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Egitto. Per quanto ancora?

Egitto. Per quanto ancora?

(29 Luglio 2013) Enzo Apicella

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Una rivoluzione contro il neoliberismo?

Se la ribellione sfocerà solo in una limitazione del neoliberismo, saranno milioni a sentirsi ingannati

(6 Marzo 2011)

anteprima dell'articolo originale pubblicato in www.webalice.it/mario.gangarossa

Il 16 febbraio, leggevo un commento che era stato messo in diffusione sul portale di Kullina Khalid Saed (“Noi siamo tutti Khaled Said”), una pagina Facebook amministrata dall’ora famosissimo Wael Ghonim. [N.d.tr.: Khaled Said, un egiziano di 28 anni originario della città costiera di Alessandria, era stato torturato fino alla morte per mano di due poliziotti che volevano perquisirlo in base a quanto consente la legge d’emergenza.

Il commento faceva riferimento ad una notizia che sottolineava come i governi europei erano sotto pressione per raffreddare i conti bancari dei membri del regime di Mubarak, destituiti nelle ultime ore. Il commento annunciava: “Notizie eccellenti… noi non vogliamo vendicarci di nessuno ... è diritto di tutti noi chiedere conto a chi ha offeso questa nazione. Attraverso la legge, noi vogliamo i soldi della nazione che sono stati rubati ... perché questo è il denaro degli Egiziani, il 40% dei quali vive al di sotto della soglia di povertà.”

Con il tempo, ho dipanato la matassa di questi interventi, 5.999 persone avevano cliccato sulla finestra “mi piace”, e quasi 5.550 avevano lasciato un commento. Non ho nemmeno tentato il compito erculeo di leggere tutti i cinquemila commenti di tutti i tipi (e senza dubbio altri ne stanno per essere aggiunti, mentre sto scrivendo), ma un sondaggio piuttosto corposo non lasciava alcun dubbio che la maggior parte delle osservazioni era stata scritta da persone che avevano cliccato l’icona “mi piace” sulla pagina Facebook. Pochi erano i sostenitori del regime, e anche altre persone che non amano il culto della personalità costituitosi attorno al signor Ghonim.

Tutti questi interventi su Facebook sono sintomatici del momento. Ora che il regime di Mubarak è caduto, urge fare i conti dei suoi crimini ed individuare tutte le sue complicità.

Gli slogan, le canzoni e le poesie che si sono sentiti nella piazza Midan al-Tahrir sempre contenevano un elemento di collera contro haramiyya (i ladri!) che avevano beneficiato della corruzione del regime.

Ora, nei giornali e nella sfera dei blog stanno circolando le liste dei sostenitori del regime. Mubarak e i suoi più stretti congiunti (i figli Gamal e “Ala”) sono sempre al primo posto di queste liste. Articoli sulle loro personali ricchezze parlano di un minimo di 3 miliardi di dollari ad una cifra più alta, pari a 70 miliardi di dollari (la cifra più alta veniva scandita da molti slogan dei manifestanti). Ahmad Ezz, il Segretario Generale del destituito Partito Nazionale Democratico, e più importante magnate dell’acciaio nel Medio Oriente, si suppone che sia proprietario di 18 miliardi di dollari; Zohayr Garana, ex ministro del Turismo, di 13 miliardi; Ahmad al-Maghrabi, ex ministro per l’Edilizia abitativa, di 11 miliardi; anche l’ex ministro dell’Interno Habib Adli, odiatissimo per il suo stretto controllo di uno stato di polizia incredibilmente ingiurioso, è riuscito a mettere insieme 8 miliardi di dollari - non male per un funzionario civile, da sempre.

Tali cifre possono risultare imprecise. Possono essere troppo basse, o forse troppo alte, non lo potremo mai sapere con precisione, in quanto molto del denaro è depositato fuori dall’Egitto, e i governi stranieri svolgeranno inchieste sui traffici finanziari dei membri del regime di Mubarak solo se il governo egiziano presenterà formale richiesta di fare questo.

