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Articolo 18 e piccola impresa

La leva per un altro modello di sviluppo

(20 Maggio 2003)

di Andrea Ricci (responsabile Dipartimento Economia PRC)

La contrarietà al referendum manifestata dalla sinistra moderata (dalla Margherita a Fassino e Cofferati) viene motivata con la necessità di tutelare le piccole imprese. Si sostiene che l’estensione dei diritti dei lavoratori avrebbe gravi ripercussioni su migliaia di piccole aziende, con conseguente contraccolpo negativo sull’occupazione. Il sistema industriale italiano sarebbe ancora affetto da un irrisolto dualismo dimensionale, in cui la piccola impresa è vista come un soggetto fragile e sostanzialmente estraneo ai meccanismi di accumulazione del capitale industriale e, pertanto, necessiterebbe di particolari agevolazioni per ridurre i costi di produzione, al fine di evitare la crisi e il declino. Tra piccola e grande impresa, secondo questo approccio, esisterebbe un rapporto di differenziazione e di reciproca estraneità, tale da giustificare una diversa normativa in materia di diritti del lavoro. In alcuni interventi sono echeggiati addirittura toni idilliaci per descrivere il rapporto fiduciario e amicale che legherebbe il lavoratore della piccola impresa al proprio datore di lavoro. Il lavoratore della piccola impresa non avrebbe bisogno di un bagaglio inalienabile di diritti perché sarebbe già tutelato dal clima di aiuto e di reciproca collaborazione con il titolare. Nella piccola impresa non vigerebbe quel contrasto conflittuale di interessi tra lavoro e capitale che caratterizza la grande impresa.

Tali argomentazioni sono prive di qualsiasi fondamento economico e nascondono una totale incomprensione dei problemi economici e della realtà sociale dell’Italia. In questo modo, l’Ulivo conferma ancora una volta di non avere nessuna idea e nessuna proposta per costruire una reale alternativa al neoliberismo integrale del Governo Berlusconi.

IL LIMITE DEI 15 DIPENDENTI: SPECCHIO DI UNA REALTÀ PRODUTTIVA DA LUNGO TEMPO SUPERATA.

Il limite quantitativo dei 15 dipendenti è oggi del tutto arbitrario e privo di qualsiasi motivazione logica. Allora, quando lo Statuto dei Lavoratori fu approvato, nel 1970 dopo lunghi anni di lotte operaie, la fissazione della soglia dei 15 dipendenti era lo specchio della realtà produttiva italiana degli anni Cinquanta e Sessanta. Il modello produttivo era ancora quello fordista, con una forte concentrazione della produzione industriale in grandi stabilimenti e in grandi imprese. Le piccole imprese rappresentavano un residuo di precedenti modi di produzione, avevano un livello di competitività assai basso e si concentravano nei settori non esposti alla concorrenza estera (commercio al dettaglio, piccola produzione artigianale per i mercati locali). La gran parte delle piccole imprese industriali era geograficamente concentrata in quelle regioni che ancora mantenevano una struttura produttiva prevalentemente agricola. Il cuore del sistema industriale italiano negli anni del boom economico era localizzato in massima parte nel Triangolo industriale, dove operavano i grandi stabilimenti per la produzione di massa. La soglia dei 15 dipendenti poteva allora essere considerata come transitoria e di importanza secondaria, perché si pensava che l’allargamento dell’industrializzazione ad altre aree del Paese avrebbe progressivamente ridotto il peso delle piccole imprese e perché la nuova conflittualità operaia non aveva ancora investito le piccole e marginali unità produttive.

LA RISTRUTTURAZIONE INDUSTRIALE E IL DECENTRAMENTO PRODUTTIVO DEGLI ANNI SETTANTA E OTTANTA.

Le cose, come si sa, sono andate diversamente. A partire dalla seconda metà degli anni Settanta il sistema industriale italiano è stato investito da un possente processo di decentramento produttivo, sia in termini geografici che in termini dimensionali. La crisi della grande impresa, causata dalla ribellione operaia alle forme di comando fordista, portò a colossali processi di ristrutturazione industriale, fondati sull’esternalizzazione di intere fasi della produzione e sull’utilizzo massiccio del sistema dell’appalto e della subfornitura. L’individualizzazione della domanda dei consumatori, inoltre, rilanciò l’importanza della produzione di qualità rispetto alla produzione di serie. La rivoluzione organizzativa e tecnica, resa possibile dalle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, costituì lo strumento materiale di questi processi. La piccola impresa, potendo contare su una maggiore flessibilità organizzativa, cessò di essere una forma residuale, destinata alla scomparsa, e assunse un ruolo decisivo nella nuova configurazione produttiva. Il decollo industriale dell’area NEC (Nord-Est-Centro) si basò su questi processi e si impose come nuovo motore della crescita.

