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Caporalato?

Caporalato?

(12 Gennaio 2011) Enzo Apicella
Referendum sul ricatto Marchionne a Mirafiori

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La vicenda Fiat vista da un'altra angolazione

(5 Febbraio 2011)

anteprima dell'articolo originale pubblicato in www.webalice.it/mario.gangarossa

Il duro attacco portato avanti dalla Fiat, capeggiata dall’amministratore delegato Sergio Marchionne, contro gli operai di Pomigliano prima e Mirafiori poi, ha tra i suoi principali obiettivi quello di aumentare la subordinazione dell’operaio all’azienda e d’incrementare la produttività del lavoro, passando dall’attuale forma di contrattazione collettiva, ad un contratto aziendale semi-individuale. Questo nuovo tipo di contrattazione è stato sancito con gli accordi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali, ma non dalla Fiom-Cgil, che ha ingaggiato un prolungato confronto con Marchionne.

Il secondo di tali accordi, per lo stabilimento di Torino Mirafiori, in sintesi prevede:(1):

1) L’applicazione dell’accordo sottoscritto -che sottrae questi lavoratori al contratto nazionale dei metalmeccanici- impone 18 turni di lavoro settimanali (21 per le manutenzioni e gli addetti alla centrale vernici). Ciò comporta: lavoro notturno, 15 sabati e domeniche lavorativi, e quindi, 120 ore annue di straordinari senza nuova contrattazione; riduzione delle pause alle catene di montaggio da 40 a 30 minuti e, previa contrattazione, spostamento della pausa pranzo a fine turno; incentivazione alla riduzione delle assenze per malattia(2) ed altre misure di flessibilità che avvantaggiano l’azienda a spese dei lavoratori;

2) soppressione dalle rappresentanze sindacali unitarie (Rsu), ed introduzione della rappresentanza sindacale aziendale (Rsa), che garantisce il diritto di rappresentanza alle sole organizzazioni sindacali firmatarie del contratto.(3) I sindacati che non firmano l'accordo, come intende fare la Fiom, non avranno delegati in fabbrica, né potranno indire assemblee;

3) tutti i dipendenti dello stabilimento verranno posti in cassa integrazione straordinaria, per un anno a partire dal 14/2/11, quando scade l’attuale Cig ordinaria, ed avviati ai corsi di riqualificazione obbligatori, quindi licenziati e riassunti dalla “newco”, la nuova azienda,(4) con riconoscimento di retribuzione, scatti d’anzianità ed inquadramento maturati;

4) i dipendenti che verranno riassunti, come già previsto per lo stabilimento di Pomigliano, si devono impegnare personalmente al rispetto dell'accordo, non potranno cioè scioperare contro le clausole in esso contenute, pena sanzioni fino al licenziamento;

5) l’introduzione delle nuove turnazioni notturne, di sabato e domenica, comportano per legge una maggiorazione accessoria, che in questo caso si aggirerebbe sui 300 € mensili, e che viene propagandata come aumento retributivo.

In appoggio alla linea antioperaia dell’azienda, imposta nel nome della modernizzazione delle relazioni industriali, si è schierata l’intera pletora dei sindacati firmatari dell’accordo, e dei partiti parlamentari,(5) il governo, la Confindustria, e la stragrande maggioranza degli organi d’informazione. Vi si sono opposti la Fiom ed i Comitati di base (Cobas), con la solidarietà della frammentata schiera dei partiti, movimenti e gruppi di sinistra, e di pochi altri.

Nonostante il grande battage messo in campo dalle forze reazionarie, per far passare l’accordo mediante il referendum, e nonostante il pesante ricatto aziendale -che in caso di bocciatura minacciava di spostare investimenti e produzioni in altri paesi- oltre la metà degli operai di Mirafiori e di Pomigliano, hanno avuto il coraggio, l’orgoglio e la forza di opporvisi. La fermezza operaia non è però riuscita ad impedire che ai due referendum prevalessero i sì, col 54,1% a Mirafiori ed il 63,2% a Pomigliano a causa dell’appoggio dato alla linea aziendal-sindacale dagli impiegati: personale degli uffici, ingegneri, capi intermedi, cronometristi, ecc.. Ai lavoratori che hanno votato contro va il vivo plauso e l’ammirazione di tutti coloro che sono politicamente sensibile agli interessi di classe dei lavori; a quelli non hanno avuto il coraggio di opporsi al ricatto, visto il pesante clima intimidatorio interno ed esterno alle fabbriche, ed il vuoto politico e sindacale in cui si sono trovati, va una non rituale comprensione per i loro timori. Quest’ultimi devono tuttavia rendersi conto che, ad ogni cedimento, corrispondono, specie in periodi di crisi e di debolezza operaia, nuovi e più pesanti peggioramenti.

