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La nazione stitica

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(17 Gennaio 2011) Enzo Apicella
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LA SOSTANZA DELL’INDIPENDENTISMO CATALANO

(8 Gennaio 2018)

prospettiva marxista

Abbiamo sempre inteso il marxismo innanzitutto come un metodo, con il quale sforzarsi di analizzare la realtà capitalistica per fornire alla classe oppressa un’autonomia, un’indipendenza politica rispetto agli interessi delle frazioni borghesi in lotta. Per noi il marxismo non è mai stato la ricerca della posizione tramite l’applicazione di un ventaglio di mosse prestabilito da una dottrina infallibile, di principi scolpiti nella pietra che esimono dal misurarsi con i casi concreti della storia. La prima domanda che un marxista dovrebbe porsi non è che posizione assumere, ma capire cosa sta succedendo. Dalla comprensione e dall’analisi della situazione concreta scaturisce, come risultato, l’indicazione politica, la linea di condotta. Che esista una questione catalana all’interno del capitalismo spagnolo è un dato di fatto. La crisi politica inaspritasi con il referendum indipendentista del primo ottobre ha portato:
· a scontri con centinaia di feriti a seguito dell’intervento della Guardia Civil,
· all’applicazione dell’articolo 155 con la sospensione del Governo catalano,
· all’incarceramento o la fuga all’estero degli esponenti politici indipendentisti
· alle elezioni regionali anticipate del 21 dicembre.
É stato toccato un nodo vitale per la borghesia spagnola che è l’unità statale. Uno Stato come la Spagna, che rientra a pieno titolo tra gli imperialismi maturi, non può accettare senza colpo ferire che venga messa in discussione la propria sovranità. Non lo accettò José-Maria Aznar quando nel 2002 riprese possesso con le armi dell’isolotto Perejil, dopo che un manipolo di militari marocchini lo occupò, tanto meno era pensabile che Rajoy riconoscesse pacificamente un’eventuale indipendenza catalana. La lotta per il potere politico quando si acutizza va a toccare l’essenza dello Stato e chiama in causa l’esercizio della violenza e della repressione, aspetti niente affatto in contraddizione con la forma politica democratica. Le sorti di una ipotetica secessione non possono pertanto essere decisi da astratti diritti borghesi o dai dettami giuridici e legali, i quali sono piuttosto un riflesso dei rapporti di forza tra le classi. E sul piano dei rapporti di forza è evidente come il fronte madrileno, a differenza di quello catalano che non ha mobilitato i Mossos d’Esquadra, ha mostrato maggior decisione nel dispiegare attivamente i propri apparati di coercizione. Tuttavia va dimensionato attentamente il grado effettivo degli scontri avvenuti. Questi ci sono stati, ma il bilancio non è neanche lontanamente paragonabile a quello immaginabile in una guerra civile. Ciò è dovuto anche al fatto che sul piatto della contesa non c’era la formazione effettiva di uno Stato catalano. I politici indipendentisti della borghesia, con l’ex presidente della Generalitat Carles Puigdemont in testa, hanno tentato costantemente e fino all’ultimo di andare alla trattativa, trovando indisponibilità e chiusura di ogni margine da parte del premier Mariano Rajoy. Il precipitare della situazione è dovuto, da una parte, all’esito di un negoziato scivolato di mano e, dall’altra, dell’incapacità centrale, protrattasi nel tempo, di gestione delle particolari spinte catalane. Le difficoltà di sintesi politica hanno fatto sì che la classica lotta per l’ampliamento dei margini di autonomia interna assumesse la forma della rivendicazione indipendentista, con il richiamo e l’utilizzo di tutta una serie di suggestioni storiche. Esiste certamente un’identità culturale catalana, con tradizioni specifiche tra cui, come per il caso sardo, la lingua è la principale e il cui utilizzo era stato proibito nel periodo franchista. Ma con gli assetti democratici emersi nel 1978 venivano assegnati alla Catalogna libertà linguistiche prima negate e soprattutto tutta una serie di margini di autonomia. Da allora la dialettica dei gradi di potere e dei carichi di fiscalità tra il centro e la Catalogna, così come rispetto ai Paesi Baschi e alla Galizia, è stata una costante. La spinta indipendentista catalana origina