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Brevi note sull'incostituzionalità dell'art. 21, comma 1-bis, legge n. 133/2008

(8 Ottobre 2008)

Fino alla recente riforma apportata dal DL 112/08 convertito, con modifiche, dalla L. 133/08, qualunque motivo di illegittimità del rapporto di lavoro a tempo determinato veniva sanzionato con la trasformazione a tempo indeterminato del rapporto stesso e, nel caso di avvenuta cessazione del rapporto per scadenza del termine illegittimamente apposto, con la ricostituzione del rapporto, oltre al risarcimento del danno dal giorno della costituzione in mora[1]. Sul punto, la giurisprudenza era pacifica, ritenendo che il vizio comportasse la nullità della clausola appositiva del termine, con le conseguenze ex art. 1419 c. 2 c.c. (veniva invece pacificamente esclusa l’applicabilità del primo comma della medesima norma)[2]. Pertanto, a fronte dell’interruzione del rapporto dovuta non a un formale atto di licenziamento, ma conseguente alla scadenza del termine, altrettanto pacificamente si escludevano le sanzioni previste dall’ordinamento per il caso di licenziamento illegittimo (ex art. 18 S.L. o ex L. 604/66, a seconda del limite dimensionale del datore di lavoro) e si ritenevano applicabili le norme di diritto comune, con le conseguenze già indicate.
La situazione sopra descritta è stata oggetto di parziale modifica da parte del DL 112/08 convertito, con modifiche, dalla L. 133/08. Più precisamente, la riforma (art. 21, comma 1 bis) ha introdotto l’art. 4 bis D. Lgs. 368/01 che, testualmente, dispone:

“Con riferimento ai soli giudizi in corso alla data di entrata in vigore della presente disposizione, e fatte salve le sentenze passate in giudicato, in caso di violazione delle disposizioni di cui agli articoli 1, 2 e 4, il datore di lavoro è tenuto unicamente a indennizzare il prestatore di lavoro con un'indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di sei mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell'articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni”.

Com’è evidente, la riforma di cui si parla è intervenuta su alcune cause di illegittimità del contratto a termine, modificandone esclusivamente il regime sanzionatorio. La modifica riguarda solo alcune delle possibili cause di illegittimità del termine, giacché – per esempio – la riforma non contempla il vizio di cui all’art. 5 D. Lgs. 368/01 (prosecuzione del rapporto oltre il termine ivi indicato, nonché successione di contratti). Inoltre la riforma comporta la modifica del regime sanzionatorio, giacché la disciplina della illegittimità di cui agli artt. 1, 2 e 4 del D. Lgs. 368/01 rimane invariata, venendo invece modificata esclusivamente la conseguenza che ne deriva. In altre parole, e com’è facile intuire, si prevede non più l’applicazione dei principi di diritto comune e la conseguente ricostituzione del rapporto con risarcimento del danno, ma:

• il sostanziale rinvio a una norma di legge che disciplina la materia del licenziamento, tanto più sorprendente giacché, come la giurisprudenza ha più volte chiarito, nel caso in esame manca qualsiasi atto di licenziamento;

• per di più, la norma cui sostanzialmente si rinvia è quella che garantisce la mera tutela obbligatoria, con esclusione dunque di qualsiasi effetto reintegratorio;

• piuttosto, la sanzione ha un mero carattere economico, sotto forma di un semplice indennizzo, che ragionevolmente (considerata la durata del processo) non tien conto neppure del danno effettivamente subito alla data della sentenza.

Inoltre, cosa che maggiormente rileva nella presente sede, la riforma è inapplicabile non solo alle sentenze passate in giudicato (com’è ovvio), ma anche ai giudizi non ancora instaurati alla data dell’entrata in vigore della riforma. Come si vede, dunque, la riforma introduce la modifica ma, al contempo, la limita, e ciò sulla scorta di una distinzione meramente temporale, a seconda che il giudizio pendesse, oppure no, alla data di entrata in vigore del provvedimento.

Come meglio si dirà in seguito, la riforma introdotta dalla L. 133/08 viola in modo palese fondamentali principi costituzionali. Peraltro, nel caso di specie si potrà prescindere dalla remissione della causa alla Corte Costituzionale in quanto il diritto dell’esponente alla riammissione in servizio (con conseguente inapplicabilità delle sanzioni introdotte dalla nuova normativa) può comunque essere riconosciuto sulla base dell’attuale formulazione del D. Lgs. 368/01.