Le misure di maggiore flessibilità strappate in questi due complessi industriali, verranno ora estese agli altri stabilimenti Fiat, come ha immediatamente ribadito l’a. d., e quanto prima, a tutto il settore metalmeccanico e all’intero mondo del lavoro. Ad appena due giorni dal formale assenso all’accordo ricevuto a Mirafiori infatti, l’associazione delle aziende metalmeccaniche, la Federmeccanica, ha affermato che “intende sostituire il contratto nazionale di lavoro con contratti aziendali”. Pochi giorni dopo la Confindustria annuncia l'intenzione di “voler riformare la propria organizzazione, dando più spazio alle unioni territoriali e alla contrattazione aziendale”. Tutto ciò non deve meravigliare, visto l’incondizionato appoggio dato a dette vertenze dall’intero mondo imprenditoriale e dai loro accoliti; e tenuto conto che, con meno frastuono, diversi contratti del genere erano già stati sottoscritti -alcuni dei quali addirittura peggiori (6)col beneplacito della Cgil, e, in alcuni casi, anche della Fiom.(7)

Con l’affermarsi delle nuove relazioni industriali, la maggior parte delle grandi aziende e parte delle medie viene incentivata a rivendicare contratti più confacenti alle proprie specifiche esigenze. E’ quindi facile che prenda piede una specie di rincorsa al rialzo, in cui ogni dirigente aziendale rivendichi qualche vantaggio in più per la propria azienda. Dalle nuove relazioni industriali, c’è quindi d’aspettarsi un crescente peggioramento delle condizioni di lavoro e forse anche salariali. La contrattazione collettiva verrà dunque ridimensionata, resterà per le piccole aziende e parte delle medie. Ma se nei contratti dei più grandi complessi come la Fiat, vengono accettati peggioramenti, in quel che resterà del contratto nazionale non potrà che venire somministrata la stessa medicina.

Anche il potere di contrattazione dei sindacati verrà ora rivisitato e sminuito. Ma sebbene i sindacati siano organismi di mediazione, che antepongono gli interessi aziendali e nazionali a quelli dei lavoratori, imponendo quasi sempre accordi al ribasso, il loro indebolimento non avvantaggia i lavoratori che, con la contrattazione fabbrica per fabbrica, perdono l’apparente forza d’urto dei grandi scioperi di categoria, che contribuiscono effettivamente ad infondere fiducia. I lavoratori si vengono quindi a trovare più divisi ed indeboliti, mentre il padronato è sempre più deciso e coeso nel sostenere i propri interessi di classe. Insomma, i padroni impongono il dividi ed impera, mentre i lavoratori e coloro che pretendono di rappresentarli politicamente e sindacalmente, non stanno compiendo alcun passo per tentare di arginare il crescente strapotere. Questa è la deprimente fase in cui ci troviamo.

In queste due vertenze, la Fiom -forse consapevole dei rischi a cui si va incontro, o forse per cercare di recuperare iscritti- ha dato l’impressione d’essersi battuta in modo deciso contro l’accordo e di non avere ceduto alle pressioni esercitate dalla borghesia ufficiale, da Pd e Cgil; ma non ha avuto il coraggio di boicottare il referendum, ne di dare indicazione di voto contrario. Quest’atteggiamento ambiguo è stato visto in modo molto negativo dai gruppi di sinistra e dai comitati. Per poter dare un giudizio più ragionato su di esso, conviene ricordare brevemente la storia del sindacalismo italiano. La Fiom, insieme allo Sfi-Cgil e a pochi altri, ha spesso costituito la parte più combattiva del sindacalismo italiano; un sindacalismo che è parte integrante dell’attuale sistema democratico borghese, ed è sempre stata decisa a difenderlo. Non a caso, nell’opporsi all’accordo Fiat, la Fiom ha soprattutto accusato l’azienda d’essersi comportata in modo anticostituzionale. La Fiom di fine 2010 dunque, è sulle stesse posizioni di difesa della legalità costituita, che ha contraddistinto la Cgil dall’immediato dopoguerra; una linea che, nei momenti di crisi, ha significato porsi in prima fila nell’accettare o proporre sacrifici agli operai e sostegno ad aziende ed economia nazionale; ma non va nemmeno dimenticato che ha anche significato organizzare aggressioni ai nostri danni e di quanti, in nome degli interessi di classe, vi si opponevano. La posizione di neutralità sul referendum è quindi coerente con la “migliore” tradizione del sindacalismo italiano; non dobbiamo pertanto ne esaltarne le gesta, che hanno carattere contingente, ne strapparci le vesti per le sue ambiguità, ma tenere materialisticamente conto di tutti i tratti che la caratterizzano.