Qualsiasi siano le vere cifre, la corruzione del regime di Mubarak è fuori di dubbio. La cifra più bassa riferita al patrimonio personale di Mubarak, di “soli” 3 miliardi di dollari, è una prova schiacciante contro un uomo che si era arruolato nell’aviazione militare nel 1950 all’età di ventidue anni, intraprendendo una carriera durata sessant’anni nel “pubblico servizio”.

Un problema sistemico

La caccia ai miliardi dei compari di regime può essere una naturale tendenza dell’era post-Mubarak, ma potrebbe anche fuorviare gli sforzi volti a ricostituire il sistema politico.

I generali che ora governano l’Egitto sono ovviamente felici che siano i politici gli obiettivi della collera. I loro nomi non figurano negli elenchi degli individui più grossolanamente corrotti dell’era di Mubarak, sebbene di fatto gli appartenenti ai gradi superiori dell’esercito siano stati a lungo beneficiari di un sistema simile a (e talvolta che va a sovrapporsi con) quello che ha arricchito personaggi civili molto importanti agli occhi dell’opinione pubblica, come Ahmad Ezz e Habib al-Adly.

Descrivere il grave sfruttamento messo in atto dal sistema politico solo per profitti personali o per corruzione è come guardare gli alberi e non la foresta! Sicuramente questo saccheggio è un oltraggio reso ai cittadini egiziani, ma definendo tutto ciò “corruzione” si suggerisce che il problema è costituito da anormalità e deviazioni di un sistema, che altrimenti funzionerebbe senza intoppi.

Se il caso fosse questo, allora i crimini del regime di Mubarak potrebbero essere attribuiti semplicemente a cattiva condotta: cambiamo le persone e i problemi se ne vanno!

Invece, il problema effettivo con il regime era non necessariamente che i membri di grado elevato del governo erano ladri nel vero senso del termine. Costoro non rubavano direttamente dalle casse dello Stato. Piuttosto, si arricchivano mediante una interconnessione fra politici ed affaristi sotto il paravento delle privatizzazioni.

Questo veniva ritenuto una violazione di poco conto del sistema, invece un normale business. In buona sostanza, l’Egitto di Mubarak era la quintessenza di uno Stato neoliberista.

In cosa consiste il neoliberismo? Nella sua Breve Storia del Neoliberalismo, l’eminente geografo sociale David Harvey ha delineato il neoliberismo come “una teoria delle pratiche di politica economica che propone che il benessere umano possa essere meglio conseguito, liberando libertà individuali imprenditoriali e competenze in un contesto istituzionale caratterizzato da forti diritti di proprietà privata, di libero mercato, e di libero scambio”. [N.d.tr.: la geografia sociale è una disciplina atta a studiare gli effetti spaziali del comportamento umano, soprattutto in ragione delle necessità dei gruppi sociali

Gli Stati neoliberisti garantiscono, con la forza se necessario, l’“appropriato funzionamento” dei mercati; dove non esiste il mercato (per esempio, nell’uso della terra, dell’acqua, nell’educazione, nella sanità, sicurezza sociale, o inquinamento ambientale), allora lo Stato ne deve creare uno.

Le garanzie della sacralità del mercato sono concepite come il limite delle funzioni legittime dello Stato, e gli interventi statali devono sempre essere subordinati al mercato. Qualsiasi comportamento umano, e non solo la produzione di beni e servizi, può essere ridotto a transazioni mercantili. E l’applicazione dell’utopia neo-liberista al mondo reale porta a deformare la società, tanto quanto l’applicazione del comunismo utopico.

Retorica versus realtà

Sono opportune due considerazioni relative alla storia dell’Egitto come Stato neo-liberista.

La prima, l’Egitto di Mubarak veniva considerato essere l’avanguardia per l’istituzione di politiche neo-liberiste in Medio Oriente (e non per coincidenza lo era anche la Tunisia di Ben Ali).