La reiterazione dei contratti a termine in frode alla legge

Come accennato, la riforma del 2008 non ha interessato l’art. 5 del D. Lgs. 368/01, che disciplina le fondamentali misure antifraudolente a suo tempo introdotte dal legislatore, in applicazione di uno degli obiettivi che si poneva la direttiva 99/70/CE (del cui recepimento è frutto l’attuale normativa italiana), ossia quello di creare un quadro normativo per la prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato.

Tale disposizione continua dunque a prevedere la conversione del rapporto a tempo indeterminato in tutti i casi in cui vi sia una prosecuzione del rapporto dopo il termine inizialmente fissato (superata la soglia temporale dei venti / trenta giorni) ovvero nell’ipotesi in cui venga stipulato un nuovo contratto a termine (anche per una causale diversa dal precedente) prima che sia trascorso un lasso temporale della durata minima di venti giorni (dieci in caso il primo contratto sia di durata inferiore ai sei mesi).

Peraltro, come già rilevato sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza, il rispetto formale dei limiti temporali di “stacco” tra un contratto e l’altro non costituisce di per sé una garanzia di corretto utilizzo della tipologia contrattuale a tempo determinato.

A tale riguardo, è noto come la L. 247/07, in applicazione del c.d. Protocollo Welfare del luglio 2007, abbia introdotto un limite massimo (di 36 mesi, prorogabili solo a limitate condizioni) di durata complessiva dei rapporti a termine presso un medesimo datore di lavoro. Peraltro, anche prima dell’entrata in vigore di tale previsione (inapplicabile al caso di specie), si poteva senz’altro ritenere che una reiterazione di contratti a termine, pur formalmente corretta, mascherasse un uso illecito di tale istituto contrattuale, con conseguente applicabilità della normativa di carattere generale, e segnatamente dell’art. 1344 c.c.: “.. poiché nel nostro ordinamento continua a sussistere la regola che impone di ritenere il contratto di lavoro subordinato, per sua natura, a tempo indeterminato, salvo le eccezione ammesse dal Legislatore, e poiché tale regola è da considerare di natura imperativa …ne consegue la possibilità di invocare anche nel nuovo contesto normativo l’art. 1344 c.c. in presenza di assunzioni a termine che, seppure rispettose del dettato letterale dell’art. 5 D. Lgs. 368/01, si presentino sostanzialmente elusive della norma generale. Solo così si potrà ritenere la nostra normativa antifraudolenta e conforme alla direttiva europea ed al dettato costituzionale”[3].

Nel caso di specie, si è illustrato in ricorso come il ricorrente abbia lavorato per la convenuta per circa quattro anni in forza di cinque contratti a termine (quasi tutti prorogati; senza contare i due anni precedenti in cui ha operato quale “collaboratore coordinato e continuativo”) il che dimostra ampiamente come sia stato fatto un uso indebito, ovverosia finalizzato a sopperire ad una strutturale carenza di organico dell’impresa, di questa forma contrattuale, con conseguente diritto dell’esponente alla conversione del rapporto ed alla riammissione in servizio.

L’applicabilità delle sanzioni previste dall’art. 5 D. Lgs. 368/01

Peraltro, a conclusioni analoghe a quelle sopra formulate, ovvero al riconoscimento del diritto dell’esponente alla riammissione in servizio, si può pervenire anche con un diverso percorso logico.

Si è visto come la riforma del 2008 abbia inciso esclusivamente sulla sanzione applicabile al datore di lavoro in caso di violazione delle disposizioni di cui agli art. 1, 2 e 4 della legge.

Dunque, tale disposizione non modifica le condizioni di legittimità o meno dell’apposizione (e della proroga del termine), ma si limita ad esonerare il datore di lavoro, che abbia un giudizio in corso, dalle conseguenze ordinarie che dalla violazione di tali condizioni dovrebbero discendere.

Dal che però ulteriormente derivare che il contratto stipulato (o prorogato) al di fuori delle condizioni legittimanti lo stesso è e continua ad essere (anche nei giudizi in corso) un contratto affetto da nullità parziale, ossia che contiene una clausola (quella che fissa il termine) priva di alcun valore; quindi, anche una volta scaduto il termine, il rapporto di lavoro tra le parti non può essere considerato come (giuridicamente) risolto, pur in presenza di un’interruzione di fatto della prestazione, conseguente all’estromissione del lavoratore dal suo posto di lavoro.

