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La fabbrica di Marchionne

(26 Luglio 2010)

anteprima dell'articolo originale pubblicato in www.dirittidistorti.it

Lunedì 26 Luglio 2010 06:12

Di Stefano Giusti - La campagna d’estate dell’amministratore delegato della Fiat Marchionne procede incessante. Evidentemente, per evitare gli errori di alcuni suoi illustri predecessori, ha preferito evitare l’autunno e l’inverno concentrando i suoi attacchi nel periodo caldo delle vacanze (per chi può permettersele…). Ha cominciato con la vicenda di Pomigliano, una sorta di democratico referendum in cui la scelta era tra vivere o morire e che gli stato gentilmente rispedito al mittente malgrado i tentativi di schiacciare ogni dissenso a colpi di minacce. Non contento, ha proseguito con una serie di licenziamenti mirati, colpendo sindacalisti a Melfi e a Mirafiori per finire con lo sviscerato elogio del sindacalismo collaborativo Usa, prodromo dell’annuncio del trasferimento di una parte della produzione della Fiat dallo stabilimento di Mirafiori alla Serbia. Il tutto sempre accompagnato da quello che è ormai diventato un mantra, recitato a più voci a destra ma purtroppo anche in certi ambienti della sinistra: quello della competitività sul mercato globale. Eppure non sembra proprio un brutto momento quello attraversato dalla Casa torinese: nel secondo trimestre di quest'anno infatti (dati Sole 24Ore) il gruppo torinese ha ottenuto un utile netto di 113 milioni di euro. In crescita anche i ricavi, che hanno registrato un incremento del 12,5%; l’utile della gestione ordinaria è passato da 310 a 651 milioni di euro. In forte calo l'indebitamento netto industriale, arrivato dai 4,7 miliardi di fine marzo a 3,7 miliardi, Sempre alla fine del secondo trimestre 2010, la liquidità a disposizione del gruppo è aumentata a 13,5 miliardi dagli 11,2 di fine marzo. Stupisce sapere che malgrado ciò la Fiat abbia deciso di non pagare il premio di risultato, un obiettivo produttivo precedentemente concordato e raggiunto da quegli stessi operai a cui si chiede sempre uno sforzo in più (naturalmente per i dividendi degli azionisti nessun problema…). O forse gli utili sono serviti per coprire le spese di trasferta di tutto il prestigioso consiglio d’amministrazione Fiat che si è tenuto a Detroit, nella casa madre di Chrysler, quell’azienda in cui il sindacato “ha capito il momento del mercato, la strategia del gruppo, la necessità di essere leader.”
A parte le ironie sulle dichiarazioni, viene da chiedersi dove veramente Marchionne e il suo staff vogliano arrivare e se il discorso della competitività tanto sbandierato, non nasconda invece altri fini strutturali ben più pesanti da un punto di vista sociale.
Quando si dice che la fabbrica va delocalizzata perché il costo di un operaio slavo è minore di un operaio italiano, come al solito si fa un’operazione di verità parziale. Quando si parla di costo totale di produzione di una merce, va considerato che la voce “lavoro umano” incide in una misura non superiore al 7-8% del costo totale. Su questo infatti incidono anche e soprattutto altre voci come le economie di scala, i volumi di produzione, la qualità e la produttività del lavoro (e quindi il livello di istruzione e di formazione dei lavoratori), così come la quantità di capitale fisso, l’efficienza dei macchinari, la tecnologia, l’innovazione e il design. Insomma un’insieme di voci che quasi fanno del costo del lavoro una parte marginale. Per quanto delocalizzando si voglia risparmiare, viene da pensare che con tutta la buona volontà questo costo umano possa scendere al massimo di un 2-3%, a meno che non si voglia pensare di arrivare ad una forma di lavoro gratuito. Quindi la montagna, da un punto di vista economico partorirebbe un topolino. Viene allora da chiedersi se invece gli obiettivi non siano altri, e se dietro la solfa della competitività globale, non si nasconda la volontà di stabilire partendo dalla fabbrica, un nuovo modello sociale, teso a riportare indietro di almeno 80 anni i rapporti tra capitale e forza lavoro. Una fabbrica nuova (o vecchia se ci guardiamo indietro) in cui siano sospesi tutti i diritti, dalla malattia allo sciopero, dove la sicurezza sul lavoro sia contingente ai ritmi di produzione e dove i contratti siano individuali e non più collettivi, così da creare una forza lavoro senza più identità di classe, aliena da ogni possibile rivendicazione e soprattutto licenziabile in qualsiasi momento senza nessuna forma di protezione. Una forza lavoro intercambiabile, sottopagata e completamente accondiscendente al “mercato”.
Se può sembrare fantascienza, si confrontino queste condizioni con quelle che già vivono migliaia di precari, quotidianamente alle prese con contratti in scadenza quasi mai rinnovati, diritti basilari negati e stipendi da fame, i cosiddetti “working poor”.
Un’ultima considerazione: se Marchionne e lo stato maggiore Fiat vogliono emigrare in Serbia, liberi di farlo, in fondo ne rispondono ai loro azionisti. Cortesemente però restituiscano prima tutti quei soldi pubblici avuti sotto forma di aiuto statale per incentivi, a cui loro, inflessibili sostenitori del libero mercato quando si tratta di forza lavoro ma ferventi statalisti nei momenti di crisi, ricorrono ogni volta che sbagliano conti e piani di sviluppo, preparati da sapienti e superpagati manager. E magari il governo la prossima volta che concede un aiuto con soldi pubblici, faccia in modo che l’erogazione sia legata almeno al calo di qualche punto di disoccupazione, altrimenti ingenuamente non capiamo perché a fronte di cotanti investimenti, sempre più persone stiano senza lavoro e senza stipendio.

26-7-10

Stefano Giusti, Sociologo, Consigliere Nazionale dell’ass.ne Atdal Over 40, che si occupa della disoccupazione in età matura.

www.dirittidistorti.it

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