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Harvard disinveste da Israele, mentre cresce la campagna maccartista contro i docenti israeliani ‘disfattisti’. Tel Aviv preoccupata per la fuga di cervelli

(18 Agosto 2010)

anteprima dell'articolo originale pubblicato in www.radiocittaperta.it


Marco Santopadre, Radio Città Aperta

18-08-2010/18:45 --- Paradossalmente, è stato uno dei quotidiani più filo sionisti del nostro paese, il Corriere della Sera, ad informare, in tono allarmato, del massiccio disinvestimento deciso pochi giorni fa da una delle più prestigiose e famose università statunitensi nei confronti di imprese israeliane. Venerdì scorso – ha scritto il Corriere - l’Harvard Management Company, braccio finanziario della più antica università USA, ha comunicato d’avere disinvestito la bellezza di 40 milioni di dollari: tutte partecipazioni azionarie in società israeliane. «Hanno aderito alla nostra campagna di boicottaggio!», esultano i gruppi pro Palestina, ma l’ateneo non si sbilancia e ribatte: «La politica non c’entra». Ma il taglio finanziario è importante: via le 484 mila quote farmaceutiche (30 milioni di dollari) della Teva, stop alle 103 mila azioni (3 milioni e mezzo) nei software della Check Point, basta coi 165 mila titoli (4 milioni) investiti nelle comunicazioni di Cellcom Israel, Partner Communications e Nice Systems. L’entusiasmo degli attivisti della campagna statunitense per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni nei confronti di Israele è forte: «Salutiamo la decisione di Harvard – dice ad esempio Hind Awwad, uno dei coordinatori della campagna BDS - e incoraggiamo tutte le università del mondo a fare lo stesso». La storia dell’adesione di Harvard al boicottaggio è ‘una balla’, commenta Alan Dershowitz, giurista di famiglia ebraica, amico del premier israeliano Netanyahu e membro del senato accademico di Harvard: “C’è qualcosa d’irresponsabile e di vergognoso negli estremisti antisraeliani — dice — che fa perdere loro di credibilità. È stata una decisione puramente economica, dovuta a un periodo di crisi”.