Ma così ragionando, e sebbene il lavoratore estromesso non possa invocare la sua riammissione in servizio, in virtù della previsione dell’art. 4 bis, si capisce come la stipulazione di un eventuale secondo (o terzo, o quarto) contratto a tempo determinato avvenga in violazione dell’art. 5 del D. Lgs. 368/01.

E’ infatti evidente che quando il legislatore prevede che una nuova assunzione a termine possa avvenire solo dopo che sia decorso un certo periodo dalla scadenza di un precedente contratto, si riferisce ad una scadenza legittima, e dunque produttiva di effetti. Ma se la scadenza apposta al primo contratto tale non era, e se dunque questo si è mai validamente interrotto, il secondo contratto deve considerarsi stipulato in violazione della previsione normativa, e ciò a prescindere dalla sanzione (il risarcimento del danno) immediatamente applicabile in virtù dell’illegittimità del primo contratto.

Quindi, ai sensi dell’art. 5 il secondo contratto deve considerarsi a tempo indeterminato, e pertanto il lavoratore avrà diritto alla riammissione in servizio per effetto dell’interruzione di tale contratto (ovvero di quelli successivamente stipulati) non ricadendo gli stessi nell’ambito di applicazione dell’art. 4 bis.

***

Sotto un diverso profilo, e sempre considerato che il primo contratto, allorché si accerti presentare un vizio che inficia la legittima apposizione del termine, non può considerarsi validamente interrotto, si potrebbe altresì ritenere che il secondo contratto (o, meglio, la prestazione lavorativa resa in esecuzione dello stesso) altro non sia che una protrazione del primo. In buona sostanza, per effetto dell’estromissione del lavoratore a seguito della scadenza del primo contratto, il rapporto di lavoro risulta di fatto sospeso, ma il lavoratore non può (in base alla normativa attuale) richiederne la riattivazione. Se però si dovesse accertare che il rapporto è stato di fatto riattivato dal datore di lavoro, mediante la stipulazione di un nuovo contratto, vi sarebbe in concreto una protrazione del rapporto originariamente instaurato (e mai validamente interrotto, come detto), stante l’impossibilità di considerare il secondo contratto (che sopravviene nel corso di un rapporto di lavoro giuridicamente ancora in essere) come tale da costituire un nuovo e distinto rapporto di lavoro. Se dunque tale prosecuzione del rapporto dovesse protrarsi oltre i limiti stabiliti dall’art. 5 (venti / trenta giorni), ci si troverebbe ancora una volta in presenza di una situazione tale da determinare che il rapporto si debba considerare a tempo indeterminato, e ciò appunto per effetto di quanto previsto dall’art. 5 in caso di protrarsi della prestazione oltre la scadenza iniziale.

In subordine: la rimessione alla Corte Costituzionale

Nel caso in cui si ritenesse invece necessario, malgrado quanto sopra evidenziato, applicare alla fattispecie in esame la disposizione dell’art. 4 bis, risulterebbe inevitabile invocare l’intervento della Corte Costituzionale, posto che la riforma di cui si sta parlando è costituzionalmente illegittima, per contrasto con gli artt. 3, 24, 102, 103, 104 Cost..

Con riferimento al citato art. 3, bisogna ricordare che la riforma, come già si è detto, introduce una modifica sanzionatoria applicabile ratione temporis. In altre parole, la riforma è destinata a operare solo nei confronti delle cause in corso al momento dell’entrata in vigore del provvedimento, mentre nei confronti di ogni altra controversia continua a valere l’apparato sanzionatorio già delineato dalla giurisprudenza sopra descritta.

Per questa via, la nuova sanzione introdotta dalla norma in esame è innanzi tutto più blanda rispetto alla sanzione precedente: evidentemente, un conto è ottenere un indennizzo in una misura compresa tra 2,5 e 6 mensilità, altro è conseguire la ricostituzione del rapporto con il risarcimento integrale del danno subito, con il solo onere di mettere in mora il datore di lavoro. Oltre a ciò, la nuova e più blanda sanzione è destinata a operare nei soli confronti dei lavoratori con cause attualmente in corso; nei confronti di tutti gli altri lavoratori (e, in particolare, nei confronti di coloro i quali intraprenderanno cause in epoca successiva all’entrata in vigore della riforma) continua a operare la precedente e più efficace sanzione.