quindi più dall’ineguale sviluppo e dalla lotta di frazioni borghesi per una diversa ripartizione interna del plusvalore, piuttosto che da un’oppressione della nazionalità catalana da parte dello Stato spagnolo. Il tentativo di rinegoziare il patto interno del dosaggio dei poteri, e dei tributi, è avvenuto su iniziativa di quella che le statistiche indicano come una delle regioni più dinamiche della Spagna. Con il 16% della popolazione dislocato sul 6% del territorio, la Catalogna pesa per il 20% del Pil spagnolo, produce il 23% del Pil industriale e realizza il 25% delle esportazioni. Ha una valenza economica simile alla Lombardia per l’Italia, la quale ha il 16% circa della popolazione italiana, il 7,6% del territorio e realizza circa il 22% del Pil nazionale. Uno Stato catalano avrebbe un peso economico analogo al Portogallo, alla Repubblica Ceca o alla Grecia, ma con un reddito pro-capite nettamente superiore. Le tre nazioni citate hanno tutte più di 10 milioni di abitanti, mentre la Catalogna arriva a 7,5 milioni (di cui meno di 5 nati in loco). I catalani hanno un reddito pro capite medio annuo di 27.600 euro, contro una media nazionale di poco più di 24 mila. Per fare ancora un paragone con l’Italia è simile alla posizione relativa di Liguria, Emilia Romagna o Veneto. La Catalogna è risultata la regione più allettante per il capitale straniero tanto da attrarre circa il 25% degli investimenti diretti esteri, soprattutto nei settori automotive, trasporti, chimico e farmaceutico. La metà degli investimenti in start-up in Spagna è concentrato in questa regione, dove si contano ben 609 mila imprese attive. L’indice della produzione industriale, secondo l’istituto nazionale di statistica spagnolo, è il più performante della Spagna. Fatto 100 il 2010, la produzione industriale catalana odierna risulta 112,2, contro una media nazionale di 102,6 e un risultato di Madrid pari a 90,9. Nel 2015 e nel 2016 il tasso di crescita del Pil catalano si è attestato al 3,5% ogni anno, rispetto al 3,2% dell’economia spagnola. Anche gli indici di occupazione sono migliori della media nazionale: la disoccupazione in Catalogna è al 13,2%, contro una media nazionale del 17,2%. La Catalogna risulta al contempo la regione più indebitata della Spagna: il suo debito è di 76,7 miliardi di euro, secondo le ultime rilevazioni della Banca di Spagna, ben superiore ai 45 miliardi di debito della comunità valenciana e ai 32,5 miliardi di Madrid. Due terzi del debito catalano, 52 miliardi, fanno inoltre capo al fondo governativo per il finanziamento delle autonomie regionali. Questo dato è da leggere congiuntamente con i flussi di cassa tra centro e periferia: la Catalogna infatti è un contribuente netto del bilancio statale, paga quasi 10 miliardi di euro in più di entrate ogni anno, ovvero circa il 5% del proprio Pil regionale, di quanto riceve in trasferimenti. Il sentimento separatista è cresciuto nell’ultimo decennio: al 2006 il consenso per l’indipendenza era stimato essere solo al 14% della popolazione catalana, già nel 2013 era triplicato arrivando al 49%. Le serie di recessioni cominciate con il 2008 hanno accresciuto gli squilibri economici interni, non solo tra le regioni ma anche tra le classi. Gli ultimi tre anni di crescita economica nascondono però contraddizioni e una realtà di accentramento dei capitali. Dei 500 mila nuovi posti di lavoro creati nell’ultimo anno la stragrande maggioranza, ovvero il 90%, sono precari, con la durata di impiego inferiore al mese. I nuovi salariati spagnoli sono inoltre mal pagati, con una stima di povertà tra i lavoratori pari al 12,5%, la seconda più alta tra i Paesi Ue. La precarietà e le disparità sociali sono aumentate anche grazie alla riforma del lavoro approvata nel 2012 da Rajoy, e appoggiata in Catalogna dal PdeCAT di Puigdemont, che ha puntato sui contratti aziendali, sulla più facile libertà di licenziamento e sulla maggiore flessibilità della forza lavoro. Il Jobs Act di Renzi non ha insomma inventato niente, ha solo suonato lo stesso spartito di altre borghesie europee. Tra il 2011 e il 2015 le persone definite nelle statistiche come “poveri”, che hanno cioè un reddito inferiore agli 8 mila euro se sono single o sotto i 16.800 euro per una famiglia di due adulti e due bambini, sono passati da 4 a 5,4 milioni. Nel contempo