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Se rispondo ad una provocazione nel luogo di lavoro alzando le mani a cosa vado incontro?

(18 Settembre 2006)

Risposte e Commenti

Risposta: IL GIUDICE, IN CONSIDERAZIONE DELLE CIRCOSTANZE SOGGETTIVE ED OGGETTIVE DEL FATTO, PUO’ ESCLUDERE CHE L’AVER COLPITO UN COLLEGA DI LAVORO CON UN TUBO PRODUCENDOGLI UNA LESIONE COSTITUISCA GIUSTA CAUSA DI LICENZIAMENTO

– In base all’art. 2119 cod. civ. (Cassazione Sezione Lavoro n. 18144 del 10 agosto 2006, Pres. Mattone, Rel. D’Agostino).
Luigi F. dipendente della società Automobilistica Tecnologie Avanzate è stato sottoposto a procedimento disciplinare con l’addebito di avere colpito con un tubo di ferro un altro dipendente all’interno dello stabilimento, nel corso di un litigio, cagionandogli lesioni personali. Egli si è difeso facendo presente, tra l’altro, di avere reagito ad una provocazione. L’azienda lo ha licenziato, facendo riferimento all’art. 25 lett. b) del contratto collettivo nazionale di categoria che prevedeva la sanzione del licenziamento per il dipendente che, in connessione con lo svolgimento del rapporto di lavoro, si fosse reso responsabile di azioni che costituiscono “delitto” a termini di legge; in questo caso il delitto era quello di lesioni personali. Luigi F. ha chiesto al Tribunale di Melfi di annullare il licenziamento, sostenendo che la sanzione era eccessiva in considerazione dei suoi precedenti e delle circostanze del fatto. Il Tribunale, dopo aver sentito alcuni testimoni, ha rigettato la domanda in quanto ha ritenuto applicabile l’art. 25 lett. b) del contratto collettivo. Questa decisione è stata riformata dalla Corte di Appello di Potenza, che ha annullato il licenziamento ed ha ordinato la reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro condannando inoltre l’azienda al risarcimento del danno. La Corte ha rilevato che dalla prova testimoniale era emerso che il lavoratore aveva subito una provocazione e quindi aveva agito in uno stato di ira determinato da un fatto ingiusto altrui e senza alcuna premeditazione; ha inoltre osservato che Luigi F. non aveva commesso in passato alcuna infrazione e che l’episodio per il quale egli era stato licenziato non aveva cagionato alcun danno all’azienda né aveva in alcun modo turbato l’attività aziendale; ha quindi concluso che il fatto contestato al lavoratore non era tale da comportare una irreparabile interruzione dell’elemento fiduciario. L’azienda ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte di Potenza per vizi di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 18144 del 10 agosto 2006, Pres. Mattone, Rel. D’Agostino) ha rigettato il ricorso, richiamando la sua costante giurisprudenza secondo cui la previsione di ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta in un contratto collettivo non vincola il Giudice, dal momento che la nozione di giusta causa è nozione legale e il Giudice deve sempre verificare, stante la inderogabilità della disciplina dei licenziamenti, se quella previsione sia conforme alla definizione di giusta causa di cui all’art. 2119 cod. civ. e se, in ossequio ai principi generali di ragionevolezza e di proporzionalità, il fatto addebitato sia tale da legittimare il recesso, tenuto anche conto dell’elemento intenzionale che ha sorretto la condotta del lavoratore. Nel caso in esame – ha osservato la Cassazione – la Corte di Potenza, valutata la portata del fatto contestato, anche in relazione alla insussistenza di conseguenze patrimoniali e morali per l’azienda, e considerato il comportamento precedente e successivo dell’incolpato e l’intensità del dolo ha ritenuto, con motivazione adeguata, che la sanzione del licenziamento non fosse proporzionata alla gravità della condotta addebitata.

fonte: http://www.legge-e-giustizia.it/2006/FATTO%20E%20DIRITTO/18144.htm#IL_GIUDICE,_IN_CONSIDERAZIONE

(18 Settembre 2006)

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