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Terroristi e Stato terrorista

(2 Gennaio 2009)

Difficilmente potremo sapere se prima di essere disintegrato nell’abitazione dov’era voluto rimanere (coerenza o esasperazione del martirio?) Nizar Rayan, 49 anni una delle figure carismatiche di Hamas, sia stato avvertito con una telefonata che una tonnellata d’esplosivo gli sarebbe di lì a poco piovuta addosso. La notizia la diffondono le Forze di Difesa Israeliane e potrebbe essere una delle varie bombe mediatiche che Gerusalemme affianca a quelle lanciate dagli F 16 sulle teste dei gazioti, le cui morti aumentano: 430 mentre scriviamo con oltre 2.200 feriti. Una chiamata per indurlo a sloggiare e magari restare falciato dagli altri mirini elettronici dell’aviazione che la comunicazione israeliana ha gaglioffamente esaltato ieri col video su You Tube. La morte dello sceicco, famoso oratore e agitatore di folle oltre che trait d’union fra componente politica e militare di Hamas, conferma come il disegno del governo Olmert sia quello di disarticolare quest’organizzazione eliminandone l’attuale leadership e fiaccandone ogni possibilità di resistenza.

Con quello che ha potuto, anche coi discutibili attentati suicidi, Hamas si è in questi anni opposta alla frantumazione degli stessi umilianti Accordi di Oslo, che avevano seppellito il progetto d’uno stato palestinese e accettavano i due territori di Cisgiordania e Gaza trasformatisi in regioni-prigione poste sotto la giurisdizione di Tashal e assediate da un numero crescente e incontrollato di nuovi insediamenti di coloni. E’ la grande beffa con cui la componente di Fatah maggioritaria nell’Olp, trasformatisi in Autorità Nazionale Palestinese ha inesorabilmente diretto una real politik che se superava la condizione di perenne conflitto col nemico israeliano si subordinava alla linea di quest’ultimo, sempre sostenuto dagli Usa e da nuovi soggetti come l’Ue. Tutto ciò in cambio di finanziamenti della comunità internazionale e del crescente potere interno di Fatah che gradualmente s’è trasformato per il capo storico Arafat in una leadership personalistica che non scontentava il moderatismo de capitalista di vari paesi arabi alleati della politica statunitense in Medio Oriente, e per parecchi uomini della fazione in carriere, arricchimenti e addirittura prossimità con simboli inquietanti come la Cia (è il caso del chiacchieratissimo responsabile dei Servizi Dahlan).

Certo con la seconda Intifada e la creazione del Muro i palestinesi di Cisgiordania hanno toccato con mano il bluff di Oslo e la totale perdita d’una possibilità d’autogestione degli stessi luoghi assegnati dalla via delle trattative. Privati d’una patria venivano usurpati delle loro case sequestrate o abbattute dal mai ritirato esercito israeliano pronto a umiliarli quotidianamente col giogo dei check point. Il popolo restava profugo nel suo territorio e isolato dal mondo, visto che nessun palestinese normale e povero può ufficialmente uscire da Gaza e dalla Cisgiordania. E proprio negli anni Ottanta e Novanta Hamas andava a occupare quel desiderio di opporsi al cupio dissolvi che la diplomazia del capo carismatico affermava anno dopo anno. Arafat nel suo calcolo politico non escluse strizzatine d’occhio all’integralismo quand’egli tatticamente lanciava gli strali contro la sinistra dell’Olp. Costituita prevalentemente dal Fplp di George Habash (scomparso un anno fa nell’esilio di Amman ma uscito dall’agone politico già dal 1992 affossato da un ictus) e dal Fronte democratico di liberazione che su basi marxiste proponevano più che una guerra para nazionalista, un conflitto di classe per la nascita d’uno stato anticapitalista.

Una soluzione che si contrapponeva alla concezione sionista dello Stato e al nazionalismo arabo, come quello della monarchia giordana, che per propri interessi mal sopportava il desiderio del ritorno dei palestinesi in un loro territorio. Posizioni oggi minoritarie nell’area di chi s’oppone alla svendita della questione palestinese perché subirono ostracismo ed emarginazione dentro l’Olp a favore del laicismo pragmatico di Fatah finito, trattativa dopo trattativa, a rinunciare a quella battaglia di popolo simbolo dell’Olp. E’ chiaro che un simile disegno si legava a un quadro internazionale col tempo venuto meno, dal crescente opportunismo dell’Egitto e di altri importanti soggetti del mondo arabo ben distanti dal progressismo nasseriano, allo stesso terzomondismo quasi scomparso, a un’internazionalismo che fino ai primi anni Settanta avvicinava fra loro i movimenti di liberazione dall’imperialismo mondiale. E come in Iran l’antimericanismo fu sostenuto dalla rivolta degli ayatollah, trasformatesi certo in nuovi totalitarismi, anche annose questioni come il diritto a una terra per i palestinesi ha visto componenti islamiste farsi spazio e trovare riconoscimenti popolari, com’è accaduto ad Hamas all’epoca della prima Intifada. Pur su posizioni fondamentaliste lontane da visioni laiche e marxiste Hamas prosegue, come le citate componenti minoritare di quella che fu l’Olp, la difesa d’un popolo diseredato e perseguitato.

La caccia che Israele pratica ai suoi capi è funzionale al proseguimento d’una guerra infinita finalizzata a un lento genocidio. Altri uomini sostituiranno Rayan, anzi Hamas ha già annunciato i “giorni della rabbia”. Non riusciamo a vedere perché Rayan fosse un terrorista e Barak che ne ha ordinato l’omicidio non lo sia. Purtroppo Israele nel suo ruolo di Stato - piccolo, assediato ma potentissimo e armatissimo - è molto più responsabile di chiunque altro del sangue che si sparge da decenni in Medio Oriente.

3 gennaio 2009

Enrico Campofreda

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