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Grazie Londra

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(27 Marzo 2011) Enzo Apicella
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L'infame protocollo Damiano del 23 luglio

(2 Ottobre 2007)

Il Ministro del Lavoro, Cesare Damiano, su l’Unità del 31 luglio 2007 ha rivendicato l’operato del governo nei quattordici mesi dall’insediamento. Un impegno, il suo, “per dare attuazione ai punti del Programma del Governo nell’ambito di specifica competenza del Ministero del Lavoro e della previdenza sociale”, il cui prodotto comprende un complesso di “interventi e misure (…) che costituiscono l’attuazione di un disegno organico”.

Un “disegno organico”, aggiungiamo noi, che si è esplicitato in un duro attacco al salario, ai diritti e alle tutele dei lavoratori, a tutto vantaggio dei poteri forti, degli industriali e dei banchieri.

Un disegno che ha trovato copertura e sostegno nella sinistra di governo (le quattro forze del "cantiere" per un nuovo partito socialdemocratico: Prc, Sd di Mussi, Pdci, Verdi) e nelle burocrazie sindacali; e ha incassato la mezza opposizione (o mezzo sostegno...) dei cosiddetti "parlamentari ribelli", inclusa Sinistra Critica di Cannavò che, al di là dei proclami sulla "necessità di opposizione", continua ad alternare voti a favore del governo, qualche (raro) voto contrario, astensioni e non partecipazioni al voto (tale è stato il voto di Turigliatto sul Dpef, motivato con la necessità... che in autunno cresca un movimento nelle piazze...).

Il governo, due giorni dopo aver acquisito l’accordo sulle pensioni, ha presentato alle parti sociali, sindacati e organizzazioni padronali, il Protocollo su previdenza, lavoro e competitività. Il “nuovo 23 luglio”, come è stato definito dal presidente del consiglio Romano Prodi.

Al tavolo, il 23 luglio 2007, proprio per segnare l’importanza che il governo attribuisce al Protocollo sul welfare, sedevano oltre a Prodi, Padoa Schioppa, Damiano, Bersani, Letta, per il Partito democratico, e Rosa Rinaldi, esponente rifondarola della sinistra di governo. In definitiva, il Protocollo di Damiano riesce persino a peggiorare il "Pacchetto Treu" e la Legge 30, mentre avvia lo smantellamento del Contratto collettivo nazionale di lavoro.

SI RAFFORZA LA PRECARIETA' DEL LAVORO

Vediamone in sintesi i principali contenuti in tema di precarietà:

Contratti a termine: dopo 36 mesi, anche non continuativi, nella stessa azienda il successivo contratto a termine deve essere stipulato alla presenza di un rappresentante sindacale presso la Direzione provinciale del lavoro. Senza questo passaggio il nuovo contratto si considera a tempo indeterminato. Non ci sono né causali né tetti contrattuali nelle assunzioni di lavoratori a termine, pertanto le aziende possono farne un largo uso, mentre al sindacato è assegnato un mero ruolo certificativi.

Contratti interinali: i contratti di somministrazione individuale non sono sottoposti a vincoli e pertanto potranno continuare ad essere utilizzati dalle aziende.

Staff leasing: anche la somministrazione di gruppo potrà continuare ad essere utilizzata liberamente dalle aziende.

Lavoro a progetto: I contratti "cocoprò" permangono, in più nei prossimi tre anni l’accordo prevede un aumento dei contributi a carico di questi lavoratori

COSA SUCCEDE CON I CONTRATTI

Contratti aziendali: è prevista la detassazione e la decontribuzione dei contratti di secondo livello per la parte che forma il premio di risultato, aziendale e territoriale. Quest’accordo spostando la convenienza padronale sulla contrattazione aziendale, che ricordiamo copre appena il 30% dei lavoratori, mina il Contratto collettivo nazionale di lavoro, l’unico che può garantire il potere d’acquisto dei salari e la solidarietà tra tutti i lavoratori.

Straordinari: viene abolita la contribuzione aggiuntiva degli straordinari, prevista dalla legge 549 del ’95. Questi costeranno alle aziende di meno, quanto le ore ordinarie, e pertanto potranno incrementarne l’utilizzo e per questa via allungare la settimana lavorativa e peggiorare le prospettive occupazionali dei precari e dei disoccupati.

LE BUROCRAZIE SINDACALI RECITANO LA LORO PARTE

La Cisl e la Uil subito si sono dichiarate d’accordo sul Protocollo sul welfare. Il Direttivo nazionale della Cgil, riunitosi, dopo l’incontro con il governo, si è espresso a maggioranza a favore. La sinistra della burocrazia sindacale, Lavoro e Società e la Rete 28 aprile, ha espresso un giudizio negativo, mentre la maggioranza della Fiom, rappresentata da Rinaldini, si è astenuta.

