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Le repubbliche baltiche ex sovietiche tra integrazione europea e “apartheid”

(14 Gennaio 2004)

ESTONIA

Con un territorio di 45.000 Kmq e una popolazione di solo 1,3 milioni di abitanti (che per oltre il 60% parlano una lingua simile al finlandese), l’Estonia è la più piccola delle repubbliche baltiche ex sovietiche.

Essa ha fatto parte dell’impero zarista fino al 1917, anno in cui venne coinvolta nel processo rivoluzionario che portò alla temporanea presa del potere da parte del movimento comunista.
Ma già agli inizi del 1918, l’avanzata tedesca ebbe la meglio sul potere sovietico e, sebbene formalmente all’Estonia fosse garantita l’indipendenza, venne instaurato un regime di occupazione che mirava alla “germanizzazione” del paese e alla restituzione degli antichi privilegi alla nobiltà feudale.

In seguito all’armistizio sovietico-tedesco, il paese venne rioccupato da truppe bolsceviche.
Ma, con l’aiuto di contingenti stranieri e russi “bianchi” e della flotta britannica, il governo provvisorio estone, nel febbraio del 1919, riuscì a sgomberare tutto il territorio e a riaffermare l’indipendenza del paese, che durò fino al 1940.

I governi che si succedettero furono tutti caratterizzati da tendenze conservatrici.
Nel 1932 fu varata una riforma che trasformava il parlamento in senso “corporativo” e fino al 1938 il paese fu sottoposto ad un regime autoritario. Sul piano internazionale, l’Estonia, dopo aver siglato, insieme a Lituania e Lettonia la cosiddetta “intesa baltica”, nel 1939, stretta tra URSS e Germania, strinse un patto di mutua assistenza con l’Unione Sovietica.
Nel giugno del 1940, i sovietici entrarono nel paese.
Il 22 luglio dello stesso anno, l’Estonia diventava parte integrante dell’URSS.

Dal 1941 al 1944, in seguito all’occupazione nazista, l’Estonia fu teatro di una sanguinosa guerra civile che vide contrapposti i sostenitori della resistenza antifascista e i soldati dell’ “Armata Rossa” ai nuclei di collaborazionisti, inquadrati direttamente nelle SS, che si resero responsabili, come nelle altre repubbliche baltiche, di massacri e rappresaglie in particolare contro comunisti ed ebrei.
Tali avvenimenti segnarono duramente i primi anni del dopoguerra, dopo la sconfitta del nazismo.
Ripreso il controllo, il potere sovietico adottò una politica di dura repressione contro gli esponenti del fascismo estone e quei settori della società che li avevano sostenuti (a cominciare dalla grande proprietà terriera), che fu accompagnata da deportazioni e dall’esodo di molti estoni, sospettati di avere collaborato con i nazisti.

Contemporaneamente, attraverso una massiccia immigrazione dalle repubbliche slave dell’URSS, veniva avviato un processo di “russificazione” del paese, che, inevitabilmente doveva alimentare, tra gli estoni, fermenti nazionalistici e un forte risentimento verso Mosca.
Così, quando, con l’avvento della “perestrojka” di Gorbaciov, fu lasciato spazio al pieno manifestarsi delle tendenze nazionaliste, le spinte più radicali verso la riconquista dell’indipendenza ben presto si manifestarono prepotentemente.

Nel marzo del 1991, dopo che anche le componenti maggioritarie del partito comunista e della repubblica si erano schierate apertamente per l’opzione secessionista, nel corso del cosiddetto “referendum sull’Unione” il 78% della popolazione si pronunciava a favore dell’indipendenza. La definitiva separazione da Mosca avveniva il 20 agosto 1991, in seguito al fallito golpe che avrebbe aperto la strada allo smantellamento dell’URSS.

Il partito comunista veniva dichiarato fuorilegge e non sarebbe stato più riammesso.
L’Estonia indipendente otteneva in breve tempo il riconoscimento della comunità internazionale e della stessa Russia, le cui truppe avrebbero definitivamente lasciato il paese nell’agosto del 1994.

