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(15 Ottobre 2012) Enzo Apicella

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I profughi palestinesi in Libano, il vaso di coccio nella destabilizzazione occidentale del Medio Oriente

(26 Novembre 2007)

Anche quest’anno, il “Comitato per non dimenticare Sabra e Chatila” ha portato una folta delegazione internazionale in terra libanese. Quello che avrebbe potuto diventare un appuntamento rituale ha invece di nuovo fornito la possibilità ad un elevato numero di giornalisti, attivisti ed esponenti politici di confrontarsi direttamente con lo scenario esplosivo generato in Medio Oriente dalla destabilizzazione operata da potenze straniere.

I campi profughi: una umanità reietta
A 25 anni dal massacro perpetrato nel 1982 dalle milizie falangiste libanesi di estrema destra grazie al sostegno logistico dell’esercito israeliano invasore, le popolazioni dei campi profughi palestinesi in Libano continuano ad essere una umanità reietta, di serie B, invisibile. Si tratta di più di 300 mila persone confinate in 12 campi sparsi dal nord al sud del Libano, costrette ogni giorno ad una dura lotta per la sopravvivenza, private del diritto di lavorare, di studiare, di curarsi, di muoversi liberamente da uno Stato che da decenni li considera invadenti e sgraditi ospiti.
Nonostante le promesse altisonanti dei leader governativi e gli sforzi delle instancabili Ong palestinesi – riunite in un coordinamento che incontriamo poche ore dopo aver messo piede a Beirut - le condizioni di vita dei profughi e dei loro discendenti rimangono indecenti, al limite della sopportazione.
Nei campi che visiteremo - Burj al-Barajni e Chatila a Beirut, Bourj al-Shemali nella meridionale Tiro e poi Beddawi, nel nord - in decine di migliaia vivono ammassati in pochissimo spazio, senza acqua potabile, con le fogne a cielo aperto, costretti a lavorare clandestinamente in settori dove è loro vietato da un vero e proprio regime di apartheid. Qualcosa si è mosso negli ultimi anni, grazie alla presenza nell’esecutivo di Hezbollah che ha ottenuto la formazione di una Commissione governativa per i profughi palestinesi. Nel 2005 il Ministro del Lavoro ha cancellato alcune occupazioni e professioni di carattere amministrativo dall’elenco dei mestieri proibiti ai palestinesi. Ma non è abbastanza: 13% di analfabetismo, 40% di disoccupazione, il 60% vive sotto la soglia di povertà. “Peggio che a Gaza”, sentenzia sconsolata la rappresentante di una ong che ci accoglie a Beirut.

Per non dimenticare Sabra e Chatila... e Qana, Al Houla, Tal Al Zaatar, Jenin...
Negli incontri con i rappresentanti dei comitati popolari dei campi profughi, o dei partiti politici palestinesi e libanesi, o con i sindaci di Tiro, Sidone, Tripoli, il messaggio rivolto loro dal Comitato è stato semplice quanto netto: occorre ricordare per non permettere che accada di nuovo. Che i responsabili siano i falangisti cristiani libanesi – che tuttora si considerano i discendenti dei Crociati (sic!) - o i generali e leader israeliani, nessuno è stato giudicato e punito per i crimini commessi. Si è anzi cercato addirittura di rimuovere la stessa memoria di quelle stragi.
Alla fine degli anni ’90 la fossa dove sono sepolti molti di quei 3000 palestinesi massacrati tra il 14 e il 16 settembre del 1982 era una discarica a pochi passi da quel girone infernale che è il campo profughi di Chatila, nel quadrante Sud di Beirut.
E’ stato grazie alla sensibilità, all’intelligenza politica e alla determinazione di Stefano Chiarini se quell’immondezzaio è diventato un memoriale dove ogni anno si conclude il corteo che dallo spiazzo antistante l’ambasciata del Kuwait (quartier generale della strage) arriva sotto un cartellone dove campeggia la scritta “never forget”.
E’ perché i criminali sono a piede libero, acclamati come eroi dai propri accoliti, che la ferita di Sabra e Chatila non si è mai rimarginata, che continua a sanguinare. Anche quest’anno, dentro la piccola sala della Casa dei Figli della Resistenza a Chatila, l’incontro con i parenti delle vittime di quella strage sconvolge tutti. Mentre una ad una le mamme o le vedove degli assassinati si alternano per descrivere la tragica sorte subita dai propri cari le altre reggono le foto con i volti dei bambini, delle donne, degli uomini fatti a pezzi, squartati, violentati. E chiedono a noi - in quel momento rappresentanti dell’Occidente, e forse per questo percepiti come in grado di fare qualcosa - di non dimenticarli, di aiutarli a trovare una giusta sepoltura, di adoperarci affinché i responsabili vengano sottoposti ad un processo internazionale.
Quelli di Chatila non saranno gli unici sopravvissuti che incontreremo, perché di stragi e massacri è costellata la storia delle comunità palestinesi del Libano. Accolti dal suono delle cornamuse (elemento di identità, anche se retaggio della colonizzazione britannica) ne accompagneremo altri a deporre una corona di fiori presso il centro sociale Al Houla e presso il giardino d’infanzia Al Najdeh, dentro il campo di Bourj al-Shemali. In questo formicaio di un km quadrato, nel quale vivono ammassati 20 mila palestinesi, alcune organizzazioni avevano costruito una sede che ospitava una biblioteca, un centro culturale per le donne palestinesi, un asilo per i loro figli. Nel 1982 le bombe al napalm lanciate dagli israeliani massacrarono 94 persone che si erano rifugiate nel centro per proteggersi dai lanci di artiglieria. Tra i morti, di nuovo, donne e bambini, interi nuclei familiari.