Ora però che la contrattazione nazionale se n’è sta andando a gambe all’aria, occorre fissare il livello minimo delle retribuzioni, che garantisca a tutti coloro che prestano un’attività dipendente, un salario decente; ed un salario minimo garantito, sufficiente a vivere, per il numerosissimo esercito di disoccupati, licenziati, cassintegrati od in cerca di lavoro, siano essi giovani o adulti, indigeni o immigrati. Vedremo se la Fiom si farà promotrice e sostenitrice di tali improcrastinabili rivendicazioni, da tempo riconosciute in molti paesi europei, o se, invece, privilegerà gli interessi del capitalismo italiota. Per imporre tali obiettivi occorre però che i lavoratori si mobilitino, si attivizzino in modo massiccio, si organizzino in comitati di lotta per avanzare con forza tali rivendicazioni che possono veramente contribuire ad unire i proletari.

Per completare l’analisi ci si deve anche chiedere che cosa sarebbe successo se ai due referendum avessero prevalso i no. In qual caso si sarebbe probabilmente riaperta la trattativa e la Fiat avrebbe fatto qualche piccola concessione, per coinvolge la Fiom, com’è accaduto in tante altre occasioni. Non si può invece sapere se, in caso di definitivo diniego, la Fiat avrebbe o meno garantito la prosecuzione della produzione nei due stabilimenti che coinvolgono un vasto indotto. Queste decisioni, soprattutto nell’attuale società globalizzata, vengono determinate dall’insieme di moltissimi fattori di varia natura, sia esterni che interni all’azienda. Sta di fatto che in questo momento il mondo borghese è decisamente schierato a difesa del profitto, mentre da decenni la classe operaia si è molto indebolita, sia sotto l’aspetto politico che sindacale e sociale. E una classe operaia debole è soggetta a subire le più avverse imposizioni.

Queste due importanti vertenze hanno posto e pongono all’attenzione della classe operaia, dei militanti e di tutte le organizzazioni politiche, operaie e sindacali di sinistra, una serie di problematiche, che andrebbero discusse in modo approfondito. Ne ricordo alcune.

Prima di tutto il ricatto, con la minaccia di spostare le produzioni in altri paesi -misure che sono state praticate da numerose aziende e che hanno causato migliaia di disoccupati in Italia e nel mondo- dimostra che è in atto un attacco politico di classe del capitale al lavoro su scala mondiale, contro il quale, operai e sindacati non possono pensare di affrontarlo con singole lotte. Tengano ben presente questo dato di fatto, i sindacalisti massimalisti alla Giorgio Cremaschi e i vari movimentisti, sostenitori del conflitto sociale permanente; questi entusiasti lottatori devono riflettere e capire che tali lotte, per dure, decise e coraggiose che siano, possono solo dar fastidio, ma non possono certo bloccare la direzione di marcia imposta dal capitale internazionale.

L’attacco messo in atto negli stabilimenti Fiat, non è soltanto un atto di prevaricazione aziendale teso ad imporre una maggiore subordinazione operaia, che consenta di aumentare flessibilità, incrementare la produttività e recuperare competitività nei confronti degli altri grandi colossi automobilistici. Essa rappresenta una tappa sulla via del progressivo annullamento delle conquiste operaie realizzate in due secoli di dure e sanguinose lotte, europee e mondiali. Detta in altri termini, la Fiat intende imporre in fabbrica quel rigore dei tempi di crisi da tempo in atto in materia salariale, occupazionale e sociale, e che ora si accingono ad estendere all’organizzazione del lavoro: turni, ritmi, assenze per malattia, ecc.

L’attacco portato alla classe operaia dalla globalizzazione dell’alta finanza, di cui Marchionne è una delle teste d’ariete, non la si può contrastare con lotte spontanee, sindacali o di sparute minoranze politiche divise tra loro. Per poter ambire a svolgere un ruolo attivo nello scontro di classe in atto, occorre che si sviluppino organizzazioni politiche ed operaie veramente classiste, le quali, quantomeno, tendano a coordinarsi a livello internazionale e ad unificare gli obiettivi; ed inoltre s’impegnino seriamente ad elaborare un modello fattibile della nuova società che sogniamo. E’ mai possibile che perfino un moderno conservatore come il premier britannico Cameron, si ponga il problema dell’inadeguatezza del capitalismo attuale,(8) ed intellettuali e gruppi politici che si dichiarano marxisti militanti non si pongano con determinazione lo stesso grande problema?!

