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il pane e le rose

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Scontro di civiltà e apartheid

(10 Ottobre 2010)

In coincidenza col nono anniversario dell’invasione americana dell’Afghanistan si è tenuta a Roma la manifestazione Per la verità, per Israele. Espressione della Israel Lobby italiana, la grande kermesse ha visto un’ampia gamma di personaggi della destra internazionale, dal paleo-franchista e neo-colonialista José Maria Aznar agli indigeni Ferrara… Il carattere essenzialmente farsesco dell’evento, che tuttavia ha ricevuto una sproporzionata attenzione dai media) rende futile ogni tentativo di discussione dei suoi temi. La dolorosa, lacerante contraddizione di celebrare lo Stato d’Israele nel momento in cui questo rende la sua oppressione del popolo palestinese sempre più intollerabile, è stata espressa con profondo calore umano e afflato poetico Miryam Marino in una lettera aperta, pubblicata dagli amici di Rete.ECO (Ebrei Conro l’Occupazione), e non ho nulla da aggiungere alle sue parole.

Vorrei soffermarmi invece su un tema che, sebbene egregiamente confutato da studiosi della statura di Edward Said e Noam Chomsky, continua ad aleggiare nella retorica internazionale: lo scontro di civiltà. L’espressione ‘clash of civilizations’ fu introdotta da Bernhard Lewis nell’articolo “The Roots of Muslim Rage” (The Atlantic Monthly, Sept. 1990). Il concetto fu in seguito ampiamente elaborato da Samuel P. Huntington nel suo The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order (Simon & Schuster, 1996). La teoria sostiene che, nel clima politico internazionale successivo alla Guerra Fredda, i conflitti fra i popoli avranno una radice culturale e religiosa. L’idea di fondo è che l’Islam, visto come un blocco monolitico, privo di quelle sfumature che caratterizzano ogni grande fenomeno storico-religioso, è intrinsecamente aggressivo, totalitario e apocalittico: suo unico scopo sarebbe la sottomissione e l’annientamento del mondo occidentale. Questa sorta di personificazione mitica dell’Islam finisce inevitabilmente per acquistare elementi caricaturali (come argutamente osservava Edward Said nel suo magnifico saggio “The Clash of Ignorance” in The Nation 22 Oct. 2001). Mutatis mutandis, lo stesso potrebbe dirsi dell’imperialsmo americano, che, come una piovra, si è esteso ai quattro angoli del mondo abitato (dalla Corea a Panama, dal Vietnam all’Iraq e Afghanistan) per assicurarsi che lo sfruttamento delle materie prime restasse sadamente nelle mani delle proprie corporazioni e non dei legittimi proprietari abitanti dei territori.

Ma questo ci porterebbe a uno sterile gioco di specchi. Mi limito qui a riportare sommariamente un episodio discusso in Slate (“Party of Defeat” 14 marzo 2007). Durante una riunione di neoconservative, presieduta da Dick Cheney, Lewis denunciò aspramente il gesto di Papa Giovanni Paolo II che, nel 2000, aveva pubblicamente ammesso l’errore storico delle Crociate. La tragica, involontaria ironia delle parole di Lewis è evidente: egli, ebreo, condanna il Papa per aver chiesto ammenda di una guerra santa dei cristiani contro i musulmani, la quale, non soltanto costituì un precedente di futuri Jihad, ma si risolse in un massacro di intere comunità ebraiche, e che è ricordato come uno dei tragici momenti dell’antisemitismo. Caduta la maschera, l’idea di Clash of Civilizations appare quindi come la legittimazione ad hoc della politica di aggressione americana in Medio Oriente. Un’ulteriore confutazione della teoria è fornita da una semplice osservazione. Se davvero il fondamentalismo islamico è la matrice del nuovo spettro che si aggira per il mondo, come mai gli strali della retorica e della politica anti-islamica non si appuntano contro l’Arabia Saudita, forse il più retrivo dei potentati orientali? Non solo il regno è da decenni nazione amica degli USA, ma ha perfino recentemente ottento un contratto per una fornitura di armi del valore di 60 miliardi di dollari.

Nel contesto del conflitto palestinese-israeliano il carattere suicida della linea dura del governo israelieano è stato ripetutamente osservato. Se si è riusciti con successo a bloccare ogni tentativo di realizzare una ‘two-state solution’, l’unica opzione che resta è, come ha osservato in un’intervista il professore alla Chicago University John Mearsheimer, è il ‘Greater Israel’ che sancisce le condizioni d’inaccettabile discriminazione già esisitenti. Nel 207 perfino Ehud Olmert osservò che tale soluzione avrebbe portato a un “modello sudafricano [non volle usare la parola apartheid] e ciò sarebbe un disastro.” Sembra ovvio che, nonostante le acrobazie intellettuali e la massiccia pubblicità, un simile modello non sia accettabile nel contesto delle democrazie occidentali, a cui, bene o male, Israele si sforza ancora di appartenere. Ciò non significa che lo smantellamento di tale situazione sia imminente.

Già all’ inizio degli anni ’60, il Sudafrica riconosceva di essere diventato paese “pariah” fra le altre nazioni, ma con l’appoggio statunitense la situazione poté mantenersi ancora molto a lungo. Solo negli anni ’80 il movimento per il disinvestimento nel Sudafrica cominciò a prendere quota. Eppure Reagan riuscí ad aggirare le decisioni del Congresso e tenere in piedi l’apartheid. Pochi anni dopo, però, la politica statunitense mutò rotta e il regime scomparve. La campagna per il BDS, pur consapevole di affrontare questi tempi lunghi, rende fiducioso chi la intraprende, perché crea nei maggiori Paesi occidentali la coscienza collettiva che la brutale segregazione e disumana oppressione imposte da Israele ai palestinesi sono fondamentalmente e inequivocabilmente inaccettabili.

9 ottobre 2010

Massimo Mandolini Pesaresi

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