il mercato ha però generato 58 mila nuovi “ricchi”, così come li ha definiti l’Agenzia delle Entrate spagnola. La ricchezza è così concentrata in modo tale che lo 0,4% della popolazione detiene il 50% circa del Pil. Il normale funzionamento del capitalismo genera problemi a causa dalla naturale spinta alla concentrazione del capitale che diventa accentramento di ricchezze e ampliamento dei divari sociali. Dalla recessione del 2008 sono peggiorate le condizioni del proletariato e del sottoproletariato in primo luogo, ma anche delle mezze classi. In Catalogna sono state frange di piccola borghesia, e anche di qualche medio gruppo, a spostarsi sull’indipendentismo trascinando con sé parti di proletariato. Secondo un sondaggio di El Pais risalente al giugno 2017 la richiesta di indipendenza era direttamente proporzionale al reddito famigliare: nella fascia di reddito inferiore ai 900 euro mensili ben il 59% era per l’unione, tra i 900 e i 1.200 euro gli unionisti erano addirittura il 66%, tra i 1.200 e i 1.800 euro prevaleva ancora di un soffio la visione unionista ed erano invece gli strati a reddito più alto a volere l’indipendenza. È nell’ordine delle cose che il proletariato sia influenzato ideologicamente e materialmente dalle frazioni di classe dominante. In questo caso, ancora una volta, è una miscela di piccola e media borghesia, che brandisce spregiudicatamente la bandiera di un piccolo nazionalismo, a trainare il carro dietro il quale vengono portati operai a manifestare, votare e fare sciopero. I grandi gruppi bancari e industriali catalani o si sono apertamente schierati contro l’indipendenza oppure hanno assunto una posizione prudente. Il quotidiano El Mundo riporta che Banco Sabadell ha annunciato lo spostamento della sede in Valencia, mentre La Caixa, prima banca regionale e terzo gruppo bancario spagnolo, sta valutando il trasferimento, così come Abertis (multinazionale del trasporto e delle telecomunicazioni) e Gas Natural Fenosa (energia e servizi). La Seat ha dichiarato di poter cambiare sede a seconda degli sviluppi. Altri grandi gruppi erano schierati contro l’indipendenza: Congost (energia), EFS (manifattura), ADELTE (trasporti), Grupo Godó e Grupo Planeta (media). Le associazioni imprenditoriali catalane e le camere di commercio (PIMEC Patronale PeM, CECOT Patronale PeM, Fepime Catalunya, Fem CAT Funda), che raccolgono una diffusa piccola borghesia, hanno invece assunto una posizione ambigua che è al tempo stesso indicativa della volontà di compromesso: contraria all’indipendenza ma favorevole al referendum. Sul fronte più prettamente politico lo storico indipendentismo catalano, incarnato dai leader della Cdc Jordi Pujol e Artur Mas, prospettava in passato un processo indolore a tappe e dai primi anni ‘80 ai primi anni 2000 ha effettivamente ottenuto maggiori autonomie fiscali. Gli accordi siglati con José Zapatero, che avrebbero garantito ulteriori autonomie per la Catalogna nonché il suo riconoscimento come nazione catalana all’interno dello Stato spagnolo, sono stati però rimessi in discussione nel 2010 quando il Tribunale Costituzionale spagnolo ha annullato alcuni punti del nuovo Statuto di Autonomia. Nel 2011-12 il primo Governo Rajoy ha rimandato al mittente la richiesta catalana di adesione al modello Foral, che è quello già utilizzato nei Paesi Baschi e in Navarra (e consiste nel raccogliere le proprie entrate e pagare una quota negoziata all’amministrazione centrale ogni anno, invece di farlo collettivamente con il governo nazionale che poi ritrasferisce dei fondi). In aggiunta il Partito Popolare, forte allora di una maggioranza assoluta, ha applicato allora forti tagli alla spesa in Catalogna per ridurre il deficit, andando così a toccare sul vivo anche frange di parassitismo locale. Questa fermezza di Madrid ha radicalizzato le componenti indipendentiste che nel novembre del 2014 ha tenuto un referendum privo di valore legale con un’affluenza al 42% e l’affermazione dell’opzione indipendentista per l’80%. Il referendum dello scorso primo ottobre non si discosta molto in termini numerici: i votanti sono sati 2,286 milioni, il 43% degli aventi diritto e di questi il 90,2% si è espresso per il Sì all’indipendenza della Catalogna. Si discosta però in termini politici perché il Governo spagnolo ha optato per la linea dura