Un paese col fiato sospeso
Le normalmente animate vie di Hamra o di Ashrafiye, i quartieri commerciali e del divertimento della più occidentale delle capitali mediorientali, sembrano attendere il corso degli eventi con il fiato sospeso. Ovunque si vedono blindati e posti di blocco con tanto di cavalli di frisia e filo spinato. Centinaia di militari in assetto da combattimento controllano le vie del centro, e i controlli si infittiscono man mano che ci si avvicina al Palazzo del Serraglio, la sede del governo del Primo Ministro Fouad Siniora. La centralissima Piazza dei Martiri è occupata ormai da quasi un anno, dal 1° dicembre del 2006, da una tendopoli messa in piedi dal fronte dell’opposizione al governo fantoccio. Nei palazzi sulla collina sono asserragliati gli esponenti della coalizione governativa del “14 marzo”, che rappresenta in un delicato equilibrio l’insieme degli interessi di Stati Uniti ed Israele, ma anche di Arabia Saudita e Francia: il Movimento del Futuro (Mustaqbal) del sunnita Saad Hariri, la destra cristiana delle Forze Libanesi di Samir Geagea e la Falange (Qataeb) di Amin Gemayel, i “socialisti” del druso Walid Jumblatt, altri ancora.
Nella piazza, poco più in basso, i militanti del composito e variegato fronte della resistenza e dell’opposizione. In una alleanza inedita convivono gli islamici sciiti di Hezbollah e di Amal, i cristiano maroniti del Movimento Patriottico Libero guidato dall’ex generale Michel Aoun, movimenti sunniti nazionalisti e nasseriani, il partito Socialnazionale Siriano. Con un piede dentro ed uno fuori il Partito Comunista.
Lo stallo e il fronteggiamento tra i due schieramenti è, oltre che politico, anche fisico, materiale. La battaglia per l’elezione del nuovo presidente della Repubblica al posto dell’oppositore Lahoud acquisisce un’importanza decisiva. Stati Uniti, Israele e Arabia Saudita sostengono apertamente la scelta di un esponente della attuale maggioranza; la Francia oscilla tra la ricerca di una soluzione di compromesso - caldeggiata apertamente anche dal patriarca maronita di Beirut Nasrallah Sfeir in accordo con le gerarchie vaticane – e un sostegno ai piani di Washington. Da parte del governo italiano negli ultimi tempi è aumentata la vicinanza nei confronti di alcuni esponenti della maggioranza libanese, con i Ds intenti ad accreditare l’inconsistente e voltagabbana Jumblat come possibile interlocutore di punta mentre D’Alema tenta di creare una cortina fumogena passeggiando tra le rovine di Beirut con un deputato di Hezbollah o criticando di tanto in tanto gli “eccessi israeliani”. La battaglia sul futuro politico del Libano si decide altrove, spesso a migliaia di Km di distanza:
“A scegliere il presidente cristiano libanese (così impone la costituzione confessionalista del 1943, NdR) saranno i cattolici del Vaticano, gli ebrei israeliani, i protestanti tedeschi e statunitensi, gli sciiti iraniani, i sunniti sauditi. Tutti tranne che i libanesi (…) Dal 2004 l’Onu ha votato ben 7 risoluzioni che riguardano la nostra situazione. Chissà se esiste qualche risoluzione dell’ONU che mi impedisce di indossare questa cravatta!”
Così scherzava, con l’amara ironia che lo contraddistingue, Talal Salman, direttore del quotidiano progressista libanese As-Safir, mentre cercava di spiegarci quanto il Libano sia una sorta di protettorato delle grandi potenze. I viaggi a Beirut dei ministri degli esteri di Italia, Francia e Spagna in queste ultime settimane non si contano, così come le telefonate ad Hariri da parte di Condoleeza Rice.

