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Appunti nella Giornata internazionale del popolo rom

Via dei Gordiani, Roma. Prove tecniche di fascismo quotidiano

(8 Maggio 2005)

Roma, venerdì 8 aprile. Fa un certo effetto aprire gli occhi in una città silenziosa per decreto. Gli uffici chiusi, le macchine ferme, per non interferire con i funerali del papa. Mi viene in mente mio padre, quando mi raccontava di un mattino, sul fronte di Cassino, in cui li svegliò, in trincea, un silenzio insopportabile. Compresero allora che l'attacco era imminente.

In questo clima artificiale mi alzo, guardo fuori, mi connetto sonnecchiando alla rete. Una mail mi ricorda che l'8 aprile è ufficialmente la "giornata internazionale del popolo rom". Singolare coincidenza. Proprio oggi abbiamo deciso di andare al campo, a via dei Gordiani, per girare qualche intervista. Faranno parte di un video che stiamo realizzando fra Lubiana, il Friuli e Roma, e che tocca il tema della deportazione, nelle sue interpretazioni storiche, tristemente note a ogni persona informata, e in quelle piu' recenti, di cui si ha una percezione piuttosto edulcorata, sfocata, imprecisa... Le differenze sono evidenti, certo. Le tragedie di sessant'anni fa hanno una dimensione tale da rendere improponibile, se non offensivo, ogni raffronto diretto. Questo non significa che non si possano indagare alcune analogie, simmetrie, e certe inquietanti "affinità culturali"...

La mail che scorre sul monitor del computer contiene una denuncia, un appello: l'O.I.M. ("Organizzazione Internazionale per le Migrazioni") è costretta ad abbandonare, per mancanza di fondi, il programma di sostegno ai rom dell'Europa centrale e orientale sopravvissuti all'olocausto. 145.000 persone anziane che, ci informa l'O.I.M., sono destinate a morire letteralmente di fame e di freddo perchè private del modesto sussidio (da 20 a 120 dollari al mese) di cui hanno usufruito finora, a titolo di riparazione per quanto hanno sofferto sessant'anni fa.

Mentre attraverso a piedi la città deserta, risalendo la Prenestina, ripenso a una frase di quel documento: "...La caduta del comunismo e l'abbandono dello stato sociale che garantiva il lavoro, l'alloggio, il riscaldamento e l'assistenza sanitaria hanno colpito i rom con estrema durezza, in un'epoca che vede riemergere le discriminazioni, le ostilità e le violenze nei loro confronti..." è quello che sento ripetere a via dei Gordiani, dove è palpabile il rimpianto per l'atmosfera aperta e multiculturale della Yugoslavia degli anni sessanta, un paese in cui i rom non si sentivano discriminati, avevano le stesse possibilità di impiego, di istruzione, di carriera delle altre persone.

L'appuntamento classico è davanti alla chiesa di via dei Gordiani. Ci muoviamo di lì. Prima sosta, il container di Michu. Parla Dragan, suo figlio. è nato a Busto Arsizio 29 anni fa. è cresciuto in Italia insieme ai fratelli, di qualche anno piu' grandi di lui. Hanno frequentato le stesse scuole, vissuto nelle stesse città, tifato per le medesime squadre di calcio.

C'è un'unica differenza: i fratelli sono italiani, Dragan no. Eh già, a un certo punto i cani da guardia della razza hanno cambiato le regole del gioco, modificando le normative per accedere alla cittadinanza. Dragan è rimasto fuori. Con lui, tutta una cordata: la moglie, il figlio... sempre in bilico fra la condizione del clandestino e quella di chi, potendo esibire uno straccio di contratto di lavoro, può prendere sonno senza temere di risvegliarsi dietro le grate del C.P.T. di Ponte Galeria.

"Che succede, Dragan, se perdi il permesso di soggiorno? Che accadrebbe a tua moglie, se non avesse piu' un lavoro?" "Lo sai, Robbè. Vai a fare due passi dall'altra parte del campo."

Effettivamente, la seconda tappa sarà "dall'altra parte del campo". Abbiamo in programma di incontrare Lazzaro, un vecchio splendido, orgoglioso, il cui sguardo esprime dignità e integrità assolute. Ne ha viste di tutti i colori, Lazzaro, nel corso della sua esistenza. Ci piacerebbe chiedergli di quel mattino a Kragujevac, nell'ottobre del 1941, quando arrivarono i nazisti e si salvò miracolosamente, mentre i suoi familiari venivano trucidati con altri 7.300 concittadini, rastrellati insieme a loro. Vorremmo che ci raccontasse quello che gli capitò quando faceva l'operaio a Brescia e fu condannato ad anni di carcere, per un furto di una bici che non aveva commesso. Erano i giorni del sequestro Moro; gli occhi si fanno lucidi e la voce vibra ancora per l'indignazione quando rievoca quell'episodio.

Queste, le intenzioni. Ma al container di Lazzaro non arriveremo mai. Ci ferma Dragan - un altro Dragan, figlio di Lazzaro. Acchiappa Antonio, grida frasi disperate direttamente dentro la telecamera. Ha perso il lavoro, e rischia di perdere il figlio. Michel è un ragazzo dolce, simpatico, istruito. Ha diciotto anni, è nato e cresciuto a Roma. Nemmeno lui, come il figlio di Michu, ha avuto la cittadinanza. Qualche giorno fa è arrivata la polizia e se l'è preso, per rimpatriarlo in Serbia.

