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Ventiquattro ore senza di noi

Ventiquattro ore senza di noi

(1 Marzo 2010) Enzo Apicella
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Se non avessimo l’angoscia dei Feketre e Asfaw

(29 Marzo 2011)

Lampedusa

Che vuoi fargli ad Asfaw capace con altri mille, i diecimila che arriveranno e quelli pronti a partire di prendersi luce e buio sul mare gelido più il rischio di crepare per conquistarsi giorni diversi? Vuoi sparargli, affondarlo? Certa politica che si vessilla di libertà ma ama muraglie e apartheid sì. Se anche Feketre nel gesto più intimo e amorevole di far nascere un figlio sceglie il rischio del barcone, per i predicatori del rimpatrio forzato non c’è salvezza. Il sud del mondo continuerà a bussare alle nostre porte, se non apriremo le scardinerà perché nulla è più forte del bisogno e qualsiasi terrore non riesce a frenare chi perde le catene. “Profumo di libertà” ripetono e cercano, appena sbarcati, i ragazzi della laica e già meno disperata Tunisia mentre dietro i fratelli centroafricani spingono. Il mondo arricchito in cui viviamo che li attrae con le vetrine ingioiellate e le promesse delle lotterie televisive ha il dovere di maggiore accoglienza e minore illusione. Perché se da bravi Oudinì mostriamo un Paese dei balocchi da miseri revisionisti abbiamo cancellato il passato di migrazione che ha segnato la nostra Storia. Certo è anche vero quello che dice l’agricoltore lampedusano disposto a offrire una, due cassette d’arance ai ventenni maghrebini che il governo tricolore lascia da giorni a dormire e cagare sotto le medesime sterpaglie.

Dice l’uomo “Capisco la fame, ma non posso vedere mezzo aranceto assaltato altrimenti anche la mia famiglia non mangerà”. Impossibile dargli torto. Eppure di fronte a un governo inappropriato e uno Stato che gira lo sguardo altrove ciascuno deve metterci un pezzo di cuore e di portafoglio e comprendere il ciclo degli eventi. Se vivessimo in una società dove chi governa fa il bene comune, non usa l’imposizione e la paura non vedremmo donne di Sicilia in preda al panico. Il fatalismo era la maledizione dei Malavoglia, l’angoscia del futuro è una maledizione ancora più avvilente. Anche quelle donne, come il coltivatore e l’intera comunità isolana, hanno ragione nel non accettare che la loro terra sia trasformata in approdo della disperazione. Però mentre La Russa e Veltroni inscenano il falso balletto televisivo che dà lavoro a Santoro su chi accogliere se rifugiati o migranti, tutto resta gattopardescamente fermo. Non per colpa di ‘Annozero’ che porta lì le telecamere ma dei politici sì e del governo Berlusconi in primo luogo. Forse quei migranti sanno pure che il premier italiano, così amico di Ben Ali e di altri satrapi abbattuti, è della stessa pasta di quegli oppressori ma non hanno scelta, superano le onde perché non hanno nulla da perdere. Come i migranti d’Italia che fuggivano dalla miseria e dalle illusioni di Crispi, Giolitti, Mussolini.

Non fa bene, non al buonismo che non ci appartiene, ma alla memoria siciliana l’immagine del cordone dei sindaci pronti a ricusare i nuovi arrivi. “Che vadano in Padania” gridano. Cosa vera, ma non solo lì. Anche nella Romacapitale che amministratori e commercianti vorrebbero popolata solo di turisti solventi, nel Chiantishire dei radical-chic, nella Riviera esclusiva di Levante e Ponente, nell’Emilia grassa e ovunque l’Italia che si vanta civile potrebbe accoglierli. Con lei l’Ue che nella filiera del disimpegno pronuncia a Bruxelles ciò che non attua altrove. In questo Paese per vecchi abitato solo da ossessioni, si conserva un sistema che pur facendoci soffrire e scorticando certezze non fa entrare aria nuova. Dovremmo tutti rinunciare a qualcosa non solo perché i figli di Feketre e Asfaw continueranno ad arrivare ma perché saranno loro – come già fanno i fratelli maggiori – a lavorare con noi e per noi. Potremmo ricordare quel che le generazioni dei milioni di Antonio e Vincenzo hanno fatto oltre gli oceani, nel Nord d’Europa e d’Italia e rilanciare un tessuto produttivo da opporre alla politica autarchica e razzista. Alle vergognose e insulse “Bossi-Fini” e “Maroni” sostituiremmo norme d’integrazione e valorizzazione di uomini e civiltà. In un fronte che salvaguarda il futuro anziché affossarlo perché la Storia ricorda che nulla è acquisito, tutto può mutare ben oltre la propria volontà. Soprattutto se lasciamo le Fukushima dietro l’angolo.

28 marzo 2011

Enrico Campofreda

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