Ciò evidentemente comporta una disparità di trattamento tra lavoratori. Costoro, pur essendo accomunati dal fatto di aver subito la stipulazione di un contratto a termine illegittimo per violazione degli artt. 1, 2 e 4 D. Lgs. 368/01, vengono diversamente trattati dall’ordinamento, penalizzando chi aveva presentato la domanda giudiziaria prima dell’entrata in vigore del provvedimento (sempre che il procedimento non si fosse già concluso con sentenza passata in giudicato). Come si vede, la distinzione si fonda su un parametro del tutto casuale e niente affatto oggettivo, né in alcun modo ragionevole e meritevole di tutela. Anzi, la distinzione è tanto più irrazionale se si pensa che:

• di fatto, finisce per penalizzare chi ha più meriti e premia chi ne ha di meno: a parità di vizio del contratto a termine, e a parità di data di cessazione del rapporto, il lavoratore più solerte che ha immediatamente impugnato la risoluzione del rapporto è destinato a ottenere una tutela depotenziata rispetto al collega che, meno tempestivo, ha procrastinato l’impugnazione oltre l’entrata in vigore della riforma;

• di fatto, penalizza i lavoratori che hanno cause in corso anche nei confronti di altri lavoratori che, pur avendo promosso contestualmente l’azione, hanno ottenuto in tempi più rapidi la sentenza definitiva, per esempio perché il datore di lavoro non ha coltivato le impugnazioni;

• di fatto, crea rilevanti problemi, soprattutto nei confronti dei lavoratori che, pur non disponendo ancora di una sentenza definitiva, hanno già ottenuto da tempo la ricostituzione del rapporto e il risarcimento del danno e che, per effetto della riforma, rischiano di essere estromessi dal posto di lavoro e di dover restituire gran parte del risarcimento ottenuto;

• crea altri rilevanti problemi nel caso di procedimenti avanti la Corte di cassazione, già decisi ma in attesa di pubblicazione della sentenza.

La segnalata asimmetria contrasta con l’art. 3 Cost. che, com’è noto, impone di trattare in maniera identica situazioni identiche, consentendo differenti trattamenti solo a condizione che gli stessi dipendano da una ragionevole giustificazione, e sempre che questa sia proporzionata alla disparità di trattamento[4]. Al contrario, nel caso di specie la stessa situazione viene dalla norma differentemente sanzionata, a seconda della data di attivazione del relativo procedimento, senza che una qualsiasi ragionevole giustificazione possa in qualche modo legittimare l’asimmetria.

Se non bastasse quanto detto fin qui, si consideri anche che la norma è costituzionalmente illegittima per contrasto con l’art. 24 Cost.. Com’è noto, la norma da ultimo richiamata riconosce la più ampia libertà di agire in giudizio “per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi”. Coerentemente con la norma costituzionale da ultimo indicata, il lavoratore che, prima della riforma di cui si parla, aveva giudizialmente impugnato il recesso da un rapporto illegittimamente a termine, agiva per il perseguimento di un preciso diritto, ovvero la ricostituzione del rapporto e il risarcimento del danno (ovviamente, con l’unica condizione che la domanda trovasse accoglimento). Invece, per effetto della riforma, quel lavoratore, per il semplice fatto di aver agito prima della riforma e senza ottenere nel frattempo una sentenza definitiva, è costretto a proseguire il processo in vista di un diritto non solo diverso, ma anche più tenue rispetto a quello originariamente prospettabile.

Ciò evidentemente compromette la libertà ex art. 24 Cost., giacché il contenuto dell’azione si trasforma in corso d’opera e il lavoratore non ha più accesso al diritto che, originariamente, l’ordinamento gli riconosceva e in vista del quale egli aveva agito. Viene pertanto violato il principio secondo cui il diritto di difesa tende allo “scopo di conoscere i propri diritti e le possibilità offerte dall’ordinamento per tutelarli”[5], con conseguente illegittimità della retroattività di una legge che violi aspetti “quali i principi generali di ragionevolezza e di uguaglianza, quello della tutela dell’affidamento legittimamente posto sulla certezza dell’ordinamento giuridico, e quello del rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario (ciò che vieta di intervenire per annullare gli effetti del giudicato o di incidere intenzionalmente su concrete fattispecie sub iudice)”[6].