Fattore determinante di queste trasformazioni furono proprio i minori diritti goduti dai lavoratori delle piccole imprese. Ciò che prima era considerato come un sintomo di statica arcaicità, divenne invece uno dei fattori più dinamici della ristrutturazione dell’apparato produttivo nazionale. L’assenza di alcuni diritti elementari per i lavoratori consentì al sistema delle piccole imprese di sfruttare a pieno le nuove opportunità di mercato, attraverso una gestione discrezionale della manodopera, una riduzione dei costi complessivi del lavoro e un maggiore controllo delle lotte operaie. Paradossalmente, si può affermare che una grande conquista operaia come lo Statuto dei Lavoratori, fu utilizzata dal capitale industriale per procedere ad una trasformazione strutturale del modello produttivo in grado di neutralizzare le stesse conquiste operaie precedenti.

Dopo queste trasformazioni radicali il sistema della piccola impresa non può più essere considerato come un residuo del passato, sostanzialmente estraneo e marginale rispetto al meccanismo dell’accumulazione, che dovrebbe quindi essere paternalisticamente protetto. Al contrario, la piccola e media impresa è un elemento centrale delle nuove forme produttive, perfettamente integrato e funzionale, sia pure attraverso relazioni di subordinazione e di assoggettamento, alla grande impresa nazionale e transnazionale. A differenza degli anni Cinquanta e Sessanta, oggi le caratteristiche strutturali della piccola impresa hanno un impatto sistemico, che si ripercuote direttamente sull’intero modello produttivo, determinandone in buona parte il livello di competitività. Per queste ragioni, il contrasto conflittuale di interessi tra lavoro e capitale nelle piccole imprese, lungi dall’essere irrilevante, è oggettivamente acuto e, se non si manifesta, è soltanto perché il lavoratore è spogliato delle tutele necessarie per rivendicare le proprie ragioni.

Per questi motivi è assolutamente privo di senso economico ribadire oggi le stesse argomentazioni che 35 anni fa portarono ad istituire la soglia dei 15 dipendenti. Oggi, semmai, il problema è esattamente l’opposto di quello che si poneva allora.

I PROBLEMI ATTUALI DEL MODELLO INDUSTRIALE ITALIANO.

E’ infatti universalmente riconosciuto che la principale difficoltà del sistema industriale italiano è costituita da una struttura dimensionale delle imprese troppo piccola e frammentata. La dimensione media delle imprese italiane era pari a 3,6 addetti nel 1999. In Italia le imprese con meno di 10 addetti impiegano il 47% del totale degli occupati, contro il 21% della Germania, il 22% della Francia e il 27% del Regno Unito. Per le sole imprese del settore industriale la dimensione media in Italia è di 8,7 addetti, contro i 15 addetti della media europea. Questa caratteristica produce una carenza strutturale di innovazione, di investimenti, di formazione del personale e di ricerca e sviluppo, che mina la competitività del sistema industriale italiano.

Nel 1999 l’investimento per addetto nelle imprese industriali fino a 19 dipendenti era di 5.000 euro, contro i 10.200 euro delle imprese con oltre 250 dipendenti e contro un dato medio per il totale delle imprese industriali di 7.000 euro. La percentuale di imprese che hanno introdotto un’innovazione di prodotto nel triennio 1998-2000 varia per la piccola impresa dal 3,3% delle microimprese fino a 2 addetti al 18,4% di quelle fino a 19 addetti, mentre già considerando la fascia dimensionale di 50-99 addetti il tasso di innovazione di prodotto per impresa sale al 35,9%.

Analogo quadro per le imprese che hanno svolto nel medesimo periodo attività di ricerca e sviluppo: si va dall’1,6% per le microimprese al 10,9% per le imprese fino a 19 addetti, contro un 32,5% delle imprese tra 50 e 99 addetti. Solo il 2,5% dell’attività complessiva di ricerca e sviluppo è effettuata da imprese al di sotto dei 50 dipendenti. E’ quindi da addebitare principalmente alla elevata frammentazione aziendale il basso livello di attività di ricerca e sviluppo rispetto agli altri Paesi industriali: nel 1998 le spese per ricerca e sviluppo effettuate dalle imprese, escludendo quindi la ricerca pubblica, erano pari allo 0,56% del PIL in Italia, all’1,37% in Francia, all’1,57% in Germania, all’1,14% nel complesso dell’Unione Europea e addirittura al 2,1% negli USA e nel Giappone.

