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Alfa di Pomigliano: il punto della situazione

(23 Marzo 2009)

Dal prossimo lunedì scatta di nuovo la cassa integrazione per gli operai dell’Alfa di Pomigliano. Il nuovo periodo di cassa dovrebbe durare fino al 20 aprile, ma dall’andamento delle vendite dei modelli prodotti a Pomigliano, l’alfa 147 e la 159, che non usufruiscono degli incentivi statali, nulla fa escludere che il periodo di allontanamento forzato dalla fabbrica duri molto di più, magari interrotto da qualche settimana di ripresa produttiva. La situazione degli operai di Pomigliano si fa perciò sempre più pesante e sempre più chiaramente si delinea agli occhi di tutti la prospettiva della chiusura dello stabilimento che porterà al licenziamento, fra Alfa, indotto ed FMA, di quasi ventimila operai.

Le strategie e le forme di lotta messe in campo finora dalle organizzazioni sindacali contro il rischio sempre più concreto dei licenziamenti di massa sono a dir poco inadeguate e si dimostrano immancabilmente subalterne all’iniziativa aziendale.

L’atteggiamento della Fiat è chiaro. Apparentemente sembra che stia navigando a vista, decidendo via via in base all’andamento del mercato. In realtà Marchionne sa benissimo, e lo ha anche esplicitamente dichiarato, che la situazione della fabbrica di Pomigliano è ormai già drammaticamente compromessa. La crisi impone un ridimensionamento delle capacità produttive e l’Alfa è in questo momento l’anello più debole di tutti gli stabilimenti Fiat, sia perché in esso si producono auto di cilindrata medio-alta, appartenenti cioè al segmento di mercato in cui la Fiat è meno competitiva, sia perché i modelli in produzione attualmente a Pomigliano sono vecchi ed il lancio di nuovi modelli richiederebbe una mole di investimenti che la Fiat in questi tempi non ha nessuna intenzione di fare, prova ne è la sospensione immediata, al primo scoppiare della crisi finanziaria, della messa in produzione dei nuovi modelli già messi in cantiere, come l’alfa 149, che dovrebbe essere prodotta a Cassino. La Fiat sa benissimo però che l’annuncio della chiusura di Pomigliano provocherebbe un pericoloso innalzamento della conflittualità operaia, rischiando di compromettere anche l’andamento della produzione negli stabilimenti che temporaneamente stanno godendo degli effetti degli incentivi statali, come Melfi. In questo senso, il padrone ha tratto lezione dall’esperienza di lotta degli operai di Termini Imerese, che contro la chiusura dello stabilimento arrivarono a bloccare per tre giorni la produzione della Sata di Melfi. Meglio per l’azienda allora prender tempo e approfittare della possibilità offerta dalla cassa integrazione ordinaria.

Tanto più che all’interno dell’Alfa di Pomigliano, nel reparto dello stampaggio, si lavorano pezzi importanti anche per la Sevel di Castel di Sangro, la cui produzione dipende a tal punto da Pomigliano che in occasione del blocco delle merci effettuato a maggio scorso dagli operai deportati nel reparto confino di Nola, la Fiat si servì di un elicottero per aggirare il blocco. Meglio allora tenere il più possibile tranquilli gli operai per garantire a Pomigliano la produzione essenziale alla Sevel, attrezzandosi nel frattempo a trasferire in tutta tranquillità e con il silenzio complice del sindacato queste produzioni in luoghi più sicuri. Non sono queste fantasie nostre, dato che, purtroppo, già due macchine dello stampaggio sono uscite, con la scusa che erano vecchie e senza che il sindacato abbia detto nulla al riguardo. Sicuramente la Fiat sa che più passa il tempo e più il malumore operaio si farà sentire, ma conta sulla capacità del sindacato di incanalare la protesta in un solco che non solo non arrechi danni all’azienda, ma che addirittura spinga lo stato ad elargire ulteriori contributi finanziari. Ed è esattamente quello che sta facendo il sindacato.

Malgrado le settimane di cassa si siano accumulate, i sindacalisti hanno scelto forme di lotta “morbide”. Il presidio alla Rai, la presenza a Sanremo, la manifestazione cittadina, l’andata dal papa. Si è arrivati a sostenere addirittura il picco produttivo di Melfi, concordando con l’azienda il trasferimento di 350 operai precari da Pomigliano a Melfi. L’unico accenno di lotta un po’ più dura, il blocco dell’autostrada, è stato duramente represso dalla polizia, senza nessuna seria reazione successiva del sindacato, a parte qualche lamentoso comunicato di protesta.

Nel frattempo i sindacalisti, compresi sia l’area più combattiva dei delegati Fiom sia ciò che resta, dopo l’ondata dei licenziamenti e dei trasferimenti a Nola, dei sindacatini “alternativi”, ha permesso che la produzione dello stampaggio continuasse indisturbata, rinunziando così a colpire l’azienda nell’unico punto che l’avrebbe costretta a trattare d’urgenza. Né le ultime provocazioni aziendali, con la messa in libertà degli operai negli ultimi giorni, hanno suscitato un ripensamento dell’area più combattiva del sindacato di fabbrica, limitandosi, per smaltire la rabbia operaia, alla proclamazione di uno sciopero simbolico di un’ora a fine turno, sciopero che è immancabilmente fallito, fornendo così un alibi alla sinistra sindacale, pronta ad incolpare dei suoi fallimenti e delle sue debolezze la massa degli operai.