Sul piano economico la scelta dell’Estonia si concretizzò nell’abbandono delle forme sovietiche di proprietà, nel ripristino della proprietà privata dei mezzi di produzione e in una politica di liberalizzazione dei prezzi e di progressivo inserimento nei meccanismi di mercato capitalistico. Nonostante il paese avesse rappresentato una delle più prospere repubbliche dell’ex URSS (e fosse stata protagonista di innovativi tentativi di “riforma economica” già negli anni ’70), la brusca interruzione dei rapporti con il mercato sovietico, tradizionale sbocco delle sue produzioni e da cui l’Estonia dipendeva per gli approvvigionamenti energetici, ha comportato in pratica il collasso del sistema industriale, la costosa scelta di dipendenza economica dall’occidente e pesanti conseguenze sul piano sociale, che si fanno tuttora sentire, e che potrebbero venire addirittura acutizzati dall’avanzare dei processi di integrazione nella costruzione europea.

A farne le spese è stata in particolare la componente russa della popolazione (600.000), che rappresentava parte significativa della classe operaia presente nel paese. I russi e i “russofoni”, che sono venuti a trovarsi improvvisamente nella condizione di “occupanti”, non solo hanno pagato le conseguenze più serie della ristrutturazione economica, ma si sono visti privare di tutti i diritti di cittadinanza, compreso il diritto al lavoro a pari dignità con la popolazione autoctona e persino il diritto di voto.
Tale comportamento dell’Estonia ha suscitato le proteste di numerose organizzazioni per i “diritti umani” e delle stesse autorità russe, ma non sembra avere intaccato il giudizio positivo dell’UE, che sta alla base dell’accettazione di questo paese baltico nel consesso europeo.
In tal modo, la pratica assenza di un elettorato russo di una certa consistenza (l’unico partito della minoranza russa presente alle elezioni, il conservatore “Partito Unitario del Popolo Estone”, non supera il 2% dei voti), spiega in parte perché sia le elezioni presidenziali che quelle parlamentari abbiano visto un sostanziale equilibrio tra forze di centro-sinistra e centro-destra etnicamente estoni e sostanzialmente allineate nell’accettazione del nuovo corso economico e nella ricerca di interlocutori internazionali a occidente, nella NATO e nell’Unione Europea.

Tale processo di avvicinamento all’occidente ha avuto il suo completamento nell’adesione dell’Estonia alla NATO (fortemente osteggiata dalla Russia, per la pericolosissima vicinanza delle future installazioni dell’Alleanza Atlantica ai centri nevralgici del paese), formalizzata al vertice NATO di Praga del novembre 2002, e nell’ingresso nell’Unione Europea, ratificato dal referendum svoltosi nel settembre del 2003.

Al termine di un ciclo politico che ha visto alternarsi forze borghesi più o meno moderate, che vede alla presidenza della repubblica il “leader” dell’indipendenza Arnold Ruutel (già segretario del locale Partito Comunista!), solo il 58,2% dei cittadini chiamati al voto ha eletto nel marzo del 2003 un parlamento largamente dominato da partiti centristi e di destra moderata (“Partito di centro estone”, “Res Publica”, “Partito delle riforme estone” e “Unione del popolo estone”).
Da aprile 2003, capo del governo (espresso dalla coalizione tra “Res Publica” e il “Partito delle riforme”), è stato eletto il trentaseienne Juhan Parts, uomo particolarmente legato agli interessi degli Stati Uniti nella regione baltica. L’unico partito che si definisca di sinistra alternativa, operante in Estonia, è il “Partito Social Democratico del Lavoro Estone” (ESDTP), che conta 1.250 iscritti ed è presieduto attualmente da Tiit Toomsalu.
L’ESDTP ha ottenuto solo lo 0,4% dei voti nelle elezioni parlamentari. Il piccolo partito, che si è opposto all’ingresso dell’Estonia nella NATO e nell’UE e che si è battuto per i diritti civili della minoranza russa, ha aderito sia al “Forum della nuova sinistra europea” che al “Partito della Sinistra Europea” costituitosi l’11 gennaio 2004 a Berlino.