Infine, la norma viola gli artt. 102 e 104 Cost., dal momento che, incidendo sui giudizi in corso, lede il libero e neutrale esercizio della funzione giurisdizionale.

Prima di concludere, conviene ancora ricordare che le questioni di illegittimità costituzionale sopra prospettate sono già state esaminate dalla Corte costituzionale con riferimento all’art. 9 c. 21 D. Lgs. 510/96 (la norma vieta la trasformazione a tempo indeterminato dei contratti a termine stipulati dalle Poste Italiane in data anteriore al 30/6/97). In quell’occasione, la Corte[7] aveva escluso l’illegittimità costituzionale; tuttavia, gli stessi principi che allora avevano indotto la Corte a concludere nel senso indicato devono portare, nel caso di specie, alla conclusione opposta:

• con particolare riferimento alla dedotta violazione dell’art. 3, la Corte aveva escluso l’illegittimità costituzionale, in quanto la disparità non era irragionevole. Infatti, a quel tempo nelle Poste si era ancora in fase di passaggio dal rapporto pubblico all’impiego privato, ed è noto che nel primo settore i contratti a termine illegittimi non sono convertibili a tempo indeterminato. Tuttavia, nel caso di specie la riforma riguarda in generale il settore privato strettamente inteso e non solo i dipendenti delle Poste, e anche con riguardo a questi si deve ritenere che il passaggio alla disciplina dell’impiego privato si sia ormai cristallizzato, con la conseguenza che in questo caso la disparità di trattamento è davvero irragionevole;

• con particolare riferimento agli artt. 102 e 104 Cost., la Corte aveva escluso l’illegittimità costituzionale, osservando che la norma non incideva sui processi in corso in quanto tali, ma prevedeva, transitoriamente, una sottospecie di contratti a termine sottoposti alla disciplina del rapporto pubblico, pur essendosi nel frattempo il rapporto trasformato in rapporto di diritto privato. In altre parole, i contratti a termine del pubblico impiego stipulati prima del 30/6/97 erano soggetti alla stessa disciplina sostanziale, sebbene il rapporto fosse stato successivamente trasformato da pubblico a privato. Nel caso di specie, invece e ancora una volta, la distinzione riguarda esclusivamente i lavoratori del settore privato, e l’unica discriminante è quella temporale già indicata pur a parità di vizio sostanziale del contratto; pertanto, in questo caso il condizionamento del libero esercizio della funzione giurisdizionale è evidente.

Per i motivi sopra illustrati, il ricorrente:

- in via principale, insiste per l’accoglimento delle conclusioni formulate in ricorso;

- in subordine, qualora la questione venga considerata rilevante ai fini della decisione della presente causa, e ritenuta la prospettata questione di legittimità costituzionale non manifestamente infondata, chiede che il Giudice voglia rimettere alla Corte costituzionale la questione di legittimità costituzionale dell’art. 21 c. 1 bis DL 112/08, convertito con modificazioni dalla L. 133/08 (nella parte in cui, inserendo l’4 bis D. Lgs. 368/01, a parità di condizioni introduce – nel caso di risoluzione del rapporto illegittimamente a termine per violazione degli artt. 1, 2 e 4 D. Lgs. 368/01 – una sanzione diversa e deteriore nel caso di azione giudiziale esperita prima dell’entrata in vigore del citato DL 112/08, sempre che nel frattempo non sia intervenuta una sentenza definitiva, rispetto alla sanzione applicabile nel caso di azione giudiziale intrapresa in un momento successivo) per contrasto con gli artt. 3, 24, 102 e 104 Cost..

Milano, 20 settembre 2008

Mario Fezzi, Avv. in Milano

Commenti (1)

Il mio contratto

Salve a tutti!Ho letto con molta attenzione l'articolo e avrei bisogno di chiedere qualche chiarimento:avevo un contratto iniziato il 05/05/2008 con scadenza 04/11/2008, in data 22/10/2008 mi viene recapitata una lettera di proroga pertanto il mio contratto è scaduto in data 19/12/2008.Nel mio caso si può applicare l'art.5?Vi ringrazio sin d'ora x la disponibilità!Emilia

(2 Aprile 2009)

Emilia Annicchiarico

einvito@virgilio.it

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