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(14 Settembre 2010) Enzo Apicella
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Sulle riforme costituzionali, il “canguro” è decisionista

(31 Luglio 2014)

Senato. L'applicazione del regolamento può bloccare la discussione su un riforma che rischia di ridurre la rappresentanza politica

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Pietro Grasso

Riforme a ogni costo, tuona Renzi. La giunta per il rego­la­mento apre la strada dando luce verde al taglio degli emen­da­menti, ma il senato sem­bra El Ala­mein e Grasso viene dura­mente con­te­stato. Certo, il «can­guro» è una tec­nica con­so­li­data nella prassi, e ampia­mente uti­liz­zata. Ma tutto dipende dal come.
Il prin­ci­pio di fondo è che l’assemblea non può essere chia­mata a votare nuo­va­mente su quello che ha già deciso. Quindi, se un emen­da­mento viene riget­tato, il voto tra­volge anche gli altri emen­da­menti di con­te­nuto sovrap­po­ni­bile al primo, assu­mendo tra l’altro che uguale volontà espri­me­rebbe l’aula votan­doli uno a uno. Si salta all’emendamento suc­ces­sivo, e da qui il nome. La deci­sione su cosa votare, e con quali effetti, spetta al pre­si­dente ed è inap­pel­la­bile.
Fino a che punto è cor­retto rite­nere che il voto nega­tivo su un emen­da­mento ne tra­volga altri? Solo fino a quando si può assu­mere che in tutti gli emen­da­menti vi sia una parte coin­ci­dente, e che que­sta sia assor­bente per il merito dell’emendamento nel com­plesso. Un esem­pio. Primo emen­da­mento: «è rin­viato l’inizio del pro­ce­di­mento per…». Secondo: «è rin­viato l’inizio dell’anno sco­la­stico…». Terzo: «è rin­viato l’inizio della sta­gione vena­to­ria…». Non sarebbe una cor­retta appli­ca­zione del can­guro met­tere in vota­zione per il primo le parole «è rin­viato l’inizio», e assu­mere che il voto nega­tivo tra­volga anche gli altri due. Ovvia­mente, non si potrebbe desu­mere dal rigetto che l’assemblea sia con­tra­ria ad ogni rin­vio, di qual­siasi oggetto o fina­lità. Ugual­mente scor­retto sarebbe met­tere in vota­zione il rin­vio come prin­ci­pio uni­fi­cante, e trarre dal voto nega­tivo il rigetto.

Dun­que, Grasso è arbi­tro impar­ziale o risponde a stra­te­gie sot­ter­ra­nee, magari – come qual­cuno sus­surra – qui­ri­na­li­zie? Vuole forse scrol­larsi di dosso il pec­cato ori­gi­nale di una pro­pen­sione per il senato elet­tivo? Dif­fi­cile dirlo in astratto, e senza guar­dare caso per caso le deci­sioni assunte. Ma con cer­tezza due con­si­de­ra­zioni non devono entrare nella valu­ta­zione di quel che accade.
La prima. Non si può argo­men­tare che comun­que, essen­doci una mag­gio­ranza, far cadere cento o mille emen­da­menti non fa alcuna dif­fe­renza, per­ché alla fine il risul­tato non cam­bia e si perde solo tempo. A voler andare fino in fondo, baste­rebbe allora far votare una volta solo i capi­gruppo. Lo pro­po­neva nel marzo 2009 Ber­lu­sconi, con l’argomento di gua­da­gnar tempo e limi­tare i rischi. Fu l’allora pre­si­dente Fini a dir­gli no, e il Pd alzò le bar­ri­cate par­lando di pul­sioni auto­ri­ta­rie. Altri tempi.
La seconda. Stiamo par­lando di una grande riforma costi­tu­zio­nale, che inde­bo­li­sce la rap­pre­sen­tanza poli­tica e la par­te­ci­pa­zione, e altera l’equilibrio tra i poteri. Se c’è un ter­reno sul quale non si può con decenza por­tare fino in fondo l’affermazione che la mag­gio­ranza ha il diritto di deci­dere, è que­sto. Per defi­ni­zione, la Costi­tu­zione è di tutti. Inol­tre, Sono in campo pro­po­ste mai avan­zate nel dibat­tito sulle riforme, come quella di imbot­tire il senato esclu­si­va­mente con per­so­nale poli­tico di seconda scelta. C’è la con­nes­sione con la legge elet­to­rale e con un patto semi-segreto – Naza­reno – che lega le riforme alla soprav­vi­venza per­so­nale e poli­tica dei due sti­pu­lanti e dei gruppi a loro vicini. C’è l’obiettivo del governo di alzare pol­ve­roni ina­sprendo il con­fronto, per disto­gliere l’attenzione dai pos­si­bili fal­li­menti su fronti di ben mag­giore e più imme­diato inte­resse, come l’economia. C’è l’intento di for­zare il sistema poli­tico favo­rendo alcuni attori a danno di altri, e ren­dendo dif­fi­cile o impos­si­bile l’ingresso ai new­co­mers. Un sistema inges­sato, ora e in futuro. Per­ché mai in Gran Bre­ta­gna vediamo nella camera dei comuni par­la­men­tari eletti con poche migliaia di voti, men­tre da noi forze poli­ti­che che ne rac­col­gono cen­ti­naia di migliaia sono ricat­tate (dal governo!) non solo per l’oggi, ma anche per il domani nella pro­spet­tiva di pos­si­bili nuove ele­zioni?
Tutto que­sto va con­si­de­rato nel valu­tare quel che accade. Non basta l’irrisione, l’insulto, l’accusa che i sena­tori difen­dono le pol­trone. Oggi, solo quelli che obbe­di­scono al capo pos­sono avere una chance in più di ritor­nare sul seg­gio par­la­men­tare, per meriti acqui­siti. Chi si oppone peg­giora quelle chan­ces, e merita rispetto. Merita soprat­tutto che chi osserva non perda di vista, nel chiasso e nel pol­ve­rone, il merito dei pro­blemi. Lo stesso vale per chi decide sugli emen­da­menti.
Se vin­cerà Renzi si pre­fi­gura uno sce­na­rio in cui un par­tito del 40% — oggi forse il Pd, domani chissà — diventa l’asso piglia­tutto, e con­cen­tra il potere su sé stesso e soprat­tutto sul suo lea­der. Che sia poi magari il 40% del 58% degli aventi diritto, per un con­senso reale che non giunge a un elet­tore su quat­tro, poco importa. È la magia dei numeri. Se la Dc di un tempo lon­tano – quella buona — avesse ragio­nato così, que­sto paese avrebbe avuto un’altra sto­ria, certo peg­giore. E quello era un par­tito del 40% sul 90% degli elet­tori. Arri­da­teci quella Dc.

Massimo Villone, il manifesto

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