La quota di imprese che hanno svolto attività di formazione del proprio personale nel 1999 cresce esponenzialmente con la dimensione di impresa, andando dal 16,6% delle imprese con 10-19 addetti all’89,1% delle imprese con oltre 1000 addetti. Questo dato fa dell’Italia, insieme al Portogallo, il Paese dell’Unione Europea con minor tasso di formazione del personale nelle imprese con oltre 10 dipendenti.

La specializzazione produttiva dell’Italia nella fascia medio-bassa della divisione internazionale del lavoro, con una concentrazione produttiva nei settori tradizionali e maturi del cuoio, del tessile e dell’abbigliamento in diretta concorrenza con i Paesi in via di sviluppo, deriva in larga misura dalla struttura industriale basata sulla piccola e media impresa. Infatti, il valore aggiunto per addetto, che è un indicatore della qualità tecnologica della produzione, è pari a 64.300 euro nelle imprese industriali sopra i 250 addetti e a 27.400 per quelle fino a 19. Mentre le imprese con oltre 20 addetti hanno esportato nel 1999 il 30% del fatturato, le imprese con 1-9 addetti hanno esportato solo l’8,3% del proprio fatturato e quelle tra 10 e 19 addetti il 15,7%.

Nel corso degli anni Novanta la quota complessiva delle esportazioni italiane sul totale mondiale si è ridotta di un quarto, passando dal 4% al 3%. I dati della bilancia dei pagamenti degli ultimi due anni mostrano un deficit crescente delle partite correnti del nostro Paese, evocando con ciò lo spettro del ritorno del vincolo esterno alla crescita, nonostante la fase recessiva dell’economia. D’altra parte, la competizione di prezzo dei prodotti industriali della piccola impresa poteva essere garantita in precedenza da una strisciante svalutazione della lira. Oggi che, con l’introduzione dell’euro, questo non è più possibile, soltanto un costante miglioramento della qualità dei prodotti può garantire lo sviluppo. In questo nuovo quadro, quello che negli anni Settanta e Ottanta era stato un fattore propulsivo della competitività internazionale dell’Italia, il decentramento produttivo, si è tramutato nel corso del decennio successivo in un fattore di freno dello sviluppo. Si capisce allora perché l’obiettivo di un aumento della dimensione media delle imprese è esplicitamente posto come essenziale sia dalla Confindustria, sia dal Governo e dalla Banca d’Italia.

Affinché un processo di consolidamento industriale possa realizzarsi è però necessario eliminare gli incentivi strutturali alla frammentazione aziendale, primo fra tutti quello relativo alla maggiore discrezionalità nell’uso della forza-lavoro. I costi del lavoro sono infatti sensibilmente più bassi nella piccola impresa. Nel 1999 il costo del lavoro medio annuo per dipendente era di 19.700 euro nelle imprese industriali fino a 19 dipendenti, contro i 37.600 euro delle imprese con oltre 250 lavoratori e contro un dato medio complessivo di 28.200 euro. Nelle piccole imprese, inoltre, l’orario di lavoro reale è significativamente più alto che nelle grandi imprese. Nel 1999 le ore lavorate per dipendente nelle piccole imprese industriali sono state superiori di 115 ore a quelle delle grandi imprese. Un lavoratore di una piccola impresa, quindi, in media lavora tre ore in più alla settimana rispetto ad un suo omologo, impiegato in un’impresa di maggiori dimensioni, e guadagna la metà. Altro che rapporto fiduciario e amicale tra lavoro e piccola impresa!

Questo più alto costo del lavoro nelle grandi imprese non è compensato da un maggiore valore aggiunto per dipendente. Infatti, mentre il costo orario del lavoro nelle imprese industriali con più di 250 addetti è il doppio di quello delle piccole imprese del settore, il valore aggiunto per dipendente, cioè non conteggiando il titolare dell’azienda, è solo 1,5 volte superiore. (La fonte statistica dei dati è il Rapporto annuale 2001 dell’ISTAT). Da questi dati emerge dunque con chiarezza che la limitazione dei diritti dei lavoratori nelle piccole imprese è un fattore fondamentale per abbassare il costo del lavoro. Più tutele vuol dire più salario e meno orario di lavoro.

