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(9 Aprile 2013) Enzo Apicella

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La "metropolitana italiana" nella metropoli europea.

(25 Aprile 2010)

Una puntuale ricognizione degli effetti della trasformazione in senso privatistico delle Ferrovie Statali.

Dedico questo articolo a mio padre, Vito, macchinista, ferroviere.


L‘alta velocita’ trova nel profitto derivante dalla concorrenza con altri vettori di trasporto il suo risvolto pratico e nell’ideologia della velocizzazione h24 dei rapporti sociopersonali la sua teoria.
Imposta dai vincoli europei, è favorita in Italia dall’atteggiamento servilmente applicativo di tutti i governi del trentennio appena trascorso.
Da Prodi a Berlusconi, dal regime di monopolio ad ente, poi s.p.a., fino allo spezzatino Trenitalia materiale rotabile + R.F.I. infrastruttura: l’Europa impone, l’Italia dispone.
Le Ferrovie dello Stato, istituite il 1° luglio 1905 per riportare sotto un’unica gestione statale le tre reti in cui erano suddivise negli ultimi due decenni dell’’800, divengono di nuovo, dopo piu’ di un secolo, spezzatino privatistico.
Il 2010, con l’apertura del tratto Bologna-Firenze ed il prossimo ingresso in rete di N.T.V. ( la compagnia ferroviaria privata di Montezemolo, Della Valle, Punzo ed S.N.C.F. ), rappresenta il varo definitivo del regime di mercato applicato al trasporto su rotaia.

La “metropolitana Italiana”
nella metropoli europea.

Il passaggio da F.S. servizio pubblico e sociale a Trenitalia azienda di trasporto porta con sè una diversa filosofia ed un diverso approccio generale.
Da servizio, appunto, si passa alla “mission” dove i viaggiatori diventano clienti, ed a parole, hanno sempre ragione; i ferrovieri diventano operatori al servizio della clientela, e non hanno mai ragione.
Dal contributo statale al servizio ferroviario si passa al bilancio d’azienda, con le sue improrogabili necessità di dividendi, e quindi l’imperativo (che nell’ideologia Morettiana mutua in “cura francescana”) di tagliare, risparmiare e “diversificare l’offerta”.
Il treno, da offerta al pubblico, diviene un prodotto da pubblicizzare e vendere a chi può permetterselo, e quindi aumenti tariffari, finte offerte, fidelizzazioni e punti da raccogliere.
Si intravede già come le ricadute dei passaggi privatistici pesino, in egual misura, sulla clientela e sui ferrovieri, usati (ed abusati) per scopi di lucro.
Ma andiamo con ordine, partendo dai trasportati.
Intanto, nel balletto di responsabilità tra regioni che non pagano e Trenitalia che ricatta, tra tagli di “rami secchi” (tratte ferroviarie non economicamente produttive), materiale rotabile scadente, binari unici e soppressioni, lo stato del trasporto regionale-locale e’ comatoso.
Il resto, la scelta strategica, l’A.V., come va?
Diciamo che i giorni successivi all’introduzione del nuovo orario invernale (13 dicembre 2010), che ha visto, oltre l’apertura della Bo-Fi , l’immissione in linea di decine di nuove coppie (andata e ritorno) di ETR. 480-500-600 con l’ulteriore riduzione di percorrenza tra Roma e Milano a 2ore e 59 minuti (senza fermate) e a 3 ore e 30 minuti con tre fermate, sono stati caratterizzati da un’ecatombe di ritardi e problemi tecnici che Trenitalia si e’ affrettata ad attribuire un po’ al maltempo e un po’ al rodaggio.