La seconda, la realtà della politica economica dell’Egitto durante l’era Mubarak era ben differente dalla retorica, e questo è successo sempre in tutti gli Stati neo-liberisti, dal Cile all’Indonesia.

Il politologo Timothy Mitchell ha pubblicato un saggio rivelatore sul marchio neoliberista dell’Egitto nel suo libro Rule of Experts [Il governo dei tecnici] (il titolo del capitolo “Dreamland”, la terra del sogno – deriva dal nome di un complesso residenziale costruito da Ahmad Bahgat, uno dei compari di Mubarak, ormai screditati dalla caduta del regime).

L’essenza del ritratto fornito da Mitchell del neoliberismo egiziano era che, mentre l’Egitto veniva lodato da istituzioni tipo il Fondo Monetario Internazionale come un esempio fulgido del successo del libero mercato, gli strumenti standard per le valutazioni economiche fornivano un’immagine dell’assoluta inadeguatezza dell’economia egiziana.

In realtà la liberalizzazione dei mercati e l’agenda del processo di privatizzazioni sono state applicate in modo dissennato e discriminatorio.

Le uniche persone per cui il neoliberismo egiziano ha lavorato “secondo dottrina” sono stati i membri più vulnerabili della società, e la loro pratica con il neoliberismo non è stata una bella esperienza. I sindacati dei lavoratori erano stati ferocemente repressi. I sistemi dell’istruzione pubblica e sanitario sono stati smantellati da una combinazione di abbandono e di privatizzazioni. Gran parte della popolazione ha sofferto salari stagnanti o in caduta rispetto al tasso di inflazione. Ufficialmente, la disoccupazione veniva stimata approssimativamente sul 9,4% nell’ultimo anno (e molto più elevata per i giovani che hanno innescato la Rivoluzione del 25 gennaio), e circa il 20% della popolazione vive sotto la soglia di povertà definita da 2 dollari al giorno per persona.

Per i ricchi, le regole funzionavano in modo molto diverso. L’Egitto non riduceva così tanto il suo settore pubblico, come la dottrina neoliberista avrebbe voluto, in quanto riallocava le risorse pubbliche a beneficio di una ristretta e già benestante élite.

Le privatizzazioni procuravano il maggior gettito ed una fortuna inaspettata per quei soggetti politicamente ben ammanicati, che così potevano acquistare beni di proprietà dello stato per molto meno del loro valore di mercato, o monopolizzare rendite da fonti diverse, come il turismo e gli aiuti esteri.

Una quota enorme dei profitti realizzati dalle società che fornivano materiali da costruzione di base, come l’acciaio e il cemento, proveniva da contratti governativi, una parte dei quali a loro volta era da collegarsi ad aiuti forniti da governi stranieri.

Risultato più importante, la funzione decisamente limitata per lo Stato, come raccomandato dalla dottrina neoliberista in astratto, veniva completamente capovolta nella realtà.

Nell’Egitto di Mubarak, affari e governo erano così strettamente intrecciati che spesso era difficile per un osservatore esterno districarli e separarli. Dal momento che le connessioni politiche erano la via più sicura per profitti astronomici, gli uomini d’affari erano fortemente incentivati a comprarsi cariche politiche nelle elezioni fasulle gestite dal Partito Nazionale Democratico (NDP).

Qualunque competizione esistesse per un seggio nell’Assemblea del Popolo e nel Consiglio di Consultazione (o di Shura) avveniva prevalentemente all’interno del NDP.

La rappresentanza in Parlamento non-NDP dei partiti di opposizione era strettamente una questione di calcoli politici messi in gioco per date elezioni: far entrare alcuni candidati indipendenti noti per essere affiliati ai Fratelli Musulmani nel 2005 (e a Washington esplosero tremiti di paura); imporre il completo dominio del NDP nel 2010 (e spianare la strada per un previsto nuovo round di distribuzioni di beni pubblici a investitori “privati”).