In Israele invece la campagna di criminalizzazione di quegli intellettuali o di quelle poche istituzioni non completamente allineate con il sionismo-pensiero subisce ogni giorno che passa una recrudescenza: è di questi giorni la lettera che un’organizzazione sionista estremista, Im Tirtzu, ha inviato al rettore della Ben Gurion University del Negev. I mittenti avvertono che non arriveranno più donazioni, neanche dall’estero, se non smetterà la «politica antisionista» degli accademici. Segue elenco dettagliato di 9 professori, 6 associati, 2 assistenti e 8 collaboratori «famosi perché militano nell' estrema sinistra e invitano gli studenti all’obiezione di coscienza». Scrive Michele Giorgio sul quotidiano il Manifesto in edicola oggi:
“È un attacco senza precedenti quello che la destra, e non solo, sta portando contro alcuni docenti «dissidenti» delle università di Beersheva e Tel Aviv accusati di essere promotori del «post-sionismo» e, di conseguenza, di minare le fondamenta dello Stato di Israele. Sotto accusa del gruppo Im Tirtzu, composto in prevalenza da studenti legati al Likud e alla destra estrema, sono finite in particolare le facoltà di sociologia e scienze politiche dove si anniderebbe la colonna «post-sionista» formata da docenti «disfattisti» e «anti-nazionalisti». Non si tratta dell'abituale campagna maccartista che la destra ultranazionalista conduce da anni contro i «non allineati». Im Tirtzu, che gode dell'appoggio dietro le quinte del ministro dell'istruzione Gideon Saar e rispecchia l'opinione di una larga fetta di israeliani, minaccia il boicottaggio dell'Università di Beersheva «se non porrà fine alla sua tendenza antisionista» e ha avvertito che condurrà una campagna per persuadere i donatori locali e internazionali a indirizzare altrove i loro fondi se la situazione denunciata non sarà corretta. Minaccia da prendere molto sul serio perché nei mesi scorsi Im Tirtzu è stato in grado di lanciare una pesante offensiva, con l'appoggio di parte della stampa, contro il New Israel Fund che raccoglie fondi per associazioni e gruppi dei diritti umani e civili, poiché alcuni dei beneficiari avevano collaborato alle indagini svolte dal giudice sudafricano Richard Goldstone sui crimini di guerra commessi durante l'offensiva «Piombo fuso» a Gaza. In una lettera inviata il 18 luglio al rettore dell'università, Rivka Carmi, Im Tirtzu sostiene che soprattutto nella facoltà di scienze politiche e sociali di Beersheva una parte del corpo accademico svolge «attività politica di estrema sinistra»; alcuni docenti hanno firmato una petizione a sostegno del rifiuto di servire nelle forze armate e altri ancora «sono noti agli studenti per il loro antisionismo». L'attacco più duro è diretto al professor Neve Gordon, favorevole al boicottaggio internazionale di Israele in risposta alle sue politiche nei confronti dei palestinesi sotto occupazione. I rettori hanno scritto in un documento che le «università in Israele non sono tenute a provare il patriottismo del personale a qualsivoglia organizzazione» perché «non sono un organo politico e il personale accademico è scelto secondo criteri di eccellenza nella ricerca e nell'insegnamento». Ma la reazione appare inadeguata. Il deputato e intellettuale comunista Dov Henin mette in guardia sull'influenza di cui gode Im Tirtzu. «Si tratta di un'organizzazione radicale ma non piccola, e gode di molti appoggi nel mondo politico - ci ha detto Henin - da un lato fa demagogia politica di ultradestra ma dall'altro è lo specchio di una fetta consistente della nostra società che si è spostata negli ultimi anni a destra, recuperando in pieno il discorso sionista». A dimostrare che Im Tirtzu è l'espressione più agguerrita di una tendenza generale in atto in Israele di attacco alle voci dissidenti nel mondo accademico - che, al contrario delle accuse, è in larga parte fedele ai principi del sionismo e collabora anche alle ricerche e produzioni militari (l'ateneo Bar Ilan ha un suo college nella Cisgiordania occupata) - c'è anche la recente indagine su «Post-sionismo e università», svolta dall'«Istituto per le strategie sioniste» allo scopo di accusare la facoltà di sociologia dell'università di Tel Aviv di essere una roccaforte della «sinistra radicale». L'impatto del rapporto è stato immediato e il presidente dell'ateneo, Joseph Klafter, su pressione del Consiglio per l'Istruzione Superiore, ha deciso di riesaminare con attenzione i programmi della facoltà di sociologia. Un docente anonimo ha detto al quotidiano Haaretz che si è accorciata la distanza «tra il controllo dei programmi di studio e il licenziamento dei docenti che non firmeranno una (futura) dichiarazione di lealtà» al sionismo. Intanto accuse di «maccartismo» piovono anche sulla Knesset che ha approvato a inizio settimana, in prima lettura, una legge che impone alle Ong di comunicare ogni donazione ricevuta da governi stranieri o da associazioni estere. Il promotore della legge, Zeev Elkin (Likud), ha spiegato che in questo modo si impedirà quanto accaduto con il giudice Goldstone che, a suo dire, avrebbe ricevuto gran parte dei documenti utilizzati per il suo rapporto proprio da Ong israeliane.”

Da Israele intanto giunge una notizia inaspettata: allarmato da una fuga di cervelli che rischia di depauperare il suo patrimonio scientifico e intellettuale, punto di forza del Paese, Israele ha ora cominciato un deciso sforzo per richiamarli in patria con un piano di incentivi e con la creazione di nuovi posti di lavoro, cattedre universitarie e centri di ricerca. Nello ‘stato ebraico’ l'esodo verso l'estero di molti dei suoi migliori cervelli ha assunto dimensioni che sono divenute causa di vero preoccupazione. In Israele, secondo il prof. Manuel Trachtenberg, presidente di una commissione interministeriale col compito di combattere il fenomeno, la percentuale degli accademici che scelgono di vivere all'estero é addirittura del 25%. In Israele si stima che siano 20-30 mila gli accademici residenti all'estero. Una conseguenza é tra l'altro l'invecchiamento del corpo accademico israeliano. Oltre a allettanti incentivi fiscali, il governo israeliano ha deciso la creazione di una trentina di ''centri di eccellenza'' per la ricerca che dovrebbero richiamare in patria diverse centinaia di ricercatori. E’ solo un problema di soldi? Probabilmente no…

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