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La depoliticizzazione della questione palestinese

(26 Luglio 2010)

anteprima dell'articolo originale pubblicato in www.forumpalestina.org



Qualche giorno fa, risalendo per le strade di Ramallah, ho notato come ai bordi di alcune vie principali fossero state predisposte delle macchinette per il pagamento del parcheggio, rigorosamente "Made in China". Poco sorpreso dalla scoperta ho notato come su una di queste macchinette fosse presente una piccola scritta lasciata probabilmente da un giovane writer palestinese "Grazie Fayyad $" con il simbolo del dollaro a suggellare il tema politico del disegno.

Da qualche tempo parlare di politica interna palestinese risulta particolarmente complicato in quanto se da un lato la situazione rimane fortemente bloccata sul fronte delle tensioni tra Hamas e Fatah, con la permanenza di due governi e due sistemi politici ormai differenti, dall'altro l'accento è posto sempre più sul processo di riforma delle istituzioni palestinesi attuato dal primo ministro Salam Fayyad e sostenuto in gran parte dalla comunità internazionale. In un certo senso si tratta di una direzione obbligata in quanto conoscere effettivamente il sistema di governo di Hamas nella Striscia o l'organizzazione del potere del movimento islamico appare quanto mai difficile.

Per quanto riguarda il processo di riforma delle istituzioni palestinesi invece (in questo senso le istituzioni che governano la Cisgiordania) aumentano a dismisura gli apprezzamenti per la politica di Fayyad in West Bank, sostenendo come questo processo, un misto di pratiche di buon governo condite con l'aumento degli apparati di sicurezza, rappresentino la costruzione "dal basso" dello Stato palestinese.

Più che di Stato si potrebbe parlare della parvenza di un quasi - fallito Stato forte, riprendendo e unificando per il caso palestinese gli emblematici concetti di politica internazionale di quasi State, failed State e strong State, laddove i termini forte, quasi e fallito, qualificano un'entità inesistente, ovvero lo Stato. Proprio quest'espressione - quasi-failed strong State, identifica al meglio il processo di riforma, ovvero il fatto che si tenti di riformare le istituzioni prima dello Stato, che si cerchi disperatamente la democrazia prima dello Stato, che s'inondi di denaro un processo che non ha un sostegno popolare e soprattutto politico.

In questo senso non s'intende criticare alcuni dei risultati positivi raggiunti dall'amministrazione nel tentativo di ripulire l'apparato burocratico da elementi di corruzione e monopolio, significa invece interrogarsi sulla tenuta nel lungo periodo di un siffatto sistema politico.

L'obiettivo della riforma è chiaramente quello di depoliticizzare la questione palestinese, eliminando gli elementi "movimentisti" dalle istituzioni, relegando l'intera causa palestinese ad una questione amministrativa e di buon governo, con la speranza di poter acquisire quella legittimità necessaria per negoziare un accordo con Israele.

Al di là del fatto che gli elementi "movimentisti" non sono stati del tutto eliminati e che un eventuale accordo con Israele si limiterebbe alle enclaves della Cisgiordania, per cui si tratterebbe di un accordo monco, è proprio la questione politica a rimanere aperta e, fino ad ora, senza una precisa direzione o soluzione.

Il rinvio delle elezioni municipali previste inizialmente per la metà di luglio e rinviate alla metà di giugno dal Presidente Abu Mazen e dal primo ministro Fayyad rappresenta un'importante chiave di lettura di questo processo, che sta trasformando la Palestina in una specie di entità satellite di Israele debole verso l'esterno e forte verso l'interno, nei confronti della propria popolazione, una specie di fantoccio con forme e stili di governo in perfetto stile arabo.

L'apparato di governo ha nuovamente usato lo spauracchio di Hamas per sostenere come un'eventuale vittoria di Fatah avrebbe compromesso la riconciliazione con il movimento islamico. In realtà Fatah ha fallito nel presentare una lista unica di candidati, con il rischio di presentare diverse liste come accadde nel 2006. Questa volta però il movimento islamico non avrebbe partecipato alle elezioni per cui la vittoria dei membri di Fatah o vicini al movimento sarebbe stata comunque ottenuta. Perché rinviare le elezioni allora?

Il motivo sembra piuttosto semplice: un'unica lista nazionale palestinese avrebbe dato un forte credito al processo di riforma messo in atto dal governo e dalla Presidenza, riportando all'ordine tutte le schegge impazzite di Fatah o di qualche altro piccolo movimento che cercava di rubare voti al carrozzone del movimento nazionale. Si tratta ancora una volta di un tentativo di guidare dall'alto il processo di costruzione politica dello Stato, relegando la base popolare al ruolo di spettatore, invertendo quello che in Scienza Politica è il rapporto tra politics e policy (tra politica nel senso stretto e le politiche attuate dai governi) o più semplicemente rappresentando in pieno la contraddizione tra la narrazione di costruzione "dal basso" perpetrata dal governo e l'effettivo controllo "dall'alto" dell'intero processo.

* Precario dottore di ricerca in Scienza Politica e Relazioni Internazionali presso l'Università di Torino.
paolo.napolitano@gmail.com

(fonte: NenaNews)

www.forumpalestina.org

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