Paralleli con gli Stati Uniti d’America

La politica economica del regime di Mubarak è stata plasmata dalle molteplici correnti nella storia dell’Egitto, e le sue linee generali non erano affatto univoche. Storie simili possono essere raccontate per tutto il Medio Oriente, l’America Latina, Asia, Europa e Africa. Ovunque il neoliberismo sia stato tentato, i risultati sono simili: corrispondere all’ideale utopico è impossibile; misure solo formali dell’attività economica mascherano disparità enormi fra le fortune dei ricchi e la povertà; le élite diventano “padrone del mondo”, usando la forza per difendere le loro prerogative, e per gestire l’economia a loro vantaggio, ma mai vivono in qualcosa che rassomigli al duro mondo mercificato che vogliono imporre ai poveri.

La storia dovrebbe risuonare familiare agli Statunitensi. Ad esempio, le vaste fortune di Donald Rumsfeld e Dick Cheney, membri del governo dell’era Bush, attraverso il loro coinvolgimento con imprese come la Halliburton e Gilead Sciences, sono il prodotto di un sistema politico che consentiva loro - più o meno legalmente - di avere un piede piantato nel “business” e un altro nel “governo”, al punto che diventava confusa una distinzione.

I politici passano dal loro ufficio alla sala riunioni per l’organizzazione delle lobby, e ritornano.

Visto che il dogma neoliberista non consente alcun ruolo legittimo di governo diverso dalla protezione della santità del libero mercato, la recente storia usamericana è stata contrassegnata dalla privatizzazione costante dei servizi e delle risorse in precedenza forniti o controllati dal governo. Ma inevitabilmente, sono quelli con accesso più stretto alle posizioni di governo ad essere nella posizione migliore per trarre profitto da campagne governative per liquidare le funzioni di servizio prima svolte dallo Stato.

E non sono solo i Repubblicani ad essere coinvolti in questo sistema di corruzione.

Il coinvolgimento con Citigroup del ministro del Tesoro dell’era Clinton, Robert Rubin, non si presenta senza macchie.

Lawrence Summers ha fornito un fondamentale appoggio alla deregolamentazione dei contratti finanziari “derivati”, mentre era ministro del Tesoro sotto Clinton, e ha tratto profitto profumatamente dalle società che partecipavano delle stesse procedure, mentre lavorava per Obama (e, guarda caso, i derivati non regolamentati sono l’elemento chiave nella crisi finanziaria che ha portato ad un massiccio piano di salvataggio federale dell’intero sistema bancario).

Quindi, ritornando a parlare dell’Egitto, quando il Segretario Generale del Partito Democratico Nazionale Ahmad Ezz si è accaparrato il mercato dell’acciaio ed ha procurato contratti per realizzare progetti di edilizia pubblico-privata, o quando l’ex Presidente del Parlamento Talaat Mustafa ha acquisito vasti tratti di terreno per il raffinato complesso residenziale Madinaty senza la necessità di avviare una procedura di gara, (ma ricevendo dallo Stato i benefici di una strada e di tutte le infrastrutture di servizi di pubblica utilità ), si può affermare che costoro praticavano la corruzione razionalmente e dal punto di vista morale. Ma quello che stavano facendo era molto usamericano, come la torta di mele, almeno per la durata degli ultimi due decenni.

Un esteso “potere forte” economico

Tuttavia, nel clima attuale la cosa più importante non è tanto il saccheggio messo in atto dalla cricca di regime del deposto Mubarak. È piuttosto il ruolo dei militari nel sistema politico.

È l’esercito che governa ora il paese, anche se come potere di transizione, o almeno così spera la maggior parte degli Egiziani.

Non ci sono rappresentanti degli alti gradi delle forze armate egiziane presenti nelle varie liste di sostenitori del vecchio regime, che devono essere chiamati a rendere conto.

