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(12 Aprile 2009)
Crack, recessione, mercati fuori controllo, tagli, licenziamenti: sono questi i termini che ritornano ossessivamente dai giornali e dalle televisioni, frammenti di un discorso sulla crisi. Chi pretende di governare, chi per anni ha sostenuto di avere gli strumenti teorici e pratici per garantire il “Nuovo Ordine Mondiale” del capitalismo post 1989, adesso brancola nel buio, e scarica sulle classi subalterne i costi spaventosi di un modo di produzione basato su sfruttamento, devastazione, oppressione. Ma in risposta a questa economia solo apparentemente “impazzita”, vediamo sorgere in tutto il mondo movimenti sociali che chiedono a gran voce un cambiamento radicale.
London Calling. Il 1° aprile i “20 Grandi della Terra” si sono riuniti nella capitale inglese per pianificare, nonostante i loro contrastanti interessi, una strategia comune per sostenere le banche, rimettere liquidità in circolo, tentare di sollevare PIL in calo ovunque. Ma a riunirsi nella City c’è anche un nuovo movimento, che sfonda i cordoni della polizia, assalta le banca simbolo del disastro, stende un enorme striscione con su scritto: SMASH CAPITALISM! Ecco “la chiamata” che viene da Londra. La polizia, chiaramente, non sta a guardare: carica, accerchia, rinchiude i manifestanti. E ne pesta uno, causandone la morte, nel vergognoso silenzio dei media, nella disinformazione provocata ad arte.
No NATO? No party! Il giorno dopo iniziano le proteste contro le celebrazioni dei 60 anni della NATO. Un primo corteo non autorizzato sfila per la città: 2000 compagni, determinati a contestare l'Alleanza Atlantica che da decenni semina morte e distruzione in tutto il mondo, vengono caricati: più di 300 fermi nel giro di poche ore. Il giorno dopo 30.000 persone scendono in piazza, attaccano obbiettivi simbolici, rendono difficile lo svolgimento del Summit... La polizia franco-tedesca continua a sparare proiettili di gomma e gas lacrimogeni, mentre la sfilata di politici, economisti, generali, condita dai flash e dal plauso dei media, va avanti... ma ormai la festa è rovinata.
Tifiamo rivolta. Le recenti mobilitazioni hanno dunque dimostrato che si va formando una vasta, seppur ancora molto eterogenea, opposizione dal basso; una massa priva di esperienza politica, in marcia dalle banlieue europee, spesso estranea al sindacato o a gruppi organizzati, e ciononostante interna al meccanismo della produzione. Frange proletarizzate, proletarie o sottoproletarie che non esitano a ricorrere a forme decise di protesta, e che in questi vertici internazionali non identificano solo degli “appuntamenti” per ostentare un dissenso ideologico alle politiche neoliberiste, ma un'occasione per far irrompere sulla scena il loro malcontento e nuove forme di autorganizzazione. Un malcontento che potrebbe presto radicarsi sui luoghi di lavoro e nei quartieri.
Io non ho paura. Che abbiano contestato la gestione economica della crisi (con le conseguenti politiche di attacco ai salari e diritti, di compressione delle spese sociali, di mercificazione di ogni spazio pubblico, di ulteriore concentrazione monopolistica e di distruzione dell'ambiente...) o quella militare (con l'investimento bellico, l'apertura forzata di nuovi mercati, il controllo geopolitico e l'accesso alle risorse energetiche, l'attacco ai movimenti di liberazione nazionale...), Londra e Strasburgo non sono mai state così vicine: la rabbia che hanno espresso è frutto dello stesso sistema avvelenato. E i nostri nemici lo sanno bene: per questo la “controrivoluzione preventiva” ha lasciato dietro di sé un morto, centinaia di feriti, centinaia di arresti. Se la repressione è un dispositivo sempre attivo, che ha un carattere strategico e permanente, il ricorso all'emergenza ed alla sospensione dello “Stato di Diritto” non a caso è sempre più frequente, indice di una paura e incapacità di governare - in termini di consenso e ordine pubblico - i contraccolpi della crisi. Ci vogliono fare paura, ci vogliono dividere, prima che ci venga la malsana idea che si può osare combattere e osare vincere.
Chi è dentro e dentro... e chi è fuori? Ciò che da vent'anni è in atto è una gigantesca ridefinizione degli spazi di inclusione ed esclusione, che si riverbera nei diversi ambiti della vita sociale. Se infatti legittimità politica è concessa solo a chi accetta le “regole del mercato” (e dunque chiunque lotti per la trasformazione dell'esistente deve essere processato o deriso), tante altre forme di riconoscimento, in termini di diritti e di visibilità, vengono direttamente negate. Si pensi ai milioni di migranti in fuga dalle loro terre per la mera sopravvivenza: a loro è negato tutto, anche la compassione per le “tragedie del mare”... che non fanno notizia. Anche qui siamo di fronte ad una “delimitazione del campo” che è funzionale agli interessi economici della borghesia internazionale: attraverso severi regolamenti, quote di accesso, espulsioni, si tratta di rendere i migranti ricattabili e dunque più sfruttabili ancora.