Le stesse iniziative annunciate per lunedì e martedì prossimo, con lo sciopero allo stampaggio, non segnano un mutamento di rotta. In primo luogo perché scopo annunciato dello sciopero è il presidio alla prefettura per ottenere un intervento di Berlusconi per l’apertura di una trattativa con l’azienda per nuove “missioni produttive” dello stabilimento. In pratica, ci si muove sempre nell’ottica che è possibile risolvere i problemi degli operai solo se si risolve prioritariamente quelli del padrone. L’Alfa non dovrebbe essere chiusa non in virtù della forza della lotta operaia, capace di infliggere danni maggiori dei vantaggi che la Fiat ne ricaverebbe con la chiusura, per cui diventerebbe un problema dell’azienda decidere che cosa far produrre a questi operai irriducibili. Pomigliano, invece, dovrebbe restare in attività grazie ad una ritrovata economicità dello stabilimento, mediante fantasiose invenzioni di nuovi modelli ed un consistente aiuto dello stato. Queste fantasie, visto l’andamento della crisi, riusciranno al massimo solo ad allungare l’agonia della fabbrica, che subirebbe da subito un grosso ridimensionamento in cambio di tanti soldi alla Fiat.

Lo scambio che si propone a Marchionne è semplice: meno licenziamenti in cambio di più aiuti economici. Sembra di rivivere la storia dell’Italsider di Bagnoli di venti anni fa. Prima di chiuderla e per chiuderla, sindacati e padroni si inventarono la favola del polo nazionale della banda stagnata. Tanti soldi investiti, ma del “polo” non se ne fece niente e gli operai, mandati a casa non rientrarono più in fabbrica.

Certo erano altri i tempi e per gli operai ci fu una pioggia di prepensionamenti, come era più facile allo stato elargire soldi per i padroni. Per l’Alfa oggi la situazione è più complicata: una età media bassa degli operai, per cui solo una minoranza può andare in pensione al termine del periodo di mobilità e una debito pubblico che condiziona pesantemente la capacità statale di foraggiare i padroni.

Resta però il fatto che l’intero fronte sindacale, inclusi anche i sindacatini più arrabbiati, è su questa linea, appoggiati in questo dai soliti politici locali, vedi l’annunciata intenzione di Bassolino di finanziare i progetti della Elasis, il centro di ricerca di nuovi motori della Fiat, che ha sede proprio a Pomigliano.

L’altro motivo che ci dimostra come siamo ancora lontani da un mutamento di atteggiamento da parte della sinistra sindacale è il fatto che la lotta allo stampaggio per adesso è solo temporanea ed in futuro, dato che si parla di un inizio di blocco delle merci, rischia di essere solo simbolica, se nel frattempo si permette il parziale smantellamento del reparto. Se davvero si vuole pensare di colpire la Fiat, da subito si deve organizzare oltre al blocco delle merci, un presidio della fabbrica per impedire il trasferimento di altri macchinari, nella speranza che quelli finora trasferiti non siano già sufficienti all’azienda per rifornire Castel di Sangro. Evitare l’allontanamento dalla fabbrica degli operai, organizzando picchetti fuori a tutti i cancelli per impedire che la Fiat agisca indisturbata. Questa doveva e dovrebbe essere la prima preoccupazione di chi ha intenzione veramente di organizzare una lotta seria. Finora, invece, i sindacati hanno accettato di buon grado l’intervento della Regione, che per integrare con poco più di 200 euro mensili il reddito degli operai in cassa integrazione, ha organizzato dei corsi di formazione in sedi lontane dallo stabilimento. Il gioco qui è palese. Calmare la rabbia operaia, evitando scoppi di rivolta improvvisi di chi è spinto alla miseria con 700 euro al mese e al tempo stesso evitare che questa rabbia renda impraticabile il piano aziendale di smantellamento, costringendo gli operai ad allontanarsi da Pomigliano.

Non è un caso che la Fiat si sia rifiutata di richiedere in prima persona l’avvio dei corsi, perché in quel caso essi si sarebbero tenuti all’interno dello stabilimento.

E’ indicativo anche il fatto che per ottenerli la Fiat avrebbe dovuto presentare un piano di rilancio industriale, cosa che non ha voluto fare, rivelando chiaramente quali sono le sue intenzioni future. La subalternità del sindacato su questo punto è davvero sconcertante. Dopo più di un anno di “formazione” svolto nell’ambito del famigerato piano “Marchionne”, si accettano supinamente altri inutili percorsi di formazione, si tace sul fatto che in questo modo più del 40% dei fondi stanziati andranno non agli operai ma alle agenzie di formazione e, soprattutto, non si pretende che gli operai svolgano i corsi in azienda.

Nei prossimi mesi il conflitto è destinato ad aggravarsi e sempre più sarà difficile controllare la rabbia operaia. Manca però finora l’individuazione di un gruppo di operai, che, consapevole della gravità della situazione, sia capace di organizzare adeguatamente la lotta, né c’è molto da aspettarsi dai sindacati alternativi, subalterni ai sindacati confederali ed interessati solo a difendere la propria parrocchia. Basti pensare all’ultima dello Slai, che nel comunicato stampa fatto in occasione della sentenza di reintegro di tre operai, inclusi fra gli undici licenziati in occasione delle assemblee sindacali del 2006, non ha accennato minimamente alla scandalosa sentenza precedente, che su otto operai licenziati ne ha reintegrato inspiegabilmente solo sette, confermando il licenziamento unicamente di Mimmo Mignano, un vero regalo fatto all’azienda.

22/03/2009

La Sezione AsLO di Napoli

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