LETTONIA

La Lettonia, con i suoi circa 65.000 Kmq e 2,3 milioni di abitanti, rappresenta lo stato intermedio tra i tre già facenti parte dell’URSS, che si affacciano sul Mar Baltico. Solo il 57% della popolazione è costituito da lettoni, che parlano una lingua appartenente al gruppo baltico. Oltre il 33% è rappresentato da russi e “russofoni”, e circa l’8% da altre componenti slave (bielorussi, ucraini) che, nel periodo sovietico, in generale hanno sempre considerato il russo come loro prima lingua.

La Lettonia, costituitasi stato indipendente nel 1918 alla caduta dell’impero zarista, alla vigilia dell’invasione nazista dell’URSS, nel 1940, venne occupata dall’ “Armata Rossa” e proclamata repubblica sovietica.
Dal 1941 al 1944 il paese fu sottoposto all’occupazione nazista, che si manifestò con particolare ferocia nei confronti della resistenza e nelle operazioni di sterminio degli ebrei, che portarono all’eliminazione fisica di oltre 90.000 persone di religione israelita.
Nelle loro azioni, i nazisti erano affiancati da consistenti gruppi di collaborazionisti lettoni, inquadrati nei reparti delle SS, che, al momento dell’arruolamento, dovevano prestare giuramento direttamente a Hitler.
Queste formazioni, note agli storici della resistenza per la loro ferocia, si resero protagoniste di massacri inenarrabili, che avevano come obiettivo, oltre agli ebrei, i militanti comunisti e gli appartenenti alle minoranze.
In seguito alla liberazione del paese da parte dell’ “Armata Rossa”, molti fascisti cercarono rifugio nelle folte foreste che coprono il territorio della Lettonia, proclamandosi “fratelli dei boschi”, e, con l’aiuto dei proprietari terrieri e di settori della popolazione contadina (una vera e propria “Vandea”), cercarono di opporre una disperata resistenza, che si manifestava in attentati terroristici e in uccisioni individuali: centinaia di comunisti, impegnati nella costruzione del potere sovietico, vennero così massacrati nei primi anni del dopoguerra, fino a quando il movimento terroristico fascista (a cui non sono certo attribuibili le caratteristiche di “movimento di liberazione nazionale” sbandierate dalle attuali autorità, impegnate in una preoccupante operazione di riabilitazione storica del collaborazionismo lettone) venne definitivamente represso.
Seguirono, in epoca staliniana, una serie di misure particolarmente severe che comportarono la deportazione in altre repubbliche di circa 200.000 persone e l’immigrazione massiccia in Lettonia di russi, bielorussi e ucraini, che andarono a costituire il nerbo del locale proletariato industriale.
Anche se, a partire dagli anni ’60, la situazione parve normalizzarsi, attraverso un deciso rilancio dell’economia e del settore industriale ed un significativo innalzamento del livello di vita e delle prestazioni sociali, le tensioni postbelliche non arrivarono mai ad una definitiva composizione.
Così quando, con la “perestrojka”, i fermenti nazionalisti e anticomunisti affiorarono in superficie, le tendenze “revansciste” e separatiste, guidate dal cosiddetto “Fronte popolare”, ripresero vigore, fino ad invocare l’indipendenza, attraverso la proclamazione della sovranità nel maggio del 1989 e la definitiva divisione dall’URSS, avvenuta nell’agosto del 1991.