Subito dopo, per una settimana, è iniziato uno scambio di lettere tra il segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani, e il presidente del consiglio, Romano Prodi. Un gioco delle parti in cui il primo, nel tentativo di gestire il forte malessere presente tra i lavoratori e i delegati in merito agli accordi, esprimeva qualche perplessità di merito e di metodo, mentre il secondo chiedeva al maggiore sindacato di firmare “per intero” il Protocollo. Un gioco delle parti che si riproduceva nell’alleanza di fronte popolare tra i ministri del Partito democratico e quelli della sinistra di governo.

Nel teatrino della concertazione, il gioco delle parti si concludeva infine con l’ultima lettera inviata il 2 agosto da Epifani a Prodi, con la conferma della firma della Cgil sull’intero Protocollo.

Il combinato tra riforma delle pensioni, Protocollo su previdenza, lavoro e competitività, e ultimi contratti firmati (dopo l’apertura alla triennalizzazione nel Pubblico impiego, i postali hanno avuto il contratto allungato a tre anni, nel turismo si è arrivati addirittura a quattro, mentre nella chimica si sono accettati deroghe al contratto nazionale) configura uno dei più pesanti attacchi registrati nell’ultimo decennio al lavoro salariato e ai giovani lavoratori.

Questi accordi, ne siamo certi, incideranno in profondità sulle condizioni materiali e politiche del proletariato per gli anni a venire, essi confermano e accentuano tutte le norme precarizzanti; riducono il salario diretto, indiretto e differito; aumentano l’età pensionabile e gli anni di contribuzione; abbassano i rendimenti pensionistici attraverso il combinato tra metodo contributivo e revisione dei coefficienti; costringono i lavoratori ad impiegare il proprio Tfr per una insicura pensione integrativa; portano allo smantellamento del Contratto collettivo nazionale di lavoro; allungano la settimana lavorativa e peggiorano la condizione dei lavoratori precari e disoccupati.

COMITATO per il NO all’accordo del 23 luglio ’97 Venezia

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Ultime notizie del dossier «No al protocollo del luglio 2007»

Commenti (1)