dispiegando i militari in 400 dei 2.300 seggi allestiti. A giudizio degli indipendentisti questa ostruzione ha impedito il voto di circa 700 mila persone, ma se ciò fosse vero porterebbe i votanti a circa il 55%, un dato non altissimo (e per altro inferiore al 60% del referendum consultivo per l’autonomia del Veneto tenutosi il 22 ottobre). Gli scontri dei giorni più convulsi hanno provocato circa 800 feriti e abbiamo assistito a manifestazioni con decina di migliaia di partecipanti per ambo gli schieramenti. Il clima teso e l’importanza del momento è confermato anche dal discorso pubblico di Re Filippo VI in favore dell’unità. L’ultima volta che il Re intervenne nel dibattito interno fu a seguito degli attentati di Atocha del 2004 e prima ancora dopo il tentativo di colpo di Stato del 1981. I tentennamenti del presidente della Generalitat Carles Puigdemont, prima di venir commissariato ed optare per l’esilio, di fronte all’ultimatum di Madrid, e le sue ripetute richieste di trattativa, dimostrano però come da questa parte ci fosse la speranza di raggiungere un accordo più vantaggioso per l’autonomia catalana e non tanto l’intenzione di compiere una secessione. La proclamazione di Indipendenza della Repubblica da parte del Parlamento Catalano del 27 ottobre aveva pertanto un qualcosa di surreale e disperato al tempo stesso. Anche perché sarebbe poco realistica un’indipendenza statale con una spaccatura sociale e politica così evidente. Essa porrebbe inevitabilmente problemi di ricomposizione sociali a dir poco improbi. Anche a livello politico, non solo sociale, ci sono enormi difficoltà di sintesi: il sindaco di Barcellona, Ada Colau, aveva dato indicazione per la scheda bianca al referendum ed i socialisti di catalogna, alleati del PSOE nazionale, si erano già dichiarati contrari all’indipendenza. Perfino l’interlocutore catalano di Podemos, Izquierda Unida, ha dichiarato la propria opposizione al referendum catalano e la difesa incondizionata dell’unità spagnola (la Podemos catalana invece ha appoggiato criticamente la scelta indipendentista). La divisione della rappresentanza politica catalana è stata poi ribadita dalle elezioni anticipate del 21 dicembre. Le formazioni indipendentiste (la Cup, Junts per Catalunya, Esquerra Republicana de Catalunya) mantengono la maggioranza con 70 deputati su 135, perdendo però due seggi rispetto al 2015. Ciò avviene in forza della legge elettorale perché in termini di voto popolare il consenso di queste formazioni si ferma al 47,5%. Il dato che si conferma è la divisione a metà dell’elettorato che per l’occasione si è mobilitato con una partecipazione record dell’81,9%, dimostrazione che quando lo scontro tra frazioni borghesi è acuto queste hanno grande facilità a portare sul proprio terreno i salariati. Sul fronte indipendentista la prima formazione è quella di Puigdemont (Junts per Catalunya: 21,6%), emanazione della Convergencia Democràtica de Catalunya (Cdc) che governò la regione per quasi trent’anni. Il secondo partito indipendentista è Esquerra Repubblicana de Catalunya (Erc: 21,4%). La Cup (Candidatura d’Unitat Popular), una sorta di sinistra radicale, si ferma al 4,4%, ma con i suoi 4 deputati può diventare ago della bilancia. Tuttavia il dato più significativo è che il partito più votato risulta essere Ciudadanos, avvantaggiatosi del tracollo del PP di Rajoy sceso sotto il 5%. È la prima volta che un partito non catalanista, ed in questo caso unionista, vince le elezioni regionali e si afferma sia in termini di seggi (37) che di voti (25,3%). Ciudadanos ha raccolto una gran parte dei voti nell’area costiera e in quella metropolitana di Barcellona, oltre che nei quartieri popolari delle grandi e medie città, soprattutto tra le classi lavoratrici di origine spagnola figlie dell’immigrazione in Catalogna tra gli anni Cinquanta e Settanta (l’interno della Catalogna è invece a grande maggioranza indipendentista). La fase che si apre è piena di incognite ed estremamente incerta. I partiti politici indipendentisti e le frazioni borghesi che li sorreggono non hanno grandi prospettive: non dispongono né di una maggioranza sociale, né dell’appoggio della grande borghesia, né di aiuti internazionali. Da nessuna capitale europea poteva d’altro canto giungere appoggio alla Catalogna perché ogni Stato ha al proprio