Da quel momento, la Lettonia, subito riconosciuta dall’Occidente, e guidata allora dal movimento moderato nazionalista “Via Lettone”, si incamminò sulla strada delle riforme capitalistiche, rompendo i legami con il mercato sovietico, che le avevano permesso di diventare, insieme all’Estonia, la più prospera repubblica dell’Unione Sovietica, e ad avviare trasformazioni strutturali in senso liberista, che dovevano portare in breve tempo all’esplodere di una crisi economica di vaste proporzioni.
A pagarne le conseguenze è stata in primo luogo la classe operaia, che ha assistito allo smantellamento di un apparato produttivo, che aveva perso i tradizionali mercati di sbocco.
E, dal momento che il proletariato è rappresentato in larga parte da cittadini russi o “russofoni”, la “questione sociale” è venuta così mescolandosi con la “questione nazionale”.
Fin dal 1991, i governi che si sono succeduti hanno praticato una politica che, non solo ha teso ad impedire la riorganizzazione di un forte movimento operaio (attraverso, innanzitutto, la messa al bando del Partito Comunista e l’incarcerazione dei suoi massimi dirigenti, costretti a lunghi anni di detenzione e spesso condannati retroattivamente per la loro partecipazione alla repressione del collaborazionismo locale nell’immediato dopoguerra: tanto da sollevare l’indignazione dello stesso presidente russo Putin, che ha definito questi anziani partigiani “valorosi combattenti della Grande Guerra Patriottica”), ma che ha puntato (tra le proteste di alcune organizzazioni umanitarie, ma nella sostanziale indifferenza delle istituzioni internazionali) alla realizzazione di una vera e propria “pulizia etnica”.
Dopo il 1991, in Lettonia oltre mezzo milione di cittadini appartenenti alle minoranze nazionali è stato privato dei diritti civili.
Costoro non beneficiano né del diritto di voto, né del diritto di impiego nella funzione pubblica.
Non godono della pensione e vengono discriminati nelle richieste di affitto e di lavoro.
Sul loro passaporto figura addirittura la dicitura “non cittadino”.
Il governo è arrivato al punto di adottare una legge che viola il diritto fondamentale all’insegnamento nella propria lingua madre.
Secondo la nuova legislazione, solamente le scuole che insegnano in lingua lettone verranno sovvenzionate.
Ci troviamo di fronte ad un vero e proprio regime di “apartheid”, a cui l’Unione Europea (ma, dispiace affermarlo, la stessa sinistra del continente, con l’eccezione dei comunisti greci e di alcune componenti comuniste italiane e belghe) non hanno saputo rispondere se non con qualche timida reprimenda.

Tutto ciò non ha impedito che la Lettonia venisse accolta nel “salotto buono” del mondo occidentale, attraverso il suo inserimento nelle strutture sia della NATO che dell’Unione Europea.
Così, tra il novembre del 2002 e la fine del 2003, la Lettonia, che ha pagato il suo ingresso nel consesso occidentale con costi sociali inauditi (ad esempio, il sistema agricolo rischia il collasso con l’entrata in vigore dei vincoli europei), si è ritrovata tra i paesi legati al carro delle avventure americane nel mondo, con l’obbligo di destinare cifre ingenti del suo bilancio alle spese militari e ad inviare truppe in giro per il mondo, in caso di richiesta (un piccolo contingente lettone è presente in Iraq).

Né il presidente della repubblica Vaira Vike-Freiberga, né i governi che si sono succeduti in questi 12 anni non si sono mai opposti a tale corso della politica nazionale.
E, più di tutti, l’ultimo di centro-destra che, dopo le elezioni dell’ottobre 2002, è diretto da Einars Repse ed esprime una coalizione formata al Saeima (parlamento) da “Nuova Era” ( con il 23,9%, partito di maggioranza relativa), dal “Primo partito di Lettonia” (9,6%) e da altre formazioni minori di orientamento conservatore.
Anche in occasione del referendum per l’adesione all’Unione Europea, salutato dalla retorica “europeista” come espressione della volontà popolare lettone, è stato impedito ad oltre il 20% degli abitanti di votare.
Al contrario delle altre repubbliche baltiche, in Lettonia i comunisti (fuorilegge, anche dopo l’ingresso nell’UE) hanno cercato di riorganizzarsi, attraverso nuove coperture legali.
Nel gennaio del 1994 è stato così fondato il Partito Socialista di Lettonia (LSP), alla cui guida, dopo una lunga detenzione, è stato eletto Alfred Rubiks, leader del Partito Comunista di Lettonia fino all’agosto 1991.
Il Partito Socialista, decisamente contrario all’integrazione nel sistema occidentale di alleanze, si pronuncia per la creazione di un sistema “protetto socialmente sulla base della teoria marxista” e intende difendere “gli interessi politici e sociali del popolo lavoratore”.
Il Partito Socialista è particolarmente attivo nella lotta in difesa dei valori antifascisti e contro il regime di “apartheid”, attraverso l’organizzazione di incisive lotte, che hanno mobilitato decine di migliaia di persone, ottenendo anche qualche parziale risultato.
Il Partito Socialista è la più importante tra le forze di sinistra ( le altre sono il “Partito della concordia del popolo”, difensore dei diritti civili, e il “Movimento per l’uguaglianza”, in rappresentanza della minoranza russa) che hanno dato vita alla coalizione “Per i diritti dell’uomo in una Lettonia unita”, che, nelle ultime elezioni, è diventata la seconda forza politica con il 19,1% dei voti (rispetto al 14,2% della precedente consultazione).
La coalizione ha preso parte, in veste di osservatore, alla riunione di Berlino in cui è nato il “Partito della Sinistra Europea”, decidendo di non aderirvi.


