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Mitchell, prova del fuoco in Medioriente

(31 Gennaio 2009)

Mentre qualche altro razzo viene sparato a Gaza fra pattuglie di Tsahal e palestinesi stavolta di Fatah, l’uomo di Obama, George Mitchell, prosegue la sua missione esplorativa e ieri ha provato a ridare credito ad Abu Mazen con un incontro a Ramallah. Atto dovuto come ogni altro incontro di questi giorni ma per capire se nel piccolo martoriato Medioriente palestinese una tregua sarà possibile e quale politica attuare rispetto al grande Medioriente che arriva fino al Golfo Persico, il lavoro di Mitchell dovrà durare non settimane ma mesi. Intanto nell’oriente mediterraneo la prassi stragista procura nuovi problemi ad Israele, già preoccupato per il recente avvicinamento di due suoi nemici storici come Siria e Libano. L’incidente diplomatico avvenuto a Davos, in occasione del summit economico internazionale, fra il premier turco Erdogan e il presidente Peres ruotava proprio attorno all’aggressione israeliana a Gaza, una politica che fa collezionare avversioni un po’ ovunque. Le elezioni del 10 febbraio che non muteranno le linee strategiche d’Israele verso la questione palestinese dovrebbero porre se non gli elettori, almeno la classe dirigente di fronte al dilemma delle prospettive del quadro micro e macro regionale.

Prendiamo a simbolo dell’infiammata crisi israelo-palestinese i concetti contrapposti presenti nelle interviste raccolte dall’ultimo numero della rivista Limes. Dice in un passo del suo discorso l’israeliano Dani Yatom già capo del Mossad “Israele non può raggiungere un accordo con chi non è disposto a riconoscerlo e non capisce che lo stato ebraico è un fatto incancellabile. Questo è un lavoro in cui Israele non può sostituirsi ai palestinesi. Sono loro che debbono arrivare a quella maturità. Quanto a Israele, nell’opinione pubblica e nella classe politica, è passato il principio ‘due Stati per due popoli’. Gerusalemme ha espresso l’assenso a un ritiro dai Territori occupati. Lo ha dimostrato con il ritiro dalla Striscia di Gaza (quello del 2005, non quello dopo ‘Piombo fuso’, ndr)”. E ancora “Hamas è un’organizzazione terroristica una volta salita al potere a Gaza ha messo sotto tiro centinaia di migliaia di cittadini israeliani e li ha mantenuti in ostaggio del suo terrore che aveva un nome, cognome e indirizzo: il governo di Gaza. Se Israele può rimproverarsi qualcosa, è di avere aspettato anni prima di reagire contro questa organizzazione fanatica”.

Invece Ahmad Yu¯sif, dirigente di Hamas (uno degli “americani” dell’organizzazione islamista che ha studiato per vent’anni negli States e che potrà avere contatti, questo ha stabilito la struttura con l’entourage di Obama) afferma “Il nostro obiettivo è costituire uno Stato di Palestina indipendente sui territori occupati da Israele nel 1967. Nulla di più, nulla di meno. Tutto questo non ha niente a che vedere con la jihad ma chiama in causa la legalità internazionale sistematicamente violata da Israele. Abbiamo ribadito che Hamas è disposto a sottoscrivere una tregua di lunga durata. Chiediamo lo stop alla colonizzazione ebraica dei Territori e alla costruzione del Muro dell’apartheid in Cisgiordania, la liberazione di palestinesi prigionieri in Israele. Se gli israeliani pensano di poter sconfiggere la resistenza palestinese s’illudono. Noi non alzeremo mai bandiera bianca. Quella scatenata da Israele non è una guerra. E’ Terrorismo di Stato”. Posizioni note, assolutamente nulla di nuovo. Il discorso prossimo venturo secondo chi cerca di mettere in atto un tavolo di trattative non è quello di rendere concilianti punti tanto distanti ma vedere quale futuro concreto si prospetta all’orizzonte visto che alcuni progetti sono naufragati.

Sarebbe cecità assoluta ripuntare su una pseudo Palestina quale eredità tardo-arafatiana gestita da personaggi alla Abu Mazen o Dahlan. Anche fuori dalle loro bruciatissime figure molti altri dirigenti dell’Anp, struttura che assume sempre più connotati burocratico-occidentali, godono d’uno scarsissimo credito popolare. Rappresentano ormai una politica paraisraeliana che, sull’onda del riconoscimento internazionale realizzato da Arafat in cambio degli Accordi di Oslo, ha spianato la strada al decennio tragico dentro il quale c’è stata la seconda Intifada e la frantumazione di quel simulacro di Stato palestinese che gli Accordi stessi decretavano. Questa politica ha rafforzato Hamas rimasta, insieme ai minoritari storici dell’Olp del Fplp e Fdlp, unica forza d’una resistenza che rigetta il cedimento e l’umiliazione del popolo. Proprio la politica israeliana dello sterminio mirato verso militanti e verso la popolazione (prima dei milletrecentocinquanta di Gaza sono stati uccisi quattromilacinquecento palestinesi in otto anni) rende difficile lo stesso progetto dei ”due Stati per due popoli” semplicemente perché i palestinesi non hanno uno Stato bensì la prigione a cielo aperto di Gaza e il Territorio gruviera costellato d’insediamenti sempre crescenti di coloni, tagliato dal Muro e imbarbarito dall’apartheid che comincia a riversarsi anche sugli arabo-israeliani di Galilea.

Di fatto esiste un solo Stato, Israele, nel quale l’etnia ebraica resterà maggioritaria ancora per poco. La bomba demografica araba incombe e preoccupa più di ogni armamento nucleare iraniano, rendendo sempre più schizofrenici e aggressivi i comportamenti dei governanti israeliani. E allora se non diventa praticabile la proposta saudita (che i moderati tattici di Hamas alla Haniya accetterebbero e nelle quali sono riposte le speranze sia di Fatah sia della diplomazia araba filoccidentale), una proposta per niente nuova datata 2002 e rilanciata a Riyad nel 2007, che prevede il ritiro d’Israele entro i confini del 1967, la creazione d’uno Stato palestinese con capitale a Gerusalemme est e la soluzione dei profughi, resta aperta la via del contrasto esasperato a sfondo militare e militante-religioso. Quello esaltato non da Hamas che è componente politica che punta a rappresentare e governare, dunque anche a trattare e patteggiare nonostante la disinformazione operata da troppi media, ma dalle componenti jihadiste ormai presenti nei Territori. E poco importa se siano strutture autoctone o diffuse da Iran, Afghanistan o altro. A esse fanno da contraltare del fanatismo ebraico formazioni come Gush Emunim, il braccio armato dei coloni con solidi legami con la destra del Likud.

Il duro lavoro diplomatico deve prevedere lo scandaglio di nuovi percorsi. Quello di Mitchell dovrebbe partire dall’azzeramento della politica destabilizzante introdotta dalla gestione Bush nel grande e nel piccolo Medioriente che ha criminalizzato un conflitto intricatissimo cercandone di nuovi.

30 gennaio 2009

Enrico Campofreda

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