Al contrario, e’ chiaro che aumentando il numero e quindi accumulando convogli a 300 kmh. lungo la stessa linea A.V. Napoli-Milano-Torino-Venezia (con eguale percorrenza per tutti i treni da Napoli a Bologna) se se ne ferma uno, o quest’ultimo rallenta, o “chiede riserva”, si fermano, rallentano tutti, bloccando l’intera circolazione.
Inoltre, se l’A.V. e’ sempre affollata di “frecce” (e soprattutto nell’orario canonico mattina-pomeriggio-sera), e’ evidente che la linea A.V. (per esempio quella che collega Orte a Roma, ma non solo) non può essere frequentata da treni regionali, interregionali, intercity, con gli evidenti disagi in termini di ritardi.
Se da una parte si tenta di fidelizzare una clientela di fascia medio alta (con treni servizi-club e personale dedicati all’A.V.) che rappresenta circa il 5% dei viaggiatori, dall’altra si trascura e si penalizza il restante 95% ,addossandone le responsabilità all’incapacità gestionali di regioni, comuni ed Enti Locali.
Sembrerebbe una ferrovia divisa in due: i “cassamortari” manager ed affini che viaggiano spessissimo a reintegro aziendale stanno bene, mentre gli altri meno.
Non e’ esattamente così.
Oltre ai sistematici ritardi (ben più di quelli statisticamente rilevati da Trenitalia) dovuti a difetti organici del materiale ETR.(più volte denunciati , a rischio anche di licenziamento, dai ferrovieri), sul fronte tariffario non va meglio.
La mezzora (quando va bene) di tempo risparmiato tra Roma e Milano costerà ai clienti il 5,2% in più in prima classe, il 18,5% in più in seconda classe, generando così l’apparente controsenso che porta l’incasso, in condizioni di pieno vettura, per la seconda (con 68 posti) a 6052 euro, per la prima (con 49 posti).
Aggiungendo che, ormai, tra Roma e Milano, così come tra Roma e Napoli, Venezia, Torino, gli intercity sono quasi scomparsi e di regionali nemmeno a parlarne, anche per tutti gli altri,cioè la stragrande maggioranza, gli aumenti tariffari oscillano mediamente dal 20 al 40%.
Il tutto, mentre le stazioni diventano scintillanti ipermercati supercontrollati da centinaia di poliziotti pubblici e privati ma, senza ambulatorio, senza bagni pubblici ne’ uffici oggetti rinvenuti (come a Roma Termini), ma con faraoniche sale d’aspetto dedicate ai signorotti dell’A.V., accolti e coccolati da colleghe-veline (loro malgrado , appositamente selezionate da Trenitalia per la bisogna!).
In sostanza, il management attuale di Trenitalia sta privilegiando l’obiettivo finanziario rispetto a quello industriale, come mezzo per conseguire (agendo soprattutto sul costo del lavoro) il pareggio di bilancio.
Il segmento merci ( Cargo ) e’ stato ridimensionato, lasciando campo libero a quel reticolo vettoriale su gomma con il quale a chiacchiere si dice di voler competere.
Il trasporto passeggeri a media e breve (TMR) percorrenza ha tagliato fuori molti centri medio-grandi, fino all’esclusione dal servizio di interi territori regionali.
Quanto al settore officine-manutenzione, il suo depotenziamento corrisponde all’ingresso di una interminabile schiera di appaltatori privati, che realizzano ( senza capacità ed esperienza professionale adeguate ), i loro profitti a scapito delle condizioni di lavoro dei loro dipendenti e della qualità del servizio appaltato.
E’ questa la vera ragione della odierna crisi dell’intero apparato produttivo e della scarsa affidabilità dei locomotori e dei convogli.
Anche l’infrastruttura ( RFI ), vive una situazione critica.
Gli infortuni mortali ammontano a 19 nell’ultimo quinquennio, mentre la carenza di personale ha raggiunto livelli insostenibili a danno della media manutentiva.


L’intera rete ferroviaria sta diventando un deserto di uomini e macchine; l’assistenza alla clientela ( quella normale! ) e’ carente, quando non assente; l’assistenza disabili è a macchia di leopardo, le biglietterie nei centri medi-piccoli sono una chimera e le stazioni spesso in degrado.
Contemporaneamente in assoluta controtendenza, nelle grandi stazioni, il servizio di informazione, assistenza e vendita e’ rivolto alla clientela A.V. , trascurando o relegando in spazi angusti la totalità dell’altra clientela.