LITUANIA

La Lituania, con una superficie di 65.200 Kmq e una popolazione di 3,5 milioni di abitanti, è la più meridionale delle repubbliche baltiche ex sovietiche.
A differenza di Lettonia ed Estonia, in questa repubblica oltre l’80% della popolazione è costituita da lituani (8,7% di russi e 7% di polacchi), in gran parte cattolici, che parlano una lingua del gruppo baltico.
Annessa alla Russia alla fine del 1700, occupata dai tedeschi durante la prima guerra mondiale, la Lituania riconquistò l’indipendenza nel 1918.
Governata, a partire dal 1926 dal regime autoritario di Antanas Smetona, la Lituania adottò una costituzione di tipo corporativo (fascista) nel 1938.
Dopo l’accordo sovietico-tedesco, la Lituania, come le altre repubbliche baltiche, fu inclusa nell’Unione Sovietica, dopo avere ottenuto la restituzione dell’attuale capitale Vilnius, fino ad allora sotto controllo polacco.
L’occupazione nazista (1941-1944), appoggiata dalle feroci formazioni fasciste locali (si distinse il padre di Vytautas Landsbergis, il leader più conosciuto del movimento indipendentista che riconquistò l’indipendenza nel 1991), si rese responsabile, fra l’altro, del massacro e della deportazione nei campi di sterminio di oltre 240.000 ebrei, che costituivano una delle più significative comunità israelitiche europee.
Il periodo postbellico di potere sovietico, caratterizzato da un rilevante afflusso di investimenti e di risorse energetiche, nonostante un livello di industrializzazione meno elevato che in Lettonia ed Estonia, ha favorito una significativa crescita dell’economia, in particolare del settore agro-industriale (l’agricoltura lituana era tra le più produttive dell’URSS), ponendo la Lituania ai primi posti per livelli di benessere tra le repubbliche sovietiche.
La “sovietizzazione” comportò una fase particolarmente dura di repressione dei fermenti nazionalistici, caratterizzato anche da deportazioni di cittadini lituani.
Il processo di “russificazione” fu però meno rilevante che negli altri paesi del Baltico.
Per questa ragione la Lituania, in cui un ruolo di particolare rilievo nella conservazione delle tradizioni nazionali è stato svolto dalla locale Chiesa cattolica, è stato il primo paese a proclamare l’indipendenza, confermata dall’adesione quasi plebiscitaria (90%) alla richiesta di distacco da Mosca nel referendum del marzo 1991.
Solo il collasso dell’URSS ha però portato al riconoscimento internazionale del nuovo stato, alla cui guida si è trovato, nell’agosto ’91, il movimento nazionalista di destra (Sajudis) di Vytautas Landsbergis.
Fu subito avviato un processo di restaurazione capitalistica, improntato al liberismo più sfrenato, da cui sono presto derivati gravissimi squilibri economici e sociali.
L’inflazione galoppante, la penuria di combustibile (dovuta alla brusca interruzione delle relazioni economiche con il mercato ex sovietico), che arrivò addirittura a provocare la totale mancanza di riscaldamento, e la crisi del settore agricolo, seguita al riassetto proprietario dopo la privatizzazione delle terre, alimentarono un vasto malcontento popolare, che portò, nel 1992, alla clamorosa disfatta del “Sajudis” e alla vittoria degli ex comunisti di Algirdas Brazauskas (“Partito democratico del lavoro”, negli anni seguenti, trasformatosi in “Partito socialdemocratico lituano”, aderente all’Internazionale Socialista, che insieme ad altre forze minori, tra cui l’ “Unione lituano-russa” in rappresentanza della minoranza russofona, ha dato vita alla cosiddetta “Coalizione socialdemocratica”) favorevoli a riforme più caute e graduali.