Abolire la scaletta

Lo scalone deve essere eliminato, non spalmato.
Chi ha votato l'attuale governo lo ha fatto in base ad alcuni punti programmatici precisi, e, a mio avviso, il governo non riesce a tenerne fermo nemmeno uno.
Malgrado il decalogo (o dodecalogo, di Caserta).
Fanno bene i partiti che si dissociano, perché il loro compito, e dovere, è difendere, in primis, il proprio elettorato e ciò che hanno scelto (o creduto di scegliere?), visto che grazie a questo hanno avuto il mandato.
Non dobbiamo permettere i magheggi, come per la legge 30/2003 (Biagi), sulla quale "prima" si fa credere chissà cosa, e poi, nella sostanza, si va a cambiare una virgoletta qua ed un punto e virgola là: cioè, niente.
Lo stesso dicasi per lo scalone: a questo punto, chi avesse votato questa coalizione che è al governo fondando le sue scelte in base all'abolizione dello scalone, si ritrova pari pari come se avesse votato per il governo Berlusconi!
L'andata in pensione deve essere regolata da incentivi e da disincentivi, non da una legge che consideri tutti nella stessa condizione, quando tutti nella stessa condizione non siamo (ieri a Ballarò bersani, contraddicendosi: -Sì, è vero, alcuni contestano lo scalone, ma ad altri sta benissimo!-, e grazie al piffero... leggete più avanti... per questo va abolito!).
Ci sono lavoratori protetti e lavoratori allo sbando.
Il ministro Nicolais ha proposto una assunzione per ogni 3 dipendenti pubblici che accettino di andare in pensione. Si è fatto riferimento a prepensionamenti ed incentivi, questo perché il ministro, evidentemente, si trova a gestire due situazioni diverse: un certo numero di dipendenti che ancora non ha maturato i requisiti (prepensionamento), ed un altro numero che li ha maturati ma non ha ancora deciso di andare in pensione (incentivazione).
I primi ce li vorrebbe mandare prepensionandoli, i secondi, incentivandoli: tutto con i soldi dell'INPS che, si sostiene, manchino.
È innegabile che il ministro si trovi di fronte, pari pari, a quello che succede nelle aziende private: constata che riuscirebbe cioè a fornire gli stessi prodotti/servizi con meno dipendenti (Addirittura 1 X 3!).
Se il ministro Nicolais di questo si è reso conto così bene tanto da avanzare quella proposta, come mai il governo, del quale il ministro fa parte, non si capacita, non vuol prendere atto, che tante aziende private giungono fatalmente alle stesse conclusioni del ministro Nicolais?
Il governo, inoltre, non fa caso, distratto evidentemente da altri interessi, ad un piccolo dettaglio: che mentre il ministro Nicolais, pur dopo aver dichiarato, in pratica, di avere degli esuberi, una volta vista ricusata la sua richiesta, può starsene buono buono in attesa del tempo che passa, il datore di lavoro privato invece, le eccedenze le mette subito in CIG prima, e le licenzia appena dopo.
Allora, mentre il governo propone per tutti di andare in pensione a 61 anni, lo stesso governo, senza imbarazzo, senza arrossire, dichiara implicitamente di non avere lavoro da dare a tanti dei suoi dipendenti in maniera che raggiungano quei 61 anni che egli stesso (il governo) stabilisce occorrano, tant'è vero che già da oggi sarebbe disposto a prepensionarli purché vadano a casa.
E l'imbarazzo dovrebbe aumentare di fronte a tanti altri dipendenti pubblici dei quali ritiene evidentemente di poter fare a meno, e che, pur avendo i requisiti da tempo, 61 anni di età e oltre, di andare in pensione non ci pensano per niente (quelli che Nicolais vorrebbe incentivare, sempre con i soldi dell'INPS).
Non solo ne potrebbe fare semplicemente a meno, di questi dipendenti, ma dal mandarli a casa deriverebbe, il ministro Nicolais mi pare avrebbe sottolineato, un grosso risparmio, una consistente convenienza!
Quindi, mentre alcuni lavoratori hanno il lavoro assicurato anche quando converrebbe sostituirne 3 con 1, altri (i privati) vengono puntualmente ed inesorabilmente messi in CIG, per poi finire lisci lisci nelle liste di mobilità, dovendosela vedere, magari a 51, 52, 53, 54, 55 anni ed oltre, con un mercato del lavoro che di questi ultracinquantenni, è stato detto in tutte le salse, proprio non ne vuole sentire nemmeno parlare lontanamente, non sapendo cosa farsene.
Ora a me risulta chiaro che spostare in avanti di 4, 5 anni la possibilità per andare in pensione realizzi due situazioni opposte, contrarie, che non possono essere tenute insieme in nome di una generalizzazione funzionale a non si sa quali altri interessi (non si sa, ma si sa!): per i lavoratori statali, pubblici, che sono addirittura in esubero, questo significherà essere ancor di più giustificati nel rimanere al proprio posto di lavoro per ulteriori anni ancora (c'è la legge che lo dice!), per i dipendenti privati invece vorrà dire vedere, come dei naufraghi, un approdo che si allontana sempre di più, quando già annaspavano stremati sperando di aggrapparvicisi.
Poi ci saranno anche lavoratori privati in aziende sane e floride, ai quali però le attuali regole (57 e 35) non impediscono assolutamente di rimanere al lavoro fino al massimo consentito (cioè "finché morte non si separi").

L'accordo dell'attuale governo Prodi-Sindacati e lo scalone Berlusconi-Maroni sono esattamente la stessa cosa, e questo lo dicono i numeri.
Quanti sono i lavoratori in tutto?
Supponiamo siano, ad esempio, 20 milioni (un numero così, conteranno poi le proporzioni).
Quanti ne andranno in pensione nell'intervallo tra il 2008 ed il 2012? Si tratta di 4 anni: diciamo 3 milioni, 4 milioni?
Ebbene, gli altri 17 milioni, più tutti quelli che dal 2008 in poi verranno assunti, andranno in pensione a 61 anni.
Quale è allora da prendere come età fissata dal protocollo per andare in pensione?
Quella che riguarderà 3, 4 milioni di lavoratori, o quella che riguarderà gli altri 17 milioni e oltre?
Ed allora il protocollo fissa l'età per andare in pensione a 61 anni, e non a 58, come dichiara Epifani a RAI1 (e senza contraddittorio): cioè tale e quale lo scalone Berlusconi.
Siccome tra dipendenti pubblici e privati c'è un abisso, quanto a questo argomento, l'andata in pensione deve obbligatoriamente tener conto di queste distanze, ed agire solo su incentivi e disincentivi. Chi si troverà nella circostanza di avere un lavoro stabile, come i dipendenti pubblici, o come tanti dipendenti privati di aziende floride ed in buona salute, che arrivi pure a 61 anni ed oltre, ma a quelli che si trovassero nella EMME fino al collo e da 3, 4, 5 anni, per i quali, nonostante l'impegno dei sindacati, del governo e di tutte le istituzioni locali, non si è riusciti a trovare nessuno sbocco positivo alla loro situazione, ed avessero superato pure una certa età critica (oggi ci si attesta sui 50 anni), è doveroso dare la possibilità di andare in pensione con le regole attuali.
Mettersi in cerca di lavoro in una zona che è andata via via deindustrializzandosi, ed ad una certa età, in molti casi vuol dire entrare in collisione con i propri figli, che iniziano anche essi ad attivarsi per lo stesso motivo.
Mentre il padre sostiene sulle spalle, in maniera che stia più in alto, come una vedetta, un figlio, nella speranza che trovi un lavoro, un'occupazione, ecco che al poveretto gli viene a mancare d'improvviso il terreno sotto i piedi: vanno giù tutti e due, padre e figlio! E tutti i sacrifici fatti per tanti anni dalla famiglia rischiano di essere compromessi, vanificati, per quel pezzetto di 4, 5 anni (9, 10 con lo scalone!) che mancava al padre per concludere la sua "brillante carriera da metalmeccanico" lavorativa.