Ad esempio, la prima pagina del numero del 17 febbraio di Ahrar, l’organo di stampa del Partito Liberale, era decorata con il titolo di testa “Riserve finanziarie della corruzione in 18 paesi, un totale di 700 miliardi di sterline [circa 118 miliardi dollari].”

Ma l’articolo non riportava una sola parola circa la posizione dei militari in questa epica ruberia. Tuttavia, i militari erano parte integrante del capitalismo clientelare dell’era Mubarak.

Dopo una carriera relativamente breve nell’esercito, ufficiali di alto grado venivano ricompensati con benefit accessori, come posizioni altamente remunerative in consigli di amministrazione di società immobiliari e di centri commerciali. Alcune di queste sono essenzialmente imprese del settore pubblico trasferite al settore militare, quando su mandato del Fondo Monetario Internazionale programmi di aggiustamento strutturale avevano richiesto riduzioni nel settore civile pubblico.

Comunque, i generali ricevevano incarichi di prestigio anche dal settore privato. Inoltre, anche le spese militari si rivelavano lucrative, in quanto comprendevano sia finanziamenti statali che contratti con società usamericane per la fornitura di strutture e di competenze tecniche.

Gli Stati Uniti hanno fornito gran parte dei finanziamenti di tali spese in base a norme che prevedono che questa grande quantità di denaro sia riciclata alle società usamericane, ma sempre attraverso opportuni intermediari.

Chi meglio avrebbe potuto agire come intermediario per i contratti usamericani di aiuto all’estero, se non gli uomini dello stesso esercito designato come destinatario dei servizi pagati per questo aiuto?

A questo proposito, il complesso militare-industriale egiziano stava di nuovo rubando una pagina all’agenda degli Stati Uniti; anzi, nella misura in cui i militari egiziani hanno beneficiato degli aiuti americani all’estero, l’Egitto faceva parte integrante del complesso militare-industriale statunitense, che è famoso per il suo sistema a porte girevoli di riciclaggio di militari di alto grado a riposo, come lobbisti e dipendenti di appaltatori vincolati al sistema della difesa.

Di conseguenza, è quasi impensabile che i generali del Consiglio Militare Supremo volentieri permetteranno cambiamenti, che non siano solamente di cosmesi, nella politica economica dell’Egitto. Tuttavia, pur malvolentieri, potrebbero essere obbligati a farlo. L’esercito è una forza spuntata, non è adatto per controllare folle di manifestanti.

L’ultima dichiarazione del Consiglio Militare Supremo ha ribadito sia la legittimità delle richieste dei movimenti pro-democrazia, che l’invito a cessare le manifestazioni, in modo che il paese possa tornare al lavoro.

Se le manifestazioni continuassero, al punto che il Consiglio Militare Supremo ritenesse di non più a lungo tollerarle, allora i soldati a cui sarà ordinato di sopprimerle con forza implacabile (anzi, in alcuni casi era già stato ordinato fin dall’inizio della rivoluzione di metterla a tacere, ottenendo però un rifiuto a farlo) non saranno i generali che facevano parte del sistema di corruzione dell’era Mubarak, ma soldati coscritti.

I dimostranti pro-democrazia e i loro simpatizzanti spesso ripetevano slogan come “l’esercito e il popolo sono dalla stessa parte”, e “l’esercito ha le radici in noi”. I manifestanti avevano i soldati di leva in mente, e molti non erano a conoscenza di come forti siano le differenze tra gli interessi dei soldati e quelli dei generali.

Tra i coscritti e i generali esiste intermedio un corpo ufficiali di medio livello professionale, la cui fedeltà ha costituito oggetto di molte congetture. I generali, da parte loro, vogliono mantenere i loro privilegi, ma non governare direttamente. Il rimandare di governare direttamente lascia gli ufficiali del Consiglio Supremo Militare vulnerabili alle sfide lanciate da altri ufficiali che sono esclusi dal Consiglio.