In un quadro economico strutturale di questo tipo, appare evidente che la soglia dei 15 dipendenti è ormai un elemento antistorico, un residuo del passato, un ostacolo alla qualificazione e allo sviluppo del sistema produttivo italiano.

LA DEMOLIZIONE DEI DIRITTI DEL LAVORO PROSEGUE CON IL GOVERNO BERLUSCONI.

Sul terreno di una riqualificazione del sistema industriale italiano come condizione necessaria ad una ripresa economica, oggi si scontrano due ipotesi contrapposte di modello di sviluppo. Da un lato, Confindustria e Governo puntano ad estendere i diritti della piccola impresa in materia di gestione della forza-lavoro a tutte le imprese. E’ questa una ricetta coerente, ispirata ad un neoliberismo integrale, secondo cui il massimo di efficienza economica sarebbe raggiunto quando il lavoro risultasse completamente mercificato, reso assolutamente identico e indifferenziato rispetto a qualunque altro input del processo produttivo (macchinari, materie prime, beni intermedi). E’ la presenza nella produzione di un fattore dotato di soggettività, e quindi portatore di diritti, il lavoro, ad inficiare, la piena razionalità del processo economico.

Il processo di livellamento delle condizioni di competitività tra piccola e grande impresa ha trovato negli ultimi anni completa realizzazione, a tutto danno dei lavoratori, sia sul piano della dinamica salariale, con il progressivo deperimento dello strumento della contrattazione collettiva, sia sul piano della libertà imprenditoriale nella gestione della forza-lavoro in entrata, con la liberalizzazione dei meccanismi di assunzione, sia sul piano dell’utilizzo della manodopera all’interno del processo produttivo, con la flessibilità delle prestazioni lavorative. L’ultimo passo, l’anello ancora mancante, è quello della libertà di licenziamento, della piena discrezionalità sui flussi di forza-lavoro in uscita. Ma in questa direzione il Governo Berlusconi non è stato con le mani in mano e sta speditamente procedendo nell’estensione a tutte le imprese dei privilegi in materia di licenziamento e di diritti dei lavoratori goduti dalle piccole imprese.

Con la legge-delega n.30/2003 sul mercato del lavoro sarà possibile frantumare la titolarità giuridica di un’impresa e così scorporare formalmente un processo produttivo integrato. Un’impresa sopra i 15 dipendenti potrà essere così suddivisa in una pluralità di piccole imprese giuridicamente autonome, in cui non si applicano i diritti previsti dallo Statuto dei Lavoratori. L’unico requisito formale deve essere quello dell’autonomia funzionale delle unità scorporate. Questo requisito dovrà esistere nel momento in cui avviene lo scorporo e non, come previsto dalla normativa preesistente, essere un requisito organizzativo strutturale dell’impresa, in vigore da lungo tempo. In questo modo si aggira la soglia dei 15 dipendenti e si svuotano di fatto le tutele previste dallo Statuto dei Lavoratori. Una grande impresa potrà essere giuridicamente organizzata come un complesso integrato di una miriade di piccole imprese con un unico proprietario di fatto. La possibilità di utilizzare lavoro in affitto, non solo in via individuale ma anche per gruppi omogenei di lavoratori, garantirà all’impresa di espandere la produzione e l’impiego di manodopera senza correre il rischio di superare, in una qualsiasi delle unità produttive giuridicamente autonome in cui è suddivisa, la soglia dei 15 dipendenti. Come se tutto questo già di per sé non bastasse, la proposta di legge 848 bis, in via di approvazione parlamentare, delega il Governo a prevedere la sospensione per quattro anni dell’articolo 18 nelle aziende in cui attualmente esso è vigente. Come si vede, l’unica possibilità di mantenere in vigore la tutela contro il licenziamento arbitrario anche per i lavoratori che attualmente sono garantiti, è quella della sua estensione universale.

In questa visione neoliberista, la strada del rilancio della produzione industriale rimane, però, sempre quella di una competitività di prezzo, basata sulla compressione dei costi complessivi del lavoro. Soltanto l’abbandono di un approccio neoliberista e l‘avvio di un’inversione radicale delle politiche economiche è in grado di prospettare una reale qualificazione della struttura produttiva italiana in grado di collocare il nostro Paese nella fascia alta della divisione internazionale del lavoro.

