Il segretario della Cgil, Epifani, spalleggia la nauseante recriminazione dell’amministratore delegato e richiama la Fiom a un maggiore realismo. La Fiom, attraverso il neo-segretario Landini, invita i lavoratori a partecipare tutti al referendum, suggerendo anche per evitare ritorsioni, ma senza dare indicazioni né per il «sì»né per il «no».

Il doppio giuoco della Fiom

Veniamo al referendum. La consultazione è preceduta da doppiogiochismosindacale interno, da manifestazioni di solidarietà, da bellicose pressioni esterne. Il 16 si riuniscono gli iscritti alla Fiom. Al termine dell’assemblea gli esponenti Fiom, riconfermata la loro accettazione dei turni e di controlli più severi sulle assenze, stabiliscono di andare al referendumsenza prendere alcuna iniziativa di lotta e lasciando libertà di voto. Un referendumimposto dal padrone per votare su un suo ricatto si respinge e basta a difesa della dignità operaia e per non mettere gli operai gli uni contro gli altri. Non si può accettare un referendumche ha ad oggetto la rinuncia a diritti di vita (o a «diritti indisponibili»come dicono i vertici Fiom), la soppressione dello sciopero e dell’iniziativa operaia. Un referendumè legittimo solo quando riguarda scelte dei lavoratori.

Mentre la Fiom si trincera in «disquisizioni giuridiche»negli altri stabilimenti del gruppogli operai capiscono che la campanasuona anche per loro e danno vita a varie manifestazioni di solidarietà. Il 17 scioperano per 4 ore gli operai della Seveldi Melfi ai quali si uniscono quelli della Magneti Marellie di Isri. A Mirafiori si svolgono cortei interni di protesta contro il diktatdavanti la direzione centrale. I lavoratori di Termini Imerese entrano in agitazione consci che le stesse condizioni di supersfruttamento verranno imposte dappertutto. Il 18 gli operai di Tychy, dove viene prodotta la Panda in Polonia, manifestano la loro solidarietà agli operai di Pomigliano, cui trasmettono una lettera con la loro posizione.

In questa lettera gli operai polacchi, dopo avere ricordato che la Fiat impone ovunque la metodologia delle «schiene spezzate», dichiarano che essi hanno implorato il posto di lavoro senza affrontare l’ «identità degli interessi operai»e che oggi si trovano nelle stesse condizioni dei lavoratori italiani. E concludono facendo appello a «non contenderci tra di noi i posti di lavoro ma a unirci per i nostri interessi internazionalmente e a combattere senza inginocchiarsi». Questa riflessione e questo appello sono il miglior contributo e incitamento dato dall’interno ai lavoratori di Pomigliano.

Il 17 giugno viene pubblicizzato il quesito del referendum. Questo recita: «Sei favorevole all’ipotesi di accordo del 15 giugno 2010 sul progetto Futura Panda a Pomigliano». Ma prima del referendumviene promossa e inscenata una manifestazione cittadinaad opera dei capetti Fiat dei politicanti locali dei sindacalisti firmatari a sostegno del progetto e contro i lavoratori contrari al diktat. Il 19 sera sfila per le vie di Pomigliano un ibrido corteo, sotto forma di fiaccolata, di alcune migliaia di persone, che inneggiano al piano e ammoniscono gli operai arrabbiati a ingoiare il rospo.

L’esito del «referendum» una scottatura per Marchionne

Per il 22 mattina, giorno del voto, la direzione aziendale indice una giornata di formazioneallo scopo di ottenere il massimo di partecipazione alla consultazione.

Sin dalle cinque del mattino sono presenti ai cancelli le varie sigle del sindacalismo autonomo (Slai Cobas, Cub Flm Uniti, Confederazione Cobas, Usb) e alcuni raggruppamenti politici che invitano gli operai a votare no.

Tutti denunziano la Cgil che ha detto di votare sì e criti cano la Fiom che ha assunto un atteggiamento ambiguo: di sìe di noo di annullamento della scheda. Partecipa al voto il 95% degli aventi diritto; 4.652 su 4.881; una percentuale mai vista prima. Il voto dà il seguente esito: il 62,2% (2.688) si esprime per il sì; il 36% (1.673) per il no; ci sono 59 schede nulle e 20 bianche. Sommando al voto contrario gli astenuti e le schede nulle, il voto sfavorevole tocca il 40%. E se si escludono dalla conta i voti degli impiegati il voto operaio si divide a metà, senza contare la prevalenza nel reparto confinodi Nola. L’esito è quindi una scottatura per Marchionne e per i burocrati sindacali.

Noi abbiamo invitato i lavoratori a respingere il referendumnon tanto perché «illegittimo»come si limita a dire la Fiom, quanto e soprattutto perché imposto dal padrone e perché riguarda imposizioni volute dallo stesso, contro cui l’unica posizione è quella di reagire. Sull’esito riteniamo ora opportuno fare alcune considerazioni specifiche. La prima è che la partecipazione plebiscitaria mai vista non è risultato di una libera scelta dei votanti bensì del clima di pressione, interna ed esterna, sugli stessi. La seconda è che il consistente numero dei no esprime la profonda contrarietà al diktate al ruffianismo sindacale. La terza è che un contributo a questo risultato è venuto dalla componente giovanile più restia agli straordinari di sabato. La quarta e ultima è che c’è una netta divisione tra operai che non potrà essere mai ricomposta se non all’interno di una pratica e di una prospettiva di classe.

In conclusione sottolineiamo a tutti i lavoratori del Gruppo Fiat che per approntare una difesa operaianella contingenza e per perseguire gli interessi operai nel presente e in futuro bisogna organizzarsi autonomamente da ogni formazione sindacale concertativa alternativa legalitaria professionalistica; costituendo in ogni fabbrica luogo di lavoro gli organismi proletari di lotta, coordinandoli territorialmente fino alla costituzione di un sindacato di classe. È assurdo invocare lavoro a un padronato feroce, fallito storicamente, che sta in piedi per distruggere e depredare, che invece di accorciare allarga con ogni mezzo la giornata lavorativa. Guai ad allungare la vita a questo padronato sciacallesco; bisogna scalzarlo dal potere e riappropriarsi dei mezzi di produzione per sfamare lavoratori e popoli e costruire una società a misura d’uomo. Infine ciò che è diventato di estrema urgenza con l’approfondimento della crisi generale, è che i lavoratori non si facciano concorrenza e non si rubino reciprocamente il lavoro svendendosi ma che cooperino sul piano interno e su quello internazionale, per non scannarsi a vicenda e togliersi il terreno sotto i piedi. La Fiat vuole riportare a Pomigliano la Panda che per decenni ha realizzato in Polonia, mettendo sempre i lavoratori gli uni contro gli altri. È decisivo in questo momento che operai italiani e operai polacchi concordino insieme obbiettivi e mete comuni di difesa e di lotta.

Dunque: respingere il diktat Fiat; esigere il pagamento integrale del salario, la riduzione d’orario; il rispetto della dignità e dell’iniziativa operaia; il salario minimo garantito di euro 1.250 mensili intassabili per disoccupati, precari, cassintegrati, sottopagati.

Milano, 12/9/2010

L’Esecutivo Centrale di Rivoluzione Comunista

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