">
il pane e le rose

Font:

Posizione: Home > Archivio notizie > Capitale, ambiente e salute    (Visualizza la Mappa del sito )

Terzigno

Terzigno

(22 Ottobre 2010) Enzo Apicella
Continua la rivolta popolare a Terzigno contro l'apertura di una nuova discarica nel Parco del Vesuvio

Tutte le vignette di Enzo Apicella

PRIMA PAGINA

costruiamo un arete redazionale per il pane e le rose Libera TV

SITI WEB
(Capitale, ambiente e salute)

Emergenza rifiuti, la napoletanissima Finseda che aiuta a farne tanti

(7 Marzo 2008)

Bisogna avere se non tutti qualche capello bianco per ricordare la spesa d’una volta. Più povera certo, ma anche più sana. E assolutamente meno inquinante. S’andava al mercato con la retina ch’era l’unico prodotto di plastica o le borse di vimini. Nessuna mente speculativa aveva lanciato i sacchetti in polietilene. La Montecatini Edison non produceva ancora il Moplen. Pasta, lunga e corta, tonno, legumi, ogni genere d’affettato e formaggi, si compravano a peso senza le confezioni cellophanate formato famiglia e men che meno monodose. Il vino, le bibite ma soprattutto acqua e latte si vendevano in bottiglie di vetro con una cauzione alla resa. Se la bottiglia si rompeva erano dolori per le tasche povere. Ma anche i signori scialavano meno. Il poeta scomodo avrebbe detto che la metastasi consumistica non s’era ancora impossessata delle nostre vite. Aveva ragione. Eppure pian piano arrivò anche nelle periferie delle città e nelle case rurali la smania del consumo e tanti politici, industriali, pubblicitari, comunicatori spacciavano per progresso quello che chiamavano sviluppo.

Sviluppo? forse. Progresso non proprio. Nessun ideologismo in quest’affermazione, seppure politici di prime e seconde Repubbliche pensano che nominare l’ecosistema sia già opera sovversiva. Del resto se parliamo di casa nostra possiamo raccontare come in poco più di mezzo secolo siamo giunti a un punto di non ritorno in fatto di mondezza di terra, acqua e aria. Industriali senza scrupoli di prima, seconda, terza generazione hanno fatto proliferare le loro fortune col saccheggio diretto o indiretto dell’ecosistema. E’ colpa della famiglia Agnelli se l’aria delle nostre città è da decenni diventata il mix velenoso che cronicizza le bronchiti di milioni d’italiani? In parte sì. Naturalmente siamo collusi, scegliamo noi di comperare le auto inquinanti che non sono solo le Fiat. Però i produttori non possono nascondersi dietro a un dito: altre soluzioni, dall’elettrico all’idrogeno, nate da decenni son tenute in sospeso più per l’imperialismo del mercato degli idrocarburi che per altri fattori d’inquinamento ambientale – l’estrazione del cadmio per le batterie elettriche è comunque inquinante per la natura -. E’ vero che si va in auto anche quando non si dovrebbe ma il trasporto pubblico non è favorito né da politiche della viabilità né da usi e costumi.

I comportamenti collettivi. Quel processo virtuoso che il capitalismo evita d’innescare ha una sfera morale su cui procedere che consisterebbe nel guadagnare un po’ meno e investire fondi per vivere meglio, salvaguardando la specie e la vita. In questo caso il progresso e lo sviluppo coinciderebbero. Ma la globalizzazione da vent’anni sta seguendo le strade vecchissime dell’Inghilterra vittoriana, stessi fumi nelle province di Shangai e Chongqing e quel che resterà del mondo, dopo che l’attuale miliardo e mezzo di cinesi circolerà in auto, non si sa chi riuscirà a vederlo, non diciamo a governarlo. Le potenze del G8 potranno pur dire che queste sono responsabilità cinesi. Certo. Della Cina dei McDonald’s che segue gli stessi percorsi di chi sottoscrive gli accordi di Kyoto e non li rispetta, da Washington a Tokyo. E poi quanti investimenti dei vecchi capitalisti d’Occidente sono stati delocalizzati in Cina e India? E’ il capitale ormai che non ha nazione e persegue la medesima logica in ogni latitudine, fra ogni etnia, un secolo fa come oggi.

E’ questo buco nero che la vita collettiva non sopporta più e rischia di finirci ingoiata. Il problema non sono solo la discarica di Pianura collassata da un decennio e Malagrotta satolla da due anni che può far finire Roma come Napoli. Il problema è l’imposizione di certi sistemi di vita e di chi ci specula su. Un esempio sta proprio dietro Pianura, a neppure una dozzina di chilometri in linea d’area: Arzano. Lì c’è la ditta che ha arricchito papà Salvatore e poi il figliuol prodigo Antonio D’Amato, la Finseda. Azienda leader mondiale dell’imballaggio che produce tutto quello che avvolge merci, edibili e non, che finiscono sulle tavole e nei magazzini nostri e di buona parte della popolazione Ue. Oddio, mica solo la Finseda crea imballaggi ma il suo fatturato è forte grazie a stabilimenti britannici, belgi, tedeschi e portoghesi. E grazie ai nostri consumi. Produrre sacchetti in polietilene e film – non pellicole cinematografiche – in polipropilene, vaschette per alimenti, polistirolo e commerciarli è ammesso dalla legge. I cibi e le merci che acquistiamo ci sono sdraiati sopra.

Queste norme che fanno molto bene ad aziende come la Finseda non lo fanno ai consumatori perché l’industria alimentare che utilizza quegl’imballaggi fa salire il costo della merce dal 20 al 30% come ha recentemente denunciato la Coldiretti. E l’acquirente deve subire passivamente le imposizioni delle aziende – da chi produce le confezioni a chi impacchetta in quell’unico modo -. Nel nostro libero commercio non esistono più quel mercato dove si andava con la retina né le merci sfuse da poter acquistare. Gl’imballaggi che fanno le fortune d’imprenditori alla D’Amato, sanguigno presidente di Confindustria nel quadriennio 2000-2004, hanno fatto aumentare la spazzatura – è sempre la Coldiretti a denunciarlo - del 9% dal 2000 a oggi. Un milione di tonnellate in più solo di carta, tetrapack, bottiglie in Pet e Pe, che viaggiano, differenziate o meno, su e giù per discariche che gl’italiani non vogliono dietro casa. Discariche incapaci d’assorbire un’immondizia che ormai tracima e può sommergere le nostre abitazioni.

Accanto a nuove regole che dovrebbero non imporre un unico modo di vivere, basato sul consumare e gettare, occorrerebbero alternative. Ritrovare quei prodotti diversamente diffusi, acquisibili senza tutto il costoso impacchettamento. E si dovrebbe riconvertire la vita a un utilizzo intelligente della merce. Non si tratta di contrapporre il consumismo dell’usa e getta a una penuria, ma d’introdurre la cultura virtuosa del riutilizzo.

6 marzo 2008

Enrico Campofreda

Fonte

Condividi questo articolo su Facebook

Condividi

 

Ultime notizie del dossier «Lo smaltimento rifiuti tra privatizzazione e ecomafie»

Ultime notizie dell'autore «Enrico Campofreda»

8402