L’ESTENSIONE DELL’ARTICOLO 18 COME LEVA DI UN ALTRO MODELLO DI SVILUPPO

E’ questa alternativa di modello di sviluppo economico e sociale che ha mosso le forze promotrici del referendum sull’articolo 18. Mentre Governo e Confindustria vogliono estendere a tutte le imprese i privilegi delle piccole imprese in materia di lavoro, dall’altro lato, le forze che hanno promosso il referendum puntano, viceversa, ad estendere i diritti dei lavoratori a tutte le imprese. Anche questa è una prospettiva coerente sul piano economico, dichiaratamente antiliberista, che innescherebbe processi di profonda riqualificazione del sistema industriale italiano, orientati sulla promozione della qualità tecnologica, piuttosto che sul contenimento dei costi.

Il rilancio dell’apparato produttivo italiano avverrebbe sulla base dell’imposizione di una nuova serie di vincoli interni alla produzione, determinati da più estesi diritti del lavoro, che richiederebbero un balzo in avanti in termini di innovazione e di qualità. In questo processo di riorientamento del sistema industriale, un nuovo ruolo pubblico nella promozione e nella gestione della produzione si accompagnerebbe a più estese garanzie per i lavoratori. Nuove rigidità nel sistema proprietario, attraverso la presenza pubblica, e nel lavoro, attraverso maggiori diritti, come strumenti di un nuovo modello di sviluppo basato sulla qualità della produzione e del lavoro. Nazionalizzazione della FIAT ed estensione dell’articolo 18 sono quindi due proposte tra loro collegate da un’unica strategia alternativa di politica economica e industriale, che allude ad un altro modello di sviluppo economico e sociale.

In questo quadro, la stessa funzione della piccola impresa dovrebbe mutare radicalmente, divenendo uno strumento di propulsione dell’innovazione in nuovi mercati emergenti, di dimensioni ancora insufficienti per la produzione di massa. La piccola impresa andrebbe sostenuta non negando i diritti del lavoro e così schiacciandola in una pura competitività di prezzo senza prospettive, ma attraverso mirate politiche del credito, della formazione e dell’innovazione. Inoltre, sarebbe necessario e urgente estendere la copertura degli ammortizzatori sociali alle piccole imprese, per consentire una gestione delle crisi aziendali non traumatica per i lavoratori, oggi del tutto privi di meccanismi di protezione. Soltanto in questo modo, la piccola impresa potrebbe acquistare una reale autonomia di mercato e liberarsi dai vincoli di subordinazione alla grande impresa. E’ questo un progetto estremamente serio e realistico di governo alternativo dell’economia.

In questi anni, l’assenza di una politica industriale attiva e lo smantellamento dell’industria pubblica, svenduta al grande capitale nazionale e internazionale, ha prodotto vantaggi solo alla grande impresa privata, a scapito dei lavoratori e delle piccole imprese. Infatti, nonostante che la quota del reddito da lavoro sul totale sia scesa nel decennio Novanta di oltre 5 punti percentuali, nello stesso periodo i margini di profitto delle piccole imprese si sono contratti di circa 6 punti percentuali. Solo le grandi imprese hanno tratto vantaggio dalle politiche neoliberiste e dall’attacco ai diritti e al salario dei lavoratori. Vale la pena di riportare un passo della Relazione economica 2001 della Banca d’Italia : “Le piccole imprese italiane hanno conseguito negli anni novanta risultati più modesti rispetto alle aziende di maggiori dimensioni, in termini di profittabilità e di produttività. Il divario di redditività esistente negli anni settanta a favore delle piccole imprese si è progressivamente contratto a causa della forte crescita dei margini delle grandi imprese…Dal 1995 la profittabilità delle grandi imprese manifatturiere ha raggiunto livelli superiori a quella delle piccole” (pag. 105 ). Anche il sistema della piccola impresa dovrebbe quindi richiedere una svolta nella politica economica ed industriale e l’abbandono del neoliberismo.

Diritti dell’impresa (cioè comando del capitale) contro diritti dei lavoratori (cioè autonomia del lavoro), come fondamento del modello di sviluppo economico e sociale: è questo l’oggetto dello scontro referendario. Chi, come la sinistra moderata, si attarda a ripetere vecchie e stantie argomentazioni contro il referendum è fuori della realtà, prigioniero di un passato ormai morto, e si mostra del tutto incapace di offrire una reale alternativa per il governo del Paese.

Bollettino di informazioni a cura del Dipartimento Nazionale Economia Area Lavoro e Diritti Sociali Partito della Rifondazione Comunista
Numero 4 - Maggio 2003

Andrea Ricci

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