Inoltre non sono d'accordo sul fatto che si voti tutti insieme, lavoratori, pensionati, precari, invalidi e disabili, su uno stesso pentolone, su uno stesso minestrone.
Questa, secondo me, è un'altra paraculata.
Questo perché è normale che ognuno guarderà in maniera settoriale, particolare, prevalente al proprio interesse, relegando in secondo piano il fatto che questo interesse possa derivare dal sacrificio di altri.
L'aumento di pensione, sacrosanto (che poi mi pare sia un una tantum), non può diventare lo zuccherino "imbonitore" per un certo numero di votanti i quali, poverini, dovranno chiudere gli occhi e tapparsi il naso al pensiero che forse per questo loro vantaggio baratteranno che ad altri verrà imposto di lavorare 5 anni di più.
Così, anche a molti lavoratori dipendenti pubblici potrebbe andare benissimo lo scalone (quelli, ad es., che Nicolais proponeva di mandar via, e che via però non hanno deciso di andare, nemmeno quelli che, in pratica, già lo hanno salito tutto, lo scalone), a questi potrebbe andare benissimo restare al lavoro ulteriori 4, 5 anni, non preoccupandosi, giustamente, dal loro punto di vista, dei lavoratori di aziende private magari in grosse, grossissime difficoltà.
E un meccanismo analogo, di una convenienza di parte, si potrebbe applicare alla scelta che faranno i precari, gli invalidi ed i disabili.
Allora, perché non far votare ognuno per la parte che lo riguarda?
Si obietterà che l'argomento ha una sua omogeneità, con l'INPS al centro della questione, che in un certo qual modo accomuna tutti (L'INPS ed il suo bilancio, non i lavoratori!).
D'accordo, ma allora perché non far votare anche i disoccupati e gli studenti maggiorenni?
Non saranno (e sono) questi, in continuo divenire, dei lavoratori? Dei Precari? Dei Pensionati? Ed è triste dirlo, ma, purtroppo, alcuni, visto il rispetto delle norme sulla sicurezza ed i controlli, anche invalidi?
Non è giusto che anche loro si esprimano su ciò che sarà il loro futuro prossimo?
Non è stridente, se non illegittimo, lasciare che un lavoratore attuale, che andrà in pensione appena domani, nel 2008, decida oggi anche per uno studente o un disoccupato che venisse assunto in quello stesso anno?
Che decida anche lo studente, allora! Che decida anche il disoccupato, futuro lavoratore, come, quando e a quali condizioni andare in pensione!
Quando si votò per l'aborto, non votò, giustamente anche il clero?
Non votarono anche gli uomini o gli anziani di qualsiasi età che non sarebbero potuti rimanere incinta mai?
Quando si votò per il divorzio, non votarono tutti?
Anche gli scapoli ed il clero?
Ed allora, perché lasciare fuori gli studenti ed i disoccupati che sono invece assolutamente direttamente interessati, quando in altre occasioni votarono categorie che non sarebbero state coinvolte mai direttamente, in prima persona (nemmeno con un miracolo), nelle questioni che si decisero.
Gli studenti ed i disoccupati voterebbero su ciò che li riguarderà inevitabilmente, ed in primissima persona, quanto ad arco lavorativo-contributivo e pensione!
Invito i partiti che con lo spauracchio dello scalone raccolsero consensi a raccogliere questa sfida, e tutti i lavoratori a fare campagna per il NO.

Che leggano questa analisi di un povero mentecatto, di uno che non è un politicante, che non è un intellettuale: non serve essere dei matematici, in questi casi, per farsi bene i conti, come si può vedere, basta l'aritmetica!

(3 Ottobre 2007)

davap@alice.it

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