Inoltre, il governo diretto renderebbe impossibile nascondere che l’élite del corpo ufficiali non è infatti parte di un’“unica mano”, composta dal popolo e dall’esercito (di leva). Invece, questa élite logicamente si situa nello stesso campo di Ahmad Ezz, Safwat al-Sharif, Gamal Mubarak, e Habib al-Adly - proprio i nomi sugli elenchi che mostrano la cerchia dei membri e dei compari del regime, che dovranno affrontare il giudizio.

In definitiva, le accese discussioni su quanti soldi il regime di Mubarak ha rubato e portato via, e su quanto il popolo può aspettarsi di riportarne indietro, è un diversivo.

Se le cifre si aggirano intorno ai 50 miliardi dollari o ai 500 miliardi di dollari, questo non ha assoluta importanza, se l’Egitto rimane uno stato neoliberista consacrato (simbolicamente) al fondamentalismo del libero mercato per i poveri, e nel contempo si creano nuovi patrimoni privatizzati, che possono venire riciclati a coloro che stanno all’interno degli ambienti politici, sempre in favore dei ricchi.

Se si cercano indizi su quanto profondamente la Rivoluzione del 25 gennaio inciderà sulla ristrutturazione dell’Egitto, sarebbe opportuno puntare l’attenzione su questioni come, ad esempio, quale tipo di indicazioni e di pareri consultivi il governo provvisorio di generali sta sollecitando per assolvere il suo mandato di rifare un governo egiziano. Il periodo di governo militare, probabilmente sarà breve, come pubblicizzato, e sarà seguito, si spera, da un governo civile provvisorio per un certo periodo ben specificato (almeno due anni), durante il quale ai partiti politici viene consentito organizzarsi in preparazione di libere elezioni.

Ma i governi ad interim hanno anche modo di diventare permanenti!

Tecnocrati o ideologi?

A volte si sente invocare l’insediamento di un governo di “tecnocrati” che dovrebbe affrontare le questioni pratiche di governance. “Tecnocrate” suona neutrale - un tecnico esperto che potrebbe prendere decisioni secondo principi “scientifici”.

Il termine è stato spesso applicato a Yusuf Butros Ghali, per esempio, l’ex ministro del Tesoro, che era uno dei “boys” di Gamal Mubarak, portati nel gabinetto di governo nel 2006, apparentemente per spianare la strada al figlio del presidente, destinato ad assumere il potere. Ghali è ora accusato di essersi appropriato di 450 milioni di sterline egiziane (LE) a tutto vantaggio di Ahmad Ezz.

Una volta, mi trovavo seduto accanto a Ghali ad una cena durante uno dei suoi viaggi all’estero, e ho avuto l’opportunità di chiedergli quando il governo egiziano sarebbe stato pronto a tenere libere elezioni. La sua risposta fu quella di tirare sempre in ballo la solita posizione del regime, ormai priva di creditato, che le elezioni erano impossibili, in quanto una effettiva democrazia avrebbe comportato la presa del potere da parte dei Fratelli Musulmani.

Presumibilmente, Ghali respingerà le accuse, nello specifico di avere dirottato denaro dello Stato nelle casse di Ahmad Ezz. Ma, come architetto chiave dei programmi di privatizzazione in Egitto, egli non poteva ignorare che stava facilitando un sistema che rendeva potente l’impero dell’acciaio di Ezz, mentre contemporaneamente stava distruggendo i sistemi educativo e sanitario dell’Egitto.

L’ultima volta che ho incontrato il termine “tecnocrate” è stata nel libro di Naomi Klein The Shock Doctrine — un bruciante atto d’accusa contro il neoliberismo, in cui la Klein sostiene che il fondamentalismo del libero mercato promosso dall’economista Milton Friedman (e immensamente influente negli Stati Uniti) si basa su economie di ristrutturazione sull’onda di sconvolgimenti catastrofici, altrimenti società e sistemi politici normalmente funzionanti non avrebbero mai optato per esso. Gli sconvolgimenti possono essere il prodotto di cause naturali o per le azioni dell’uomo, come… le rivoluzioni.