Alla luce dell’attuale manifesta impotenza a fronteggiare lo scontro di classe che sta dilagando,(9) si può capire quale danno abbiano causato al proletariato mondiale le scissioni tra partiti e gruppi marxisti di molti paesi, che si sono succedute nell’ultimo ottantennio. Considerando i risultati a cui esse hanno portato, e cioè: il progressivo affievolimento dell’analisi marxista sullo sviluppo del capitalismo, l’azzeramento dell’elaborazione teorica e dell’azione politica, lo sviluppo di un forsennato settarismo tra gruppi, lo sbriciolamento organizzativo che ne è conseguito, un’insieme di cose che hanno condannato tutti quanti alla più totale impotenza ed insipienza. Riflettendo su questo disastro, dal quale non si è salvato nessuno, si può ragionevolmente dedurre che tali scissioni siano state dettate da problematiche politiche niente affatto importanti, che avrebbero dovuto essere ragionevolmente superate con franchi ed approfonditi confronti dialettici tra militanti. Se ciò non è avvenuto, è forse perché esse dovevano soddisfare altre esigenze, più personali che politiche. Sta di fatto che in seguito a tali deplorevoli divisioni, vari signorotti politici hanno dato vita a loro piccoli feudi di compagni adulanti, alcuni dei quali si sono dilettati ad intavolare forsennate e dotte discussioni su lembi di teoria, elevandoli a chiave di volta dell’intera impalcatura teorica marxista, e tutti quanti, hanno evitato con cura di allungare lo sguardo oltre i confini del proprio microscopico cosmo.

Per tentare di superare questa interminabile e deprimente fase storica, che sembra destinata a non finire mai, occorre tornare a ri-considerare la teoria marxista una guida per l’azione, una scienza politico-filosofica materialistica di classe, che, come per tutte le altre scienze sociali, i cambiamenti arricchiscono. Considerarla una specie di reliquia, di sacra teoria invariante da imparare a memoria, come hanno fatto per decenni tanti suoi duri e puri pretesi cultori, professando di volerla preservare, ha servito soltanto ad esternalizzarla dalla lotta e a renderla inoffensiva. Se si vuole ambire a realizzare un qualcosa di politicamente tangibile, penso che occorra adoprarsi ad unire le poche forze sane rimaste, storicamente affini. Mettendo assieme un gruppo di compagni di una certa consistenza, forse si potrebbe dare una importante mano alla lotta di classe per il cambiamento, una lotta politica che si basi su analisi della situazione complessiva fatte in modo serio ed approfondito, che ambisca a dare elevati obiettivi comuni. Per poter compiere passi in tale direzione, bisogna smetterla di atteggiarsi a portatori di verità assolute che non esistono, e passare dalla critica distruttiva, ad un confronto veramente dialettico sulle grandi questioni economiche, politiche e sociali che i grandi avvenimenti impongono. Credo cioè che sia più che mai necessario ricominciare a comportarci da sinceri compagni di strada, da militanti che hanno sempre affermato d’ispirarsi agli stessi principi e di voler lottare per la stessa identica causa.

2 febbraio 2011

Note

1. Mia sintesi del documento riportato da l’Unità del 11/1/11.

2. In caso di superamento dei gg. di malattia -considerati assenteismo- pari al 6% nel 2011, 4% nel 2012, 3% nel 2013, l’azienda non paga l’integrazione per il I° giorno se iniziata in collegamento con riposi, festività o ferie. Da questa norma sono esonerati i dipendenti affetti da gravi patologie.

3. E’ previsto dallo Statuto dei lavoratori.

4. Così era previsto con l’ingresso dell’americana Chrysler nella nova azienda Mirafiori; recentemente però, l’a. d. ha affermato che tale entrata non ci sarà, ma non ho avuto occasione di conoscere altri dettagli.

5. Con la sola eccezione di “Italia dei valori”.

6. Per esempio, agli stabilimenti Alenia di Grottaglie (TA) e Foggia, sono stati sottoscritti accordi per 21 turni settimanali; all’Ilva di Taranto è stato firmato un contratto integrativo su scioperi, assenze e turni, che garantiscono la lavorazione a ciclo continuo. (Il Sole 24 Ore 22/1/11).

7. Al citato stabilimento Alenia di Grottaglie, la Fiom ha firmato dopo il referendum.

8. Il Sole 24 Ore 29 gennaio 2011 pag. 14.

9. Nelle ultime settimane lo scontro causato dal progressivo immiserimento portato in molti paesi dalla crisi ed aggravato dalla crescente corruzione delle gerarchie al potere, ha incendiato i paesi islamici di Tunisia, Algeria, Giordania, Egitto, Arabia Saudita e Yemen; inoltre l’Albania ed altri paesi.

Claudio Saccani

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