Il nodo del disarmo della resistenza
Che la cosiddetta comunità internazionale non abbia affatto una posizione neutra lo dimostrano alcune di quelle risoluzioni, varate a sostegno proprio dell’offensiva di quella che oggi è conosciuta come Coalizione governativa e costruite a partire da provocazioni che hanno insanguinato il Paese dei Cedri a partire dall’omicidio dell’ex primo ministro Rafik Hariri il 14 marzo del 2005. Addossata la responsabilità ai siriani, Usa e alleati hanno spinto un supino Consiglio di Sicurezza a varare prima la n° 1559 (2004) che impone - in nome del diritto all’autodeterminazione del Libano (sic!) - la partenza dei militari siriani presenti del paese, oltre allo scioglimento e al disarmo di tutte le milizie, libanesi e non, che non siano integrate nelle Forze Armate. Mentre centinaia di migliaia di immigrati siriani lasciavano il paese, in fuga dai pogrom scatenati dai rampolli della borghesia sunnita e cristiana, nuovi attentati uccidevano esponenti della maggioranza e dell’opposizione, permettendo all’ONU di implementare contro Damasco sanzioni economiche e diplomatiche e una commissione di inchiesta sull’omicidio Hariri usata come una clava dalla destra libanese contro oppositori interni ed esterni.
Quella stessa ONU che, nella risoluzione che impone il cessate il fuoco nell’agosto del 2006 (la 1701), tenta di trasformare la sconfitta militare israeliana in una nuova opportunità per Tel Aviv e i suoi alleati di Beirut di disarmare la resistenza libanese e palestinese. Il disarmo della imponente e organizzatissima guerriglia di Hezbollah sembra di là da venire: i leader del Partito di Dio hanno ripetuto fino allo sfinimento che non consegneranno le armi né all’esercito libanese né tanto meno ai militari mandati dall’ONU a proteggere i confini settentrionali di Israele. Ed è quindi contro le milizie palestinesi che il debole ed eterodiretto governo di Beirut potrebbe dirigere le proprie attenzioni: dopo la cosiddetta “rivoluzione del 1969” i campi palestinesi sono in teoria interdetti alle forze di sicurezza libanesi, ed hanno il diritto di difendersi da soli attraverso milizie autonome. Ma le risoluzioni 1559 e 1701 forniscono un esplicito mandato internazionale all’esercito libanese affinché “la invalicabile linea rossa” rappresentata dall’ingresso nei campi venga superata. Se non bastasse, a cercare di convincere la martoriata opinione pubblica libanese e mondiale della necessità di cancellare il diritto per i palestinesi di difendersi da soli è intervenuto negli ultimi mesi un evento che potrebbe avere conseguenze nefaste per il futuro non solo delle loro comunità ma di tutto il Medio Oriente.