Se alla clientela non va molto bene, ai ferrovieri va decisamente peggio!
Al 30 giugno 2009, i dipendenti Trenitalia sono 87.539, il 4,6% in meno dell’anno prima, il 50% in meno rispetto a 10 anni fa, 130.000 in meno rispetto al 1990.
Questo mentre il gruppo F.S. realizza, nel 2009, ricavi per 3,7 miliardi di euro, con un margine profittuale lordo di 458 milioni di euro, il 23,5% in piu’rispetto all’anno prima.
Meno ferrovieri per più profitti significa evidentemente una maggiore produttività, elargita in condizioni di minore manutenzione ed esperienza collettiva.
E’ chiaro che per aumentare la produttività, oltre che sul numero dei ferrovieri, si e’ intervenuto e si interviene, applicando gli ultimi 3-4 c.c.n.l., sulle condizioni di svolgimento del servizio, in primis riducendo l’intero equipaggio treno ed aumentandone, di conseguenza, carico di lavoro e tratte di percorrenza.
L’equipaggio treno e’ costituito dal capotreno, dal caposervizio treno e dai macchinisti ( 2 in Italia fino al maggio scorso ).
Come ogni viaggiatore pendolare sa, sui treni locali ormai da anni c’e’ un solo capotreno che sta al fianco dell’unico macchinista alla guida, con gravi ripercussioni sulla inevitabile assenza di ogni riferimento fisico-informativo-di pronto intervento sulle vetture.
Sugli eurostar e nei pochi intercity sopravvissuti, le squadre del personale di bordo si riducono sempre più, tendendo pericolosamente ad una sola presenza per convoglio.
Per i macchinisti, dapprima si e’ tentato di introdurre il Vacma “ uomo morto” ( una banale sveglietta in suoneria ogni 50 secondi! ), uno strumento talmente rudimentale e dannoso per la salute dei ferrovieri da essere bocciato, oltreché dall’intera categoria, anche da 33 A.S.L, dal coordinamento tecnico interregionale e dal Ministero dei trasporti.
Quello che non ha potuto Moretti, l’hanno realizzato i sindacati cgil-cisl-uil-ugl ( esclusa l’Or.sa che non ha firmato ), con l’infame accordo del maggio 2009, che ufficializza la condotta unica ( 1 solo macchinista! ) alla guida sulle tratte dell’A.V. per 6000 km..
E pensare che i macchinisti, allora “musi neri” ( per via del carbone e del fumo ), subirono già il tentativo di introduzione dell’”uomo morto” durante il ventennio fascista.
In un arco di tempo che comprende i due conflitti mondiali, l’azienda cercò di imporre l’agente unico, riuscendovi per un quinquennio, dal 1938 al 1943, su due gruppi di locomotori trifase sulle linee del nord-est.
Il tentativo di estendere il vigilante ai locomotori in corrente continua in tutta Italia, scatenò la reazione dei macchinisti, che in piena guerra sfidarono il regime, si ribellarono all’”uomo morto”, e ne impedirono la re-installazione.
L’”aiuto macchinista” tornò in cabina ad affiancare il “maestro”!
La lotta anonima di tutti i ferrovieri produsse una vittoria storica.
A 70 anni da allora, i manager Trenitalia ci riprovano, con la firma sindacale, ma la riposta dei macchinisti e di tutti i ferrovieri, non e’ la stessa di allora.
Una categoria allo stremo, ridotta, stanca, sfiancata da un lavoro pesante ed a turni,
s-venduta da una rappresentanza sindacale collusa ed integrata ( anche fisicamente! ) nei collegi di amministrazione aziendale: categoria che non riesce a produrre, nonostante i lodevoli sforzi di minoranze poco seguite, una opposizione produttiva e vincente.