interno più o meno consistenti problematiche simili: la Scozia, il Galles, il repubblicanesimo nordirlandese per il Regno Unito, la Corsica per la Francia, la Baviera per la Germania, ecc. L’assenza di un potere centralizzato europeo si è dimostrata con il ruolo di primo piano che ha svolto Madrid nella gestione di questa crisi, che, almeno temporaneamente, ha risolto a proprio vantaggio. Puigdemont è latitante in Belgio e qualora dovesse rientrare in Spagna verrebbe arrestato, altri sette tra gli eletti indipendentisti sono o fuggiti all’estero o incarcerati. Entra in gioco anche il potere giudiziario poiché se non desse loro la possibilità di partecipare alle sessioni della Camera catalana, l’indipendentismo perderà anche la risicata maggioranza di cui dispone. L’assoluta indisponibilità a trattare da parte del primo ministro Rajoy, che ha chiuso intenzionalmente ogni spazio di mediazione, può essere spiegata anche con l’evoluzione del quadro politico spagnolo, che ha perso stabilità vedendo erosi i suoi due principali pilastri politici, il Partito Popolare e il Partito Socialista. Se prendiamo in esame le elezioni spagnole del 2008 si è di fronte ad un mondo politico estremamente diverso da quello attuale. La prima formazione era allora il Partito Socialista di José Zapatero con il 44% di voti, la seconda il Partito Popolare di Mariano Rajoy al 40%. La terza forza politica era il cartello Izquierda Unida alleata con Iniziativa per Catalunya Verds, che non arrivava al 4%. La tornata successiva, del 2011, è segnata dalla vittoria del PP di Rajoy che supera il 44%. Il partito socialista è in evidente affanno e, sotto Alfredo Perez Rubalcaba, crolla al 28,8% (perde ben 4,3 milioni di voti, pari al 38% del proprio bacino elettorale). Sinistra e Verdi salgono al 7%. Con le elezioni del 2015 possiamo affermare che si è consumata la crisi del bipartitismo. Il Partito Popolare è in testa con il 28,7% e il PSOE scende ancora arrivando al 22%: sommati arrivano a poco più della metà delle preferenze. Al terzo posto, con il 14%, troviamo ora Ciudadanos, partito fondato nel 2006 dal giovane avvocato Albert Riviera e definibile come un centrodestra liberista con venature populiste. Podemos, partito creato nel 2014 da Pablo Iglesias, giovane professore universitario con un trascorso nei no-gobal, arrivava al 12,7%. Questo raggruppamento è stato spesso accostato a Syriza, la quale anch’essa si è avvantaggiata del tracollo rovinoso dello storico partito socialista greco (il Pasok). Lo scenario greco non si è però realizzato perché il Partito Socialista spagnolo ha ancora una sua consistenza, Podemos non è riuscita nel sorpasso e soprattutto perché il Partito Popolare ha retto. Dopo infatti uno stallo prolungato dal quale non usciva una maggioranza parlamentare la Spagna è ricorsa a nuove elezioni nel 2016, che hanno consentito un recupero del PP, arrivato al 33%. Podemos invece è salita al 21% grazie all’alleanza con Izquierda Unida e ad una rete di alleanze locali, che ha permesso un notevole avvicinamento al PSOE di Pedro Sanchez (22,7%), ma appunto non un sopravanzamento. Dopo lunghe trattative ed otto mesi di impasse, vedeva la luce il secondo Governo Rajoy con l’appoggio di Ciudadanos (che ottenne il 13%): un esecutivo sensibilmente indebolito rispetto al passato. La carta unionista giocata da Rajoy è anche, alla luce di quanto sopra descritto, un tentativo di ricompattare un fronte colpendo duramente le frange di borghesia catalana che pensavano di sfruttare a proprio vantaggio quella che valutavano essere, con molto azzardo, una situazione di debolezza dell’esecutivo. La battaglia per l’autonomia politica del proletariato trova nella crisi ispano-catalana il destro per ribadire la necessità dell’internazionalismo, cercando di impedire che i salariati spagnoli siano strumentalizzati e accecati dai fumi di due nazionalismi, ugualmente reazionari e in lotta tra loro. La lotta per l’indipendenza teorica dei lavoratori è possibile solo se radichiamo una coscienza effettivamente internazionalista nella nostra classe, affinché si emancipi dalle ideologie localiste (catalana, scozzese, padana...), nazionaliste (spagnola, inglese, italiana...) e supernazionali (americana, asiatica, europea...).

Prospettiva Marxista

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