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il pane e le rose

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La questione Golden Lady. Una riflessione.

(14 Marzo 2012)

Da alcuni mesi ormai, i riflettori si sono accesi su una realtà industriale italiana di indubbia fama, la Golden Lady.
Ma facciamo il punto
.
Golden Lady Company Spa di proprietà di Nerino Grassi, fondatore e attuale Presidente nasce nel 1967 a Castiglione delle Stiviere.
Oggi a distanza di alcuni decenni ha una quota di mercato che supera il 50% e già da alcuni anni ha scoperto una vera e propria vocazione esterofila che lo ha portato a imporsi rapidamente grazie alla conquista di posizioni significative sui mercati europei più importanti.
Presente in più di 40 paesi nel mondo, realizza oltre il 55% del proprio fatturato all’estero.
Forte dei successi e dei consensi guadagnati sul mercato interno già nei primi decenni dalla nascita, il Gruppo ha progressivamente consolidato il suo successo commerciale tramite una politica di diversificazione che vanta attualmente un’offerta ricca e variegata che spazia dalla lingerie al beachwear per donna, uomo e bambino, ed è proprietaria di marchi come Omsa, Philippe Matignon, SiSi, Filodoro, Hue, Saltallegro e Serenella.

Nell’ambito dei progetti di espansione all’estero il Gruppo si è velocemente imposto sul mercato statunitense già a partire dal 1999 anche grazie all’acquisizione della Kayser-Roth, azienda detentrice di circa il 18% del mercato nazionale.
Successivamente nel 2005 è stato realizzato uno stabilimento produttivo in Serbia, a Valijevo a un centinaio di chilometri da Belgrado, unità la cui produzione è indirizzata principalmente verso i mercati dell’est Europa, a cui, successivamente, si è aggiunto un altro stabilimento produttivo.
Nel 2010 i ricavi consolidati del Gruppo sono arrivati a 624 milioni di euro con una crescita del 7,1% sul 2009 e un risultato netto di 14,1 milioni di euro, più che doppio rispetto all' esercizio precedente. Secondo dati di pubblico dominio I ricavi provengono per il 35% dagli USA, per 20% dalla Russia, per l' 11% da altri Paesi dell' Unione europea e per il 34% dall' Italia.
Questo il quadro, sintetico, della Società.

Risulta evidente che non si tratta di una Società in crisi, eppure a gennaio 2010 il Patron Grassi ha comunicato di voler chiudere lo stabilimento faentino dove c’è la produzione delle calze Omsa per spostare tutta la produzione negli stabilimenti Serbi.

Ora il problema che si è avuto è stato ... che fine faranno le 240 lavoratrici impiegate?
A questa domanda non è stata data alcuna risposta. Ne dai sindacati e ne, tantomeno, dal Ministero delle attività produttive.

A dicembre 2011 tutte le lavoratrici sono state licenziate a mezzo fax, con decorrenza 14 marzo 2012, ovvero la data di scadenza della cassa integrazione.

Con accordo del 22 febbraio 2012 tra le parti in causa, sindacati, azienda Ministero si è raggiunto un accordo: prorogare la cassa integrazione rendendola in deroga per ulteriori sei mesi con pagamento non più a carico della Società, ma a carico dell’Inps.

Il problema è stato ulteriormente rinviato, senza che si sia prospettata alcuna valida soluzione.

Nel caso di specie un libero imprenditore decide di chiudere uno stabilimento produttivo, licenziare tutti i lavoratori e spostare la produzione in un Paese estero per lui più conveniente, dal quale cioè potrà avere ricavi maggiori.

Il risultato è che i lavoratori licenziati non sono ricollocati in nessun posto di lavoro, o lo saranno in un periodo di tempo dilatato con un impatto devastante. Devastante nella propria famiglia, ma allo stesso modo nella società.

La decisione, unilaterale, dell’imprenditore infatti fa si che se lui da una parte ci guadagna dall’altra a perdere ci sono i lavoratori, lo Stato e i contribuenti chiamati a pagare gli ammortizzatori sociali per i disoccupati, e che pagano, paradossalmente, le tasse anche per coloro che non possono permettersi di pagarle perchè non hanno un lavoro.

Questo è lo Stato in cui viviamo. Questa è la politica industriale del Governo Monti, ma è stata anche la politica di un altro industriale come l’On.le Berlusconi.

Io non credo, o meglio non ritengo giusto dal punto di vista etico, prima ancora di tanti altri punti, che una realtà industriale di tale portata possa prendere simili decisioni senza aver riguardo, in ultima analisi, ai cittadini italiani che cosi sono chiamati a pagare le scelte capitaliste di pochissimi imprenditori.

La situazione dell’Omsa di Faenza è assai simile alla vertenza Playtex di Pomezia (sulla quale “Pane e Rose” ha pubblicato diversi interventi e realizzato un'intervista), e cioè aziende floride decidono, unilateralmente, ed esclusivamente per massimizzare i profitti, di licenziare e delocalizzare gli impianti produttivi, e nemmeno, necessariamente, all’estero.

Ora a mio avviso serve una politica industriale per far fronte a tali evenienze.

La società non può farsi carico di lavoratori disoccupati che hanno perso il posto perchè l’industriale di turno vuole ridurre i costi e aumentare l’utile netto.

Ritengo invece, pur in una società capitalista come quella in cui viviamo, che il pensiero dell’impatto sociale delle decisioni degli imprenditori (licenziamenti, chiusura unità produttive ecc.) debba essere ricordato, anche coattivamente, dallo Stato per far si che siano poste in atto delle tutele per le parti (lavoratori) più deboli.

Ed allora nella vertenza “Omsa” si è arrivati al licenziamento dei lavoratori, che sono per il 95% donne, senza che, da ormai due anni, si sia riusciti a “riconvertire” lo stabilimento o ricollocare le dipendenti.

Si badi bene.
Quando scrivo che lo Stato ha il dovere di ricordare, anche coattivamente, all’imprenditore il peso delle decisioni che prende lo dico perchè se non lo facesse (e attualmente non lo fa) ne subirebbe un grave pregiudizio. E quando scrivo Stato, intendo i cittadini italiani

Quali sono le soluzioni? Non credo che il mio compito sia questo.

Quello che invece mi preme evidenziare è che occorre fare una riflessione apartitica, dettata più che altro dal buon senso, ovviamente però, e non potrebbe essere diversamente, in aperto contrasto con la “linea politica” degli imprenditori!!!

Occorre riflettere sul fatto che Nerino Grassi si stà prendendo la libertà di licenziare 240 lavoratrici (oltre agli altri dell’indotto che subiranno gravi pregiudizi), di accollare gli oneri di tali licenziamento sui nostri portafogli, e di guadagnare due volte sugli italiani.
La prima volta quando i cittadini italiani pagheranno gli ammortizzatori sociali per i dipendenti che lui ha licenziato per massimizzare i suoi profitti.
La seconda volta quando rivenderà agli italiani, (che sono il 35% del suo fatturato di seicento milioni di euro) le sue calze.
A pensarci è sicuramente una gran bella mossa.

avv. Roberto Amati

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