Una categoria che paga anche con i morti, i feriti e i mutilati, la scarsa attenzione aziendale verso una sicurezza che costa, che paga l’acquiescenza sindacale, la riduzione del personale e della sua storica esperienza professionale, la diffusione di forme individuali di contrattazione del lavoro, attraverso la generalizzazione di straordinari fuorilegge oltreché fuori normativa.
140 incidenti ferroviari l’anno nell’Europa dell’A.V. e del trasporto intermodale, dove la stragrande maggioranza dei locomotori sulle linee “secondarie” e dei treni merci sono sprovvisti delle tecnologie di sicurezza riservate all’A.V..
32 vittime a Viareggio lo scorso giugno, per l’esplosione di un carro carico di g.p.l., ma anche 16 in Romania ad agosto, ma anche 20 morti in Turchia l’anno prima per la mancanza di una armonizzazione delle normative del trasporto merci a livello Europeo non più rinviabile.
E poi c’e’ la polverizzazione quotidiana delle morti anonime lungo le linee, dei manovali falciati perché “ non si può interrompere la circolazione durante le operazioni manutentive”, del personale di bordo schiacciato dalle porte perché privato dell’ausilio tecnologico del cosiddetto “ bordo sensibile”, dei macchinisti sempre primi a morire in cabina, magari senza ripetitore in macchina dei segnali, o su linea unica.
I presunti dati positivi aziendali su morti e nocività, se paragonati ad un personale più che dimezzato, dimostrano in percentuale la necrofilia di una macabra battuta.
Quella che era la “ferrovia più sicura del mondo” sta diventando una trappola
( spesso mortale! ) per clientela e ferrovieri, una trappola alla quale insieme bisognerebbe ribellarsi.
Certo, le ribellioni non nascono da sole, ed anche quando episodicamente succede, se non sono organizzate e strategicamente orientate, rifluiscono o finiscono per essere strumentalizzate portando acqua ( o potere, poltrone, voti ) al mulino di altri.
E’ quello che puntualmente e’ successo anche in ferrovia.
Una categoria, quella dei ferrovieri, storicamente molto sindacalizzata, e molto orientata a sinistra ( da menzionare l’enorme peso tra la categoria dello S.F.I./C.G.I.L. ).
Una categoria che proprio per questo suo alto tasso di coscienza sindacale ha dato molto al movimento operaio, conquistando diritti e civiltà per tutti.
La stessa alta sindacalizzazione é alla base del contributo notevole dei ferrovieri ( una volta compreso il “tradimento” della c.g.i.l. a rimorchio dell’ideologia dei “sacrifici ed austerità” degli anni ’70) nelle prime forme e nelle prime lotte di base, con i comitati di base prima, con la fisafs ( grande fu lo sciopero di 7 giorni per le 100.000 lire per tutti i ferrovieri! ), e poi con il COMU dei macchinisti, con il COMAD dei manovratori, con il CNPV del personale viaggiante.
Un contributo così forte da segnare l’intera fase storico-politica del neonato sindacalismo autonomo e di base.
Un sindacalismo che trovava soprattutto nella rottura e nella fuoriuscita dall’egemonia cgil, il suo motivo primo di espressione e di battaglia politica, per poi innervarsi con tutte le altre esperienze di coordinamenti e comitati operai autonomi.
Se da una parte la generositàdei ferrovieri fu utilizzata nella nascita della fisafs (che si caratterizzò nel ventennio ’80-’90 con tratti di forte corporativismo), più genuine ed interessanti furono le esperienze categoriali dei macchinisti, del p.d.b. e della manovra, i quali insieme diedero vita a scioperi ed anche a tentativi trasversali di organizzazione di base, fino ad arrivare, alla fine del secolo scorso, alla sintesi dell’Or.sa. sindacato autonomo e di base cui, purtroppo, si confederò quasi subito anche la fisafs, snaturando, almeno in parte, l’eredità di lotte accumulate negli anni.


L’iniezione corporativa fisafs nell’Or.sa., oltrechè l’ostinazione nel voler costruire “percorsi unitari” con cgil-cisl-uil-ugl, sono alla base della firma del contratto bidone del 2004 ( contro cui l’Or.sa., e i ferrovieri avevano fatto ben 12 scioperi! ) e della conseguente perdita di gran parte del consenso accumulato tra i macchinisti, e tra tutti i ferrovieri.
Di converso, le altre organizzazioni del sindacalismo di base, verificata la loro scarsa presenza e rappresentatività categoriale, nonché la loro intima ed eterna litigiosa concorrenza, non hanno mai attecchito tra i ferrovieri.
Altre esperienze recenti, frutto dell’emozionalità seguita ad incidenti particolarmente cruenti ( Crevalcore e Viareggio ) o a licenziamenti aziendali ( 6 colleghi a Genova per aver parlato con Report e Dante De Angelis per aver difeso la sicurezza del servizio nel suo ruolo di r.l.lsl. ), hanno fatto nascere il Coordinamento 12 gennaio e l’Assemblea 28 giugno.
Mentre il primo coordinamento ha tentato di muovere la categoria intorno alle tematiche della salute e della sicurezza (anche in relazione all’imposizione aziendal-sindacale dell’agente unico), la seconda assemblea sta facendo un lodevole lavoro di unificazione delle rivendicazioni tra cittadini e ferrovieri relative alla sicurezza dei convogli merci che attraversano ( spesso con carichi pericolosi ) le città.
Sono esperienze importanti che riprendono l’antico filo dell’autoorganizzazione dei ferrovieri, e dell’indispensabile necessità di legare questo filo all’ utenza di un servizio che non può essere profittuale, ne’ tantomeno “dedicato” ad una clientela ricca ed affarona.
Un filo da irrobustire, per una locomotiva, quella dei ferrovieri, che ripartirà.
Contro l’ingiustizia, come sempre!



“ per il personale di macchina il passato
che ci logora ancora le carni
non deve piu’ tornare.
La manovra da soli,
il disagio delle 300 ore mensili,
il sevizio dell’uomo morto,
la sorveglianza faziosa della milizia.
E se tornare al 1938 vuol dire anche tornare a tutto questo,
allora sara’ la lotta e lotta dura.”

Sario
aiuto macchinista
settembre 1949

Pino - Deposito personale viaggiante (Stazione Termini - Roma)

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