Nel corso degli anni ’90, che hanno visto l’alternarsi di governi di centro-destra e di centro-sinistra, la linea predominante di politica estera è stata la ricerca dell’integrazione della Lituania nell’ambito delle alleanze occidentali.
Sono proprio i governi “socialdemocratici”, del resto, quelli che più si sono attivati (trovando sostegno nella stessa “Internazionale Socialista”) per avvicinare il paese all’Unione Europea e alla NATO.
Lo stesso Brazauskas ha fatto della “vocazione europea e occidentale” della Lituania uno dei suoi “cavalli di battaglia” e, dal 2001, in seguito alla vittoria elettorale nelle elezioni dell’ottobre 2000, è alla guida del governo di coalizione tra i “socialdemocratici” e la “Nuova Unione dei social-liberali”, che ha sancito l’ingresso formale ( tra il 2002 e il 2003) della repubblica baltica nel sistema di alleanze dell’Occidente.
Durante il premierato di Brazauskas, nel gennaio del 2003, al ballottaggio, Rolandas Pauskas, del Partito liberaldemocratico lettone, batteva il presidente della repubblica uscente Valdas Adamkus, facoltoso emigrato negli USA, eletto a sorpresa nel 1998.
Il nuovo presidente della repubblica si è trovato ben presto al centro di un clamoroso scandalo, per i suoi legami con ambienti della mafia russa, e, nell’ultimo scorcio del 2003, in seguito a grandi manifestazioni popolari, ha dovuto subire l’avvio delle procedure di “impeachment”.
In Lituania, anche per una più limitata presenza della componente russa che, in generale, rappresentava il nucleo operaio delle strutture comuniste, quando le repubbliche baltiche facevano parte dell’URSS, la sinistra è oggi elettoralmente rappresentata in modo quasi esclusivo dal “Partito socialdemocratico lituano”.
Il Partito Comunista Lituano (PCL), messo brutalmente fuorilegge all’indomani dell’indipendenza, non ha più riacquistato una veste legale (il piccolo Partito Socialista di Lituania, costituito da alcuni militanti comunisti e presieduto da Mindaugas Stakvilevicius, svolge un ruolo molto marginale).
Molti militanti comunisti, costretti alla più assoluta clandestinità, sono stati sottoposti a persecuzioni di ogni tipo, purtroppo passate inosservate persino alla gran parte della sinistra antagonista europea.
Dirigenti del PCL sono stati sottoposti a torture e maltrattamenti, ed altri, nei primi anni ’90, sono stati persino rapiti in Bielorussia, dove si erano rifugiati, in conseguenza di un blitz, effettuato dai servizi segreti lituani.
Solo negli ultimi mesi del 2003, grazie all’iniziativa del Partito Comunista di Grecia (l’unico che, in sede europea, si è finora battuto con vigore e coerenza contro le ricorrenti violazioni dei diritti umani nei paesi ex socialisti del nostro continente), Stratis Korakas, parlamentare europeo di questo partito ha potuto fare visita agli anziani leader del PCL (Mikolas Burakiavitsious e Giuozas Kuolialis), tuttora detenuti nelle carceri di Vilnius, chiedendone il rilascio immediato e sollecitando l’interessamento degli organismi competenti europei, che, naturalmente, è ancora una volta venuto meno.

a cura di Mauro Gemma

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