"Rimpatriarlo"? Spedire una persona in un paese che non ha mai visto, dove non conosce nessuno e del quale non parla la lingua - si chiama "rimpatrio" questo? Mi pare un tema da proporre ai miei colleghi accademici della Sapienza, quando tengono convegni sulla "letteratura del dispatrio". Ponte Galeria sarebbe una sede interessante per un seminario sull'argomento.

Dragan si è precipitato dietro a Michel, quella mattina. è corso a Ponte Galeria, al Centro di Permanenza Temporanea per reclamare suo figlio. Non si è presentato al lavoro, e lo hanno licenziato. Anche lui, adesso, rischia di perdere il permesso di soggiorno, di seguire il destino di Michel, in una singolare versione del "ricongiungimento familiare".

Insieme a Michel, hanno trascinato a Ponte Galeria altri quattro ragazzi. Fra loro, Koleta è l'unica nata in Jugoslavia. Nemmeno lei se l'aspettava: suo marito Nebojsha ha il permesso di soggiorno, è in dialisi, e Koleta si prende cura di lui. Vallo a spiegare al prefetto e al questore che un marito dializzato non si può assistere per corrispondenza, da Belgrado o Kragujevac.

Altri tre giovanissimi deportati, Zuhki, Branko e Ghina, sono nati e cresciuti in Italia, come Michel. Nemmeno a loro, come a Michel, è concesso di accedere al traguardo della cittadinanza. In questo paese democratico e profondamente cattolico (come dubitarne, in giorni come questi) le "colpe" dei padri ricadono sui figli. Se papà si è distratto un istante, se non può dimostrare di aver goduto del permesso di soggiorno per diciotto anni ininterrotti - da quando sei nato, affacciandoti al Belpaese, a quando hai raggiunto la maggiore età - la cittadinanza te la puoi scordare.

Di conseguenza, in questa terra di clandestini e sanatorie, decine di migliaia di ragazzi come Zuhki Branko e Ghina, sono invisibili per lo Stato. Fantasmi, cui è negato lo status di cittadini. Eppure, un documento è indispensabile, altrimenti come ottieni la patente, la tessera sanitaria e (non sia mai) il permesso di soggiorno? E così Zuhki, Branko e Ghina hanno fatto il passaporto. L'unico possibile: quello serbo, lo stesso dei genitori.

Errore. Ammesso che di errore si possa parlare, quando sei in condizione di scacco matto dalla nascita. Fatto sta che quel passaporto, rilasciato dall'ambasciata serba di Roma, ti da diritto a un posto letto per sessanta giorni a Ponte Galeria, dentro il Centro di Permanenza Temporanea, e, a seguire, a un biglietto aereo di sola andata, con accompagnatore in divisa - destinazione Belgrado.

Branko lascierà a Roma sua moglie Zlata, italiana come lui (ma non per il nostro governo) incinta di un bambino e madre di altri tre figli. Italiani anche loro, secondo gli insegnanti, per le assistenti sociali, per il pizzicarolo e il barista, perfino per i vigili urbani che lo scrivono sui verbali. Per tutti insomma, tranne che per il nostro governo. Saranno grandi, Cristina, Pamela e Michael, quando Branko li potrà riabbracciare. Se vieni espulso, per DIECI ANNI non puoi rimettere piede in Italia - altrimenti finisci in galera.

Ghina invece, è già a Belgrado. Sua madre Stana, una triste esile figura fasciata da un aderente abito nero, porta il lutto da anni. Si veste così, da quando giunse la notizia che l'altra figlia era stata assassinata in un paese della Lombardia. La morte visita spesso i campi zingari. Ricordo la sera in cui arrivò la cassa, con dentro quel corpo adolescente, e non fiatava nessuno, in via dei Gordiani.

Oggi Stana tiene in braccio una bimba. La figlia di Ghina è troppo piccola per capire che sua madre dorme all'aperto, sulle panchine di Belgrado, che l'hanno scaricata all'aeroporto con trenta euro in tasca e i vestiti che aveva addosso, quando l'hanno strappata dal container dove viveva.

Michel, Branko, Ghina, Koleta, Zuhki. E poi Stana, Dragan, Zlata... Il loro destino si è consumato il 21 marzo, primo blitz di primavera. Mentre caricavano i ragazzi sui cellulari, una zingara ha gridato: "Perchè li portate via? Sono nati qui, non hanno fatto niente di male. In Serbia non ci sono mai stati, non conoscono nessuno."

"Facciamo quello che vogliamo", le hanno risposto. è un assioma antico, inconfutabile. Un postulato su cui si regge il dispositivo che si riproduce al buio dei corridoi delle Questure, dove operano funzionari rigorosi e inflessibili, un tipo umano immune da cedimenti emotivi, da condizionamenti etici e sociali. "Facciamo quello che vogliamo" - una lapidaria lezione di diritto costituzionale, impartita da un anonimo esponente delle forze dell'ordine, che in quattro parole, dicasi venticinque lettere, ci dimostra con chiarezza cartesiana che i rastrellamenti, le reclusioni nei Centri di Permanenza Temporanea, le deportazioni e le espulsioni, sono un'opportunità fantastica per rosicchiare ogni giorno, un pezzetto alla volta, quel pò di libertà che ci rimane.

Roberto Pignoni

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