Le forze dell'ordine e gli eserciti lavorano assieme per difendere il fronte esterno e mantenere “ordinato” e “pulito” quello interno (si pensi alla missione Frontex, che prevede il pattugliamento dei confini UE, o ai progetti di militarizzazione urbana portati avanti proprio dalla NATO). È così che nelle nostre metropoli i meccanismi di repressione, controllo e disciplinamento si generalizzano: l'obbiettivo è scomporre la classe, lasciare ognuno a sé stesso. Dal punto di vista architettonico ed urbanistico si frammentano i luoghi di incontro: le fabbriche si segmentano sul territorio e si moltiplicano i reparti-confino dove esiliare gli “irrequieti”, i call center sono disseminati in piccole unità, i campus universitari vengono scientemente pensati per favorire la competitività e impedire eventuali occupazioni ed espressioni di dissenso, mentre badge magnetici e accessi personali alle reti digitali rendono tutti immediatamente rintracciabili). Si generalizza ovunque l'uso di telecamere e servizi di vigilanza privata, l'esercito presenzia le città. Soffiando sulla presunta minaccia “terrorista”, insistendo sulla necessità della “sicurezza”, si stimolano pratiche di denuncia e repressione dal basso. “Dentro” la fortezza Europa chi disturba deve essere fatto “fuori”: in Grecia, in Catalogna, nei Paesi Baschi, dall'Est Europa fin nel cuore di Parigi.
Vogliamo i colonnelli. In Italia questa strategia complessiva si declina in una deriva autoritaria che non è il semplice prodotto di una serie di soluzioni volta per volta, ma il frutto di un'azione organica. Il governo, i padroni, i loro apparati ideologici e mass mediatici, tentano di anticipare i possibili conflitti: nel breve periodo, la crisi deve essere gestita nell'ottica di una limitazione del danno (è impensabile infatti che non vi siano conflitti), vincendo però sul medio e lungo termine, sul progetto politico complessivo, impedendo una significativa unione delle lotte, una loro crescita. I passaggi di questa strategia sono ormai chiari: richiesta di maggiori poteri, minacce agli organi di stampa, denunce e processi, linciaggi (mediatici e non) a fronte di movimenti praticamente inermi, incentivi espliciti a quelle forze che compiono una repressione dal basso (ronde padane e bande fasciste).
Nello specifico del confronto capitale/lavoro è stato varato un provvedimento antisciopero che non solo impedisce il conflitto in un settore strategico come i trasporti, ma penalizza fortemente ogni manifestazione che interrompa la mobilità (blocchi stradali, ferroviari etc.) e si prepara a destrutturare la rappresentatività sindacale per distruggere il crescente sindacalismo di base. Gli stessi che fino ad oggi hanno lavorato alla divisione dei sindacati confederali per imporre la modifica della contrattazione collettiva, marginalizzando la CGIL e firmando accordi separati, vogliono ora recuperarla al suo ruolo di garante del controllo sindacale. Cosa a cui peraltro la CGIL si offre: e infatti davanti a due milioni di persone scese in piazza contro la crisi apre a destra verso il governo e la CISL-UIL, fra i fischi della base. Ma ovunque sorgono inedite forme di autorganizzazione sul posto di lavoro, che esprimono tutta le potenzialità del conflitto sociale, dalla lotta di Origgio (Varese) a quella dei precari Atesia (Roma), da quella degli operai della INNSE (Milano) alla vittoriosa battaglia dei lavoratori della Omnia (Milano).
Se si generalizza il valore di queste esperienze, e lo si collega con le valutazioni UE circa il fatto che l'Italia rappresenta uno degli anelli deboli della catena imperialista europea e con il fatto che gli effetti della crisi si sconteranno solo nei mesi a venire, c'è da sperare (e da lavorare) per una ripresa significativa del conflitto sociale. Ripresa da cui Scuola e Università non saranno immuni, visto che i tagli della “riforma” Tremonti-Gelmini sono sempre via via più effettivi, e programmati fino al 2013.
Un passo indietro, due in avanti. È in questo scenario che a Palazzo Chigi viene presentato ufficialmente il G8 delle Università, dedicato al tema della sostenibilità. Si tratta di un incontro fondamentale, che vedrà riuniti, al Politecnico di Torino, fra il 17 e il 19 maggio, i ministri dell'Istruzione e della Ricerca. Una delle tappe di questo G8 italiano “a geometria variabile”, che vede gli incontri tecnici (e decisivi) spandersi su tutto il territorio nazionale (a Treviso, Siracusa, Palermo, Lecce...), per rendere ancora più difficile una significativa contestazione dell'incontro, già confinato sulla blindatissima Maddalena.
Anche per noi questi momenti rappresentano la possibilità concreta di porre i temi della conflittualità e dell'autorganizzazione sociale all'ordine del giorno, sono occasioni in cui inserire, nell'ambito di una visibilità mediatica accentuata, le lotte volutamente confinate nel perimetro ristretto delle fabbriche, dei call center o delle facoltà. La momentanea battuta d'arresto del movimento studentesco, il passo indietro di chi continua a guardare alla CGIL (e dietro di lei al PD) per veicolare la protesta, ci impone di rilanciare. Come a Londra e a Strasburgo, roviniamogli la festa!
La crisi sta rapidamente producendo cambiamenti nei comportamenti sociali: sta a noi far sì che questa rabbia non sia incanalata nella guerra tra poveri, nel razzismo, nella caccia al “diverso”, ma produca una conflittualità sociale più avanzata. Per rompere la blindatura che il Governo ci ha costruito intorno, serve unire le lotte proprio al livello che queste stesse lotte indicano, e far esplodere le contraddizioni. Gli ultimi mesi ci fanno capire che gli scenari sono mobili, che il momento storico è unico, che i giochi interimperialisti sono aperti. Noi dobbiamo far sì che i giochi siano aperti fino in fondo, che si rimetta in questione tutto il sistema. Se aumenta la crisi, alziamo il livello dello scontro: apriamo un ciclo di lotte sociali!
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