In “The Shock Doctrine”, i capitoli sulla Polonia, Russia, e Sud Africa possono costituire una lettura interessante, nel contesto della rivoluzione egiziana. In ogni caso, quando i governi (comunista o di apartheid) crollarono, sono stati invitati “tecnocrati”, pronti a correre in aiuto dei paesi che improvvisamente si trovavano privi di governi funzionanti, per creare le infrastrutture istituzionali per i loro successori.

I tecnocrati si dimostravano sempre fautori e diffusori di un sistema che la Klein definisce “terapia shock” – l’imposizione di programmi di privatizzazione senza limiti, prima che le popolazioni stordite potessero prendere in considerazione le opzioni di questi tecnocrati e potenzialmente concordare per opzioni meno ideologicamente pure, ma volte all’interesse del popolo.

L'ultima ondata di grandi rivoluzioni si è verificata nel 1989. I governi che allora stavano collassando erano comunisti, e la sostituzione in quel momento di “shock” di un sistema economico estremo con il suo estremo opposto sembrava prevedibile e per molti anche naturale.

Uno dei fattori che rendono le rivoluzioni egiziana e tunisina potenzialmente importanti su scala globale è che hanno avuto luogo in Stati già neoliberisti.

Il completo fallimento del neoliberismo nell’offrire “benessere umano” alla grande maggioranza degli Egiziani è stata una delle principali cause della rivoluzione, almeno nel senso di preparare il terreno per milioni di persone, che non erano collegati ai social media, di scendere nelle strade a fianco degli attivisti, a lottare per la democrazia.

Tuttavia, la Rivoluzione del 25 gennaio costituisce ancora un momento di “shock”. Abbiamo sentito gli appelli a mettere in gioco i tecnocrati per rilanciare un sistema economico sconvolto, e ci viene detto ogni giorno che la situazione è instabile e fluida, e che siamo in presenza di un vuoto di potere non solo per causa dello scandaloso Partito Nazionale Democratico, ma anche dei partiti legali di opposizione largamente screditati, che non hanno svolto alcun ruolo nella Rivoluzione del 25 gennaio.

In questo contesto, i generali sono probabilmente felici per tutto questo discutere su come rivendicare il denaro rubato dal regime, perché il rovescio della medaglia sarebbe una corrente di rabbia e di preoccupazione provocata dalla situazione economica.

L’idea che l’economia sia in rovina - i turisti che se ne vanno altrove, la fiducia degli investitori in frantumi, l’occupazione nel settore delle costruzioni ad un punto morto, molte industrie e centri di affari che operano ben al disotto delle loro potenzialità - potrebbe essere l’unica e più pericolosa motivazione per imporre riforme di facciata, che lascerebbero comunque intatto il rapporto incestuoso tra sistema di governo e sistema degli affari.

O peggio, se il movimento pro-democrazia si lasciasse prendere dal panico per come viene presentata la “rovina economica”, possono essere messe in atto dai “tecnocrati” soluzioni strutturali sotto l’egida del governo militare di transizione, che potrebbero far collimare il successivo governo civile con una effettiva accelerazione del ritmo delle privatizzazioni.

Ideologi, compresi quelli della cricca neoliberista, sono inclini a una modalità stregonesca di pensare: se la magia non funziona, non è colpa della magia, ma piuttosto la colpa deve ricadere sullo sciamano che ha eseguito l’incantesimo.

In altre parole, la logica potrebbe essere che non è stato il neoliberismo a rovinare l’Egitto di Mubarak, ma la cattiva applicazione del neoliberismo.

Palloni sonda per questa narrazione da apprendista stregone stanno già fluttuando all’esterno dell’Egitto.