Il complotto di Nahr el Bared
Nel bombardamento e nella distruzione da parte dell’esercito del campo profughi di Nahr el Bared in nome della lotta contro il terrorismo jihadista, occorre individuare un punto di svolta della situazione libanese dopo la sconfitta dei piani israeliani in Libano. Dal 20 maggio al 3 settembre l’esercito libanese ha bombardato a tappeto, riducendolo ad un ammasso di macerie, questo campo profughi a pochi km dalla città di Tripoli, per stanare e sconfiggere Fatah al-Islam, un piccolo gruppo islamico “palestinese” da poco affacciatosi sulla scena e definito come “una creatura dei servizi siriani ed elemento della rete internazionale di Al Qaeda”. E già qui qualcosa non torna, visto che la Siria niente ha da guadagnare da una collaborazione con i gruppi jihadisti che anzi perseguono l’abbattimento del regime laico di Assad, così come non ha nulla da guadagnare da una destabilizzazione del Libano che ha portato all’isolamento diplomatico ed economico di Damasco. Analisti di diversi paesi - Seymour Hersh, Michel Chossudovsky, Franklin Lamb, l’ex ufficiale dei servizi britannici Alastair Crook – forniscono una chiave di lettura più convincente e realistica. Fatah al Islam viene insistentemente descritta come “una milizia salafita palestinese”, anche se in realtà la maggior parte dei suoi componenti sono prevalentemente di altre nazionalità arabe: sauditi, giordani, irakeni, siriani, addirittura ceceni, afgani ecc. Ma occorre avvalorare il teorema che i palestinesi del Libano sono sempre più sensibili alle infiltrazioni terroristiche e al fascino per Osama Bin Laden e quindi rappresentano un pericolo, un corpo estraneo da ridurre all’obbedienza, se non addirittura da eliminare. La campagna politica e mediatica al riguardo sembra già sortire i primi effetti. I 30 mila profughi fuggiti dalle bombe sparate per mesi dall’Armée Libanaise per stanare i neanche 200 miliziani di Fatah al Islam sono stipati da mesi in condizioni intollerabili dentro scuole e garages del vicino campo di Beddawi. In cinquanta dentro ogni stanza, senza servizi igienici, senza strutture sanitarie sufficienti.
I comitati popolari che gestiscono i due campi hanno ribadito, durante l’incontro con il Comitato, che gli abitanti di Nahr El Bared pretendono l’immediata ricostruzione e la possibilità di poter tornare subito alle loro case: alcune sono ancora in piedi. Nonostante il ritorno di alcune, poche famiglie all’interno del campo, il governo di Beirut sta facendo di tutto per rallentare il rientro. E intanto internet diffonde alcuni video amatoriali dei saccheggi e dei pestaggi operati dai militari libanesi ai danni delle case e dei rifugiati palestinesi che ufficialmente erano intervenuti a proteggere dai “salafiti”. Già all’inizio di giugno i militari libanesi avevano sparato sulla folla dei rifugiati, uccidendone due, nel tentativo di mettere fine alla protesta di coloro che volevano rientrare. “Motivi di sicurezza”, è la versione ufficiale. E poi, si giustificano i ministri, le comunità libanesi limitrofe al campo non li vogliono più i profughi palestinesi, si oppongono alla ricostruzione. Si tratta per lo più di comunità sunnite, legate a doppio filo con la famiglia Hariri, cardine del governo che ha chiesto ai militari di eliminare Fatah al Islam ma che al tempo stesso ha sostenuto politicamente e finanziato questo gruppuscolo fino all’esplosione delle ostilità il 20 maggio. Numerose fonti attestano che nella genesi di questa organizzazione un ruolo centrale lo hanno avuto il vice presidente statunitense Dick Cheney; il principe Bandar bin Sultan, consigliere saudita per la sicurezza nazionale, e la famiglia Hariri che avrebbe fornito ai leader del gruppo finanziamenti ed appoggio logistico per farli arrivare nel campo vicino a Tripoli.
D’altra parte Fatah al Islam si è presenta fin da subito come lo strumento della riscossa di una comunità sunnita descritta come succube dell’espansionismo sciita di Hezbollah e Amal. Un’estremizzazione del discorso politico del movimento di Saad Hariri, che insieme a Fouad Siniora sostiene alcuni predicatori sunniti ideologi di gruppi salafiti attivi in Libano come Osbat al Ansar e Jund al Sham.
A metà settembre, durante il nostro soggiorno, l’esercito libanese ha sfilato e marciato per le vie del centro di Beirut per celebrare la vittoria contro Fatah Al Islam. Un tentativo a buon mercato per togliere la scena alla guerriglia di Hezbollah, che ha ottenuto ben altri successi. Ma già si fa spazio nel discorso governativo l’allarme per le possibili nuove infiltrazioni di Fatah al Islam o di altri gruppi jihadisti in altri campi profughi. Un allarme preventivo che potrebbe “spingere” la comunità internazionale a venire incontro alle richieste del premier Siniora che chiede appoggio militare e finanziario per far fronte al terrorismo. Pochi giorni dopo lo scoppio delle ostilità a Nahr El Bared il governo statunitense si è prodigato nell’invio immediato di ingenti attrezzature militari che però, si lamentano alcuni generali, sono andate a rafforzare i corpi di elite ai diretti ordini di Hariri e Siniora e non uno sgangherato esercito libanese che nei piani degli Usa e di Israele deve rimanere tale. Già il 15-04-2007, quindi prima dell’inizio degli scontri, il quotidiano libanese Al-Diyar riferiva che la Nato aveva deciso di associare i territori libanesi alla regione militare del Nord Africa, puntando ad installare una propria base aerea di intervento rapido nella località di Qlei’at, a pochi km da Tripoli e, guarda caso, ai confini con la Siria.
Quando lo incontriamo a Beirut, in un palazzo bunker nel quartiere di Gobheiri, il vicesegretario di Hezbollah Naim Kassem non esita a usare il termine complotto per definire la vicenda di Nahr el Bared.

Nahr el Bared, un monito e una trappola per i palestinesi
La demolizione di Nahr el Bared, oltre a rappresentare un modello preordinato di destabilizzazione del Libano, costituisce anche un monito per i palestinesi: adeguarsi o soffrire le conseguenze di una nuova persecuzione, di una nuova dispersione.
E’ la solita strategia del bastone e della carota: le elites libanesi ammiccano alla possibilità di concedere ai palestinesi alcuni diritti oggi negati – la cittadinanza, o il diritto al lavoro - in cambio del disarmo e dell’integrazione degli stessi profughi all’interno dell’area politica di governo incentrata sui sunniti sostenuti dall’Arabia Saudita. Un alto dirigente del Partito Comunista Libanese ci ha confermato, durante un incontro a Beirut, che sta notevolmente aumentando la dipendenza economica di alcuni settori di Fatah dagli apparati politici e dalle lobbie governative. Ci tornano in mente le parole del segretario di Fatah in Libano, Sultan Abu Alaynen, che in un passaggio del suo intervento all’interno del campo di Bourj Al Shamali aveva attaccato pesantemente Hamas e poi aveva segnalato l’esigenza di considerare i sunniti libanesi come i naturali alleati dei palestinesi, anch’essi sunniti. Un’esplicita presa di distanza dalle organizzazioni della resistenza libanese a dominanza sciita, e un’implicita scelta politica di schieramento all’interno di uno scenario non troppo lontano.

L’iraqizzazione del Libano e lo spettro di una nuova guerra civile
Come è evidente il conflitto politico tra Fatah e Hamas, la scelta collaborazionista di Abu Mazen e la condizione di apartheid alla quale sono sottoposti in Libano rendono i palestinesi il vaso di coccio all’interno di un paese scosso da fortissime ingerenze e oggetto delle mire espansionistiche di altre potenze. Il disarmo delle milizie all’interno dei campi costituirebbe un pericoloso precedente – da estendere ad altre realtà della resistenza sia in Libano che nei Territori Occupati - ed un importante risultato all’interno della strategia di inclusione del Libano all’interno del progetto del Grande Medio Oriente o, in alternativa, della distruzione del paese attraverso quello che di potrebbe definire un “processo di iraqizzazione”. Il precario equilibrio su cui si regge quello che è un mosaico di confessioni, etnie, culture, tradizioni, potrebbe di nuovo saltare, come avvenne negli anni ’70, con conseguenze disastrose. Ne sono coscienti il Partito Comunista ed Hezbollah in primo luogo, ed in parte il movimento di Aoun, che infatti nel pur duro conflitto con i propri avversari stanno sempre lasciando aperta la porta del dialogo e dell’accordo, all’interno di quella che viene descritta come la “politica della mano tesa”. Sanno che ogni eccesso, ogni innalzamento dei toni, ogni passo falso potrebbe accendere la scintilla della guerra civile e dell’intervento militare straniero.
Ma tra le forze filoccidentali l’atteggiamento prevalente sembra il rifiuto del compromesso offerto dall’attuale presidente del Parlamento, il leader di Amal Nabih Berri. “Se il 14 marzo dovesse mantenere il rifiuto di concordare con l’opposizione l’elezione del nuovo presidente della Repubblica con il coinvolgimento di almeno i due terzi del Parlamento, noi non potremo di certo riconoscere una autorità illegittima e scelta in violazione del dettato costituzionale” ribadisce il deputato di Hezbollah Mohammed Aidar a pochi passi dalle rovine del museo carcere di Khiam, raso al suolo l’anno scorso dai bombardamenti israeliani nel tentativo di nascondere il ricordo stesso delle torture inflitte ai prigionieri fino al 2000.
Se il governo scegliesse di eleggere un proprio presidente della Repubblica con la semplice maggioranza assoluta - che comunque, allo stato delle cose, non possiede - obbligherebbe l’opposizione a boicottarlo se non addirittura a scegliersi un “contro Presidente”. Dalla dualità di poteri alla guerra civile il passo potrebbe essere breve.

L’incognita della presenza militare italiana
Di fronte a un conflitto cruento, o anche solo alla richiesta esplicita da parte del Governo di Beirut di sostenere il disarmo di Hezbollah, quale posizione assumeranno le truppe italiane? Interverranno a difesa della popolazione e si schiereranno a mo di forza di interposizione, o faranno i bagagli in fretta e furia?
Nel 1982 i militari italiani, francesi e statunitensi facilitarono il compito dei massacratori di Sabra e Chatila ritirandosi da Beirut appena in tempo per lasciare campo libero prima all’esercito israeliano e poi alle milizie falangiste di Hobeika. I precedenti non promettono nulla di buono.

Marco Santopadre (Radio Città Aperta), di ritorno dal Libano

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