Il 17 febbraio, il New York Times ha pubblicato un articolo, imputando all’esercito di essere una forza regressiva contraria alle privatizzazioni e alla ricerca di un ritorno allo statalismo nasseriano. L’articolo contrappone l’apparentemente “lato buono” del regime di Mubarak (programmi di privatizzazione) contro il cattivo vecchio socialismo arabo, trascurando completamente il fatto che mentre il sistema dei privilegi dell’esercito può conservare alcune risorse del patrimonio pubblico, trasferite dall’economia civile ai militari sotto pressione dei programmi di aggiustamento strutturale del Fondo Monetario Internazionale, il dominio dei generali non si riduce certamente a un ben delimitato e quasi-sotterraneo settore pubblico.

Infatti, ufficiali di alto grado sono stati anche premiati con benefit nel settore privato; imperi economico-politici civili hanno mescolato ruoli pubblici e privati, al punto che ciò che era governativo e ciò che era privato erano indistinguibili; sia i militari che i civili rastrellavano redditi dagli aiuti esteri.

I generali potrebbero preferire un nuovo ciclo di stregoneria neoliberista. Più che privatizzare, basterà semplicemente liberalizzare attività e rendite, che solo gli ammanicati politicamente (compresi i generali) potranno acquisire. Tenere saldo uno stato neoliberista fallito, attraverso applicazioni più severe di neoliberismo, per i militari potrebbe essere la via più sicura per conservare i loro privilegi.

Invece, la tenuta neoliberista potrebbe rivelarsi una tragedia per il movimento che si batte per la democrazia. Le richieste dei manifestanti sono state chiare e del tutto politiche: eliminare il regime; fine della legge di emergenza; basta con la tortura di Stato; tenere elezioni libere e senza brogli. Ma implicita in queste richieste, fin dall’inizio (e decisiva per la fine delle manifestazioni), vi era una aspettativa di maggiore giustizia sociale ed economica.

I social media possono avere aiutato ad organizzare il nucleo di un movimento che alla fine ha rovesciato Mubarak, ma l’elemento forte di ciò che ha trascinato tanta gente per le strade, tale da travolgere definitivamente le forze di sicurezza dello Stato, è stato il risentimento per le ingiustizie economiche che sono intrinseche al neoliberismo.

Questo risentimento non può essere ricondotto solo agli oppressi più poveri, le rivoluzioni non sono mai state portate avanti dai più poveri tra i poveri. È stato piuttosto il potere di scavare in profondità per mettere in piena luce il senso che alcuni ambiti umani devono stare al di fuori della logica dei mercati. L’Egitto di Mubarak ha portato al degrado scuole e ospedali, e ha avallato salari grossolanamente inadeguati, in particolare nel settore privato in continua espansione. Questo è stato ciò che ha trasformato centinaia di attivisti impegnati in milioni di manifestanti determinati nelle loro proteste.

Se la Rivoluzione del 25 gennaio sfociasse in non più di un ridimensionamento del neoliberismo, o perfino in una sua intensificazione, quei milioni saranno stati truffati. Anche il resto del mondo potrebbe essere ingannato. Egitto e Tunisia sono le prime nazioni a mettere in atto rivoluzioni di successo contro regimi neoliberisti.

I cittadini degli Stati Uniti potrebbero imparare dall’Egitto. Infatti, ci sono segnali che già lo stanno facendo. Gli insegnanti del Wisconsin, nelle proteste contro i tentativi del loro governatore di sopprimere il diritto alla contrattazione collettiva, hanno portato cartelli in cui equiparavano il loro governatore a Mubarak. Gli Egiziani potrebbero ben dire agli Americani ‘uqbalak (potreste essere i prossimi).

24 febbraio 2011

'Abu Atris' è lo pseudonimo di uno scrittore che lavora in Egitto.
fonte: Al Jazeera
traduzione di Curzio Bettio di Soccorso